DJ MONTANARI, O VOLETE PROPRIO LA CRUDELTA’?

“Scritto su commissione per un teatro francese, “DJ” venne rifiutato in quanto […] il regista temeva che il pubblico, inorridito, avrebbe invaso il palco e linciato tutti quelli coinvolti”: così si esprimeva Alan D. Altieri nella presentazione del pezzo di Raul Montanari compreso nella bella raccolta collettiva “Anime nere”.

I presupposti superficiali per una reazione fortemente caratterizzata dall’emotività come quella profetizzata dal regista c’erano tutti: “la pièce si svolge interamente in una cella di tortura” (Raul Montanari; se non segnalato diversamente, d’ora in avanti tutte le citazioni saranno sue), la scansione musicale dell’azione i cui personaggi sono Dio (il Boss) e l’umanità (l’Uomo) perennemente sacrificata attraverso la mano sinistra del nostro demiurgo (Gabriel e Dj), cosa che in un certo senso sarebbe quasi sopportabile se la nostra specie non venisse anche perennemente dileggiata, con un disegno volontario, da Dio stesso.

Proprio quest’ultimo pretende che la crudeltà diabolica venga superata dal genere umano in una forma che ha del disumano, quando non addirittura della più crassa stupidità: ritenere una pura e semplice illusione ogni dolore psicofisico, anche il peggiore, e di trascenderlo. Proprio un tale atteggiamento divino risulta particolarmente beffardo verso lo spettatore ed è capace – con la sua iterazione – di insinuarsi e irritare sempre più nel profondo il pubblico nel corso dell’evolversi cattolico delle parole del Boss: “Non ti chiedo di resistere per me […] ma per te stesso. Difendi l’uomo in te. […] Fatti paladino della tua persona. […] Il dolore non esiste. Il corpo non esiste. […] Mi senti figlio?] E’ soltanto lo spirito a plasmarti […] Tu sarai un testimone coraggioso. Non è vero? […] Non ascoltare il dolore! Non ascoltare il dolore! Ascolta solo la voce del tuo cuore! Lui non può farti niente, niente! Devi avere pietà di lui! E’ lui il prigioniero, non sei tu”.

In stretto collegamento con la tortura, quasi a scandirla in stazioni, la musica avrebbe fatto il resto – ricordiamo che si tratta dell’unica arte capace di scuoterci nel profondo, in senso fisico (facile per tutti noi piangere per una stupida canzoncina, quasi impossibile per una grande pagina di letteratura): Dj “toccando un cursore, infligge all’Uomo scariche elettriche ritmate, che seguono il pulsare della musica creando una folle mistura di urla, suoni elettronici e luci […] La musica più lenta suggerisce al cursore che comanda le scariche elettriche movimenti altrettanto lenti e prolungati […] Si scatena una sarabanda infernale di luci e suoni: la musica a pieno volume, le due voci registrate e udite in precedenza che ripetono a loop una o due parole o grida, il tutto punteggiato dalle urla dell’Uomo, che sobbalza sulla poltrona raggiunto da scariche elettriche ritmate”.

A proposito delle sonorità richieste, pur senza scendere nei particolari, Montanari parla di:

1) “musica techno”,

2) “una musica malinconica” e più avanti di “un bravo ovattato, ondulato, sognante (per esempio, “Man Next Door” o “Teardrop” dei Massive Attack)”,

3) una semplice – ma come vedremo presto particolarmente demoniaca – registrazione di voci.

Proviamo adesso a diventare degli ipotetici registi e a sostituire alle proposte dell’autore:

1) power electronics (dagli Whitehouse alla Mauthausen Orchestra, da Maurizio Bianchi ai Sutcliffe Jugend (1)) e distruggiamo le attese del pubblico senza lasciargli vie di scampo tonali, così come l’Uomo non trova vie d’uscita dalla tortura.

2) Passiamo quindi a brani più abituali per le orecchie dell’ascoltatore, al rock dei Rolling Stones di “The Spyder and the Fly” e Bob Dylan (in particolare “Rainy Day Women Numbers 12 and 35”) trovando però il modo di ricordare agli spettatori, alla fine dei brani, che si tratta di quelli più amati da Peter Sutcliffe (1), lo squartatore dello Yorkshire, così da far comprendere a chi è in sala che non necessariamente la violenza (della rappresentazione) corrisponde alla violenza dell’azione. Si tratta soltanto d’una questione di contesto. La prima vittima del serial killer, infatti, fu una prostituta colpita con un sasso in una calza: “Ti tirano le pietre, proprio come avevano promesso / […] ti tirano le pietre quando tenti di tornartene a casa / […] /Insomma, ti tirano le pietre quando cammini per la strada / […]/ ti tirano le pietre quando cerchi / di guadagnare qualche dollaro /[…] //Insomma, ti tirano le pietre e ti dicono che è la fine / allora ti tirano le pietre” (“Rainy Day Women Numbers 12 and 35”, traduzione dal sito “Fabio’s Room”). Ma c’è di più: tutti gli omicidi da lui commessi tra il 1969 e il 1980 si ritrovano in forma metaforica nei versi che seguono e che lo Yorkshire Ripper conosceva bene fin dalla sua giovinezza: “Mi siedo, mi annoio, mi abbasso, mi faccio un giro / Fino al bar e al posto in cui mi trovo / Sedendomi e bevendo, pensando cose leggere / Sulla biondona alla mia sinistra / Poi io dissi ” Ciao!” come un ragno a una mosca / […]// Era comune, civettuola, sulla trentina / Avrei voluto scappare ma ero da solo / più tardi lei mi disse che era un’operaia / Mi disse che le piaceva il modo in cui stringevo il microfono / Io dissi “mia cara” come un ragno a una mosca / E lei finì dritta nella mia rete” (traduzione di “The spider e the fly”, dal sito “allsong.tv”). Insomma, a volte bastano e avanzano dei vulgatissimi Bob Dylan e i Rolling Stones per istigare al delitto, tutto dipende da chi li ascolta e dai ricordi che evocano.

3) L’ultimo passo in questa valle di lacrime, nel nostro “gioco” di sostituzioni – ormai fatico a definirlo così –, è “Buyer’s Market” di Peter Sotos, dove basta un collage di pianti e lamenti infantili normalissimi ma semplicemente presentati “come se” fossero frutto di atti sadici nei loro confronti – senza che in realtà si tratti di veri snufftalk – è capace di generare nel pubblico un rigetto, un senso di sporcizia, semplicemente per aver ascoltato “brani” simili (come si espresse appropriatamente un ascoltatore); in essi, naturalmente, l’assenza di immagini è fondamentale per far immaginare il peggio al pubblico senza che il “compositore” in sostanza faccia nulla di particolare, se non un’ innocua raccolta di lamenti tipicamente infantili: arte concettuale della più demoniaca. Ricordiamo: la crudeltà suprema del testo di Montanari consiste nel torturare l’Uomo attraverso la registrazione di altri tormenti inflitti ai suoi familiari, in particolare al fratello: “L’Uomo scuote la testa, in lacrime. Non l’abbiamo mai visto soffrire così.” Stupefacente: credevamo che il massimo possibile del dolore fosse rappresentato dalla nostra personale sofferenza fisica di monade ultrachiusa in se stessa e invece no… sappiamo soffrire di più per gli altri: “Non l’abbiamo mai visto soffrire così…” per una volta, grandezza dell’uomo.

Gianfranco Galliano

Nota

(1) E’ vero, lo confessiamo: non abbiamo scelto a caso i “Sutcliffe Jugend”. Sono uno storico gruppo di musica elettronica estrema che nel proprio nome da un lato evoca le “Hitlerjugend” naziste, la ben nota organizzazione giovanile di Hitler, e dall’altro, sostituendo al nome del padre del nazismo proprio quello dello Yorkshire Ripper, vuole evidentemente indicare un esempio di crudeltà oltre il quale è ben difficile andare: nel loro caso, trattandosi di musica, basta ascoltarne qualche pezzo per trovarsi di fronte a un accurato muro di suoni ben difficile da digerire a un primo (e anche a un secondo) ascolto. L’impressione, almeno nei casi migliori, non è quello che si tratti della colonna sonora di un horror o ancor meglio di un torture porn, bensì di un “intero” film del genere – senza bisogno di vedere niente. Magia (nera) della Power electronics!… Resta il fatto non secondario che nessuno dei componenti del gruppo è finito in galera. Con buona pace dei fautori del politicamente corretto.