HANNIBAL

Ne “Il silenzio degli Innocenti” abbiamo lasciato il dottor Lecter, sette anni prima, al momento della sua fuga. Ora, in questo secondo romanzo di Thomas Harris intitolato “Hannibal”, a lui dedicato, inopinatamente, lo ritroviamo in Italia e, più precisamente, a Firenze.

La cornice medicea è intatta e sublimata dalle descrizioni precise e inappuntabili che ne fornisce l’autore: Santa Maria Novella, il Duomo, Palazzo Vecchio, sfilano dinanzi ai nostri occhi fedeli agli originali e ricchi di fascino e d’atmosfera.

E proprio Palazzo Vecchio sarà scenario di un delitto, non soltanto efferato, ma anche copia pressoché perfetta di un altro delitto rimasto famoso e citato in tutti i libri di storia.

Molti si cimentano infatti sulle tracce del fuggitivo Hannibal “The Cannibal”, com’era stato definito, con la speranza di poterlo acciuffare e guadagnarsi così forti ricompense, offerte dagli organi della Giustizia ufficiali o, meglio ancora, da quella privata.

Il ricchissimo Manson Verger, ridotto a una larva umana proprio da Lecter, offre infatti compensi faraonici a chi troverà il diabolico dottore, così da potergli poi infliggere torture inimmaginabili e destinarlo infine a una morte straziante e orribile. A tal fine corrompe funzionari dell’FBI americani e ispettori di polizia italiani, quali ad esempio Rinaldo Pazzi, discendente diretto di quel Francesco Pazzi, a capo della congiura che uccise Giuliano de’ Medici.

E come il suo avo, nel tentativo di acciuffare Lecter, Rinaldo finirà impiccato alla stessa finestra di Palazzo Vecchio, con le viscere a penzolare al di fuori del corpo.

Tra orrori indicibili – quali ad esempio nell’episodio del regista, scelto da Verger per curare le riprese della morte di Lecter e che invece, al suo posto, finirà sbranato dai maiali selvatici appositamente ammaestrati – per tutto il romanzo prosegue l’inseguimento del dottore che però anticiperà sempre tutti e, da preda, tornerà a divenire imbattibile predatore.

Unica stella che brilla nel firmamento macchiato di sangue e brutture del romanzo, nonché nei labirinti del mondo interiore di Lecter, è Clarice Starling, giovane, bella, coraggiosa e onesta.

E sarà proprio Clarice, insieme al simbolico Palazzo della memoria – che stabilmente abita nella mente del dottor Lecter per allontanarlo e, alla bisogna, estraniarlo da ogni dolore fisico e morale – a salvarlo da una morte orrenda.

Il dottor Lecter era capace d’ignorare ciò che lo circondava, lasciando che le cose gli scivolassero addosso…

Entreremo ora nel palazzo della sua mente.

L’atrio è la Cappella Palatina di Palermo, bella, severa e senza tempo. L’unico memento di mortalità viene dal teschio inciso sul pavimento: a meno che non sia ansioso di attingere qualche informazione dal palazzo, spesso il dottor Lecter si ferma qui, come fa adesso ad ammirare la cappella. Oltre questo punto, distante e complessa, buia e luminosa si estende la vasta struttura che ha ideato.

Hannibal Lecter compie azioni terribili, persino al di là di ogni immaginazione e comprensione umana, eppure, a volte, non si può fare a meno di ammirarlo.

Lecter viene infatti definito “un mostro”, ma più che usarlo nel senso comune, nei suoi riguardi questo termine pare possedere il significato che gli attribuirono i latini in cui per monstrum s’intendeva qualcosa di straordinario, insolito, fuori dal comune, un essere eclettico dalle più diverse sfaccettature, capace di commettere le peggiori crudeltà ed efferatezze indicibili, ma nel contempo dotato di un senso estetico raffinatissimo, intenditore e cultore appassionato di musica e di arte.

E’ elegante, contenuto, mentre s’immerge nella musica, e la luce si riflette sui suoi capelli e sulla vestaglia trapunta, dal lucore di peltro.

Il nostro musicista sorride, finisce il pezzo, ripete una volta la sarabanda per il proprio piacere e, mentre nella grande stanza l’ultima corda pizzicata dal peltro vibra nel silenzio, apre gli occhi, al centro un rosso puntino di luce.

Apparentemente privo di ogni sensibilità, in realtà ne possiede una tutta sua, peculiare che gli permette di condannare e punire senza remissione – sino a farne cibo, così da distruggerne la stessa integrità fisica – i prepotenti, i prevaricatori, gli arrampicatori sociali senza scrupoli, i simulatori, ecc …, ma arrivare poi a concedere la propria stima e pietas –  non infierendo in alcun modo su di loro – nei confronti degli innocenti, degli indifesi, dei coraggiosi e degli onesti.

In un finale a sorpresa, l’atmosfera tesa e fosca che regna su tutto il romanzo, si stempera in un finale a sorpresa tra gli ori e i velluti in un palco del Teatro dell’Opera di Buenos Aires.

Myriam Ambrosini