IL CONVITATO DI PIETRA

L’aria era tersa e con un sole novello, quasi impudico nel suo intenso sfolgorio.

L’uomo camminava… estasiato per tutto quel canto della natura di un’orgogliosa primavera.

Fu un lieve raspare in gola, un bizzarro formicolio al naso lo strappo ad una giornata perfetta.

 

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Un brivido lo colse all’improvviso… gli salì invasivo lungo la schiena e la testa, di lì a poco, iniziò dolorosamente a pulsargli.

Il resto della giornata lo vide abulico, scontento e, assai prima dell’ora consueta, trovò rifugio sotto le coperte.

La notte fu agitata, preda di brevi sogni, ma intrisi di tristezza e d’inquietanti figure dai tratti indefiniti e contorti.

L’alba lo trovò spossato e con la fronte che bruciava.

L’uomo tentò d’ignorare tutta quella sconfortante processione d’eventi negativi, ma alla fine dovette arrendersi e decise di ricorrere al termometro… uno di quelli antiquati, ancora al mercurio, persino divenuti illegali, ma era così tanto tempo che non aveva avuto necessità di consultarlo!

“38” disse a se stesso, seguitando a rabbrividire. Poi qualcosa parve come salirgli dall’esofago e raggiungere velocemente la gola.

I primi colpi di tosse iniziarono a squassargli il petto ed anche l’iniziale formicolio al naso divenne una molesta congestione che, di lì a poco, iniziò a procurargli violenti starnuti.

“Ecco,” si disse l’uomo “mi sono preso l’influenza!” e scosse la testa rannuvolato.

“Poco male…” tentò allora di consolarsi “proverò la ricetta vincente: un po’ di riposo… bevande calde con il miele e, soprattutto, buone letture. In fondo è così tanto tempo che non mi prendo cura di me!”

Quel giorno proseguì, forse più lento del solito, tra lunghe dormite, un occhio poco attento alla televisione e un libro, la cui lettura aveva abbandonato già da tempo a metà.

La notte fu però peggiore di quella precedente, la tosse più convulsa, il respiro maggiormente affaticato ed i sogni trasformati ormai in incubi.

La nuova alba colse l’uomo esausto, preoccupato e la decisione di recarsi in un pronto soccorso gli parve la più opportuna.

 

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La bolgia infernale che l’accolse lo fece indietreggiare e stava già quasi decidendo di tornarsene a casa, quando un nuovo assalto di tosse lo sconvolse, mentre la testa pareva scoppiargli e gli occhi avevano preso a bruciargli intensamente.

Seduto sulla scomoda panca nel corridoio di quel polveroso pronto soccorso, l’uomo attese che venisse il suo turno per affrontare la visita del medico di turno.

<Prego, s’accomodi…> stava quasi per addormentarsi, spossato com’era, quando qualcuno chiamo e ripeté poi il suo nome.

<Non si preoccupi, è soltanto un attacco d’influenza: quest’anno è particolarmente sgradevole ed invasiva. Le segno qualche antibiotico mirato, un’antifebbrile e poi se ne stia al caldo nel suo letto!>

Con una stretta di mano il medico lo licenziò e l’uomo, barcollando lievemente, se ne tornò a casa.

Al suo rientro ogni cosa gli parve come sbiadita, distorta, d’improvviso quasi estranea.

L’uomo a fatica si spogliò e si mise, rabbrividendo, a letto.

Lente le ore e tristi i pensieri che si andavano affollando dentro di lui. Ma fu un bravo paziente: prese gli antibiotici ad intervalli regolari, ingoiò le pillole antifebbrili e stette al caldo, in una primavera che non aveva bisogno di aggiunte di calore.

Nulla però gli fu d’aiuto né di conforto.

Dopo una notte alle soglie del delirio, senza riuscire neppure a farsi la barba e faticando a vestirsi come se avesse dovuto affrontare un turno di lavori forzati, l’uomo s’ingegnò a raggiungere il pronto soccorso.

Quando nuovamente vi mise piede i colpi di tosse lo squassavano, tanto che gli pareva che i suoi polmoni stessero andando in pezzi, il fazzolettone appartenuto al nonno non riusciva più a contenere i ripetuti, violenti starnuti e gli occhi erano tizzoni incandescenti e lacrimosi.

Probabilmente, in quelle sembianze, risvegliò la pietà di qualche camice bianco che lo ricoverò al reparto di pneumologia.

Nel giro di poco più di un’ora i polmoni parvero volersi rifiutare di respirare e la febbre doveva aver raggiunto valori insostenibili e tutto intorno a lui iniziò a divenire nebuloso, indistinto, lontano, sino a svanire del tutto.

 

<Sì… purtroppo il nuovo virus ha raggiunto anche noi: abbiamo il nostro paziente uno!> gli parve che qualcuno mormorasse.

L’uomo attraverso il tubo inserito nella trachea e tutti quei fili e congegni estranei che lo circondavano, capì che al banchetto della sua vita si era seduto il Convitato di pietra.

 

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La primavera, con la sua sfacciata esuberanza, colorava i cieli ed i prati, addolcendo l’aria, ma erano in pochi a notarne quella sua sfarzosa parata: le strade, semideserte, mostravano soltanto sparuti passanti: i volti coperti da una profusione scombinata di mascherine – dalle più sofisticare a quelle fai da te -, gli occhi cerchiati, assenti e nel cui fondo si poteva leggere la paura.

Spesso dispiegati in file ordinate, si guadagnavano mestamente il loro diritto ad alimentarsi… a sopravvivere comunque.

La città appariva ormai abitata da volenterosi automi, uno alieno all’altro, confinati com’erano in quella obbligatoria lontananza e, soprattutto, condannati a divenire, reciprocamente, aspiranti letali nemici.

Un’umanità dolente e spaventata quella che ora abitava questo “mondo alla rovescia”.

Da lontano però giungeva ogni tanto il suono di una radio e più di un balcone mostrava, raccolti in quel nuovo sole primaverile, speranzose famigliole, incredibilmente riunite in una collegialità quasi sacra. Risa di bimbi che avevano magicamente ritrovato i genitori; adulti compresi come non mai nel loro ruolo genitoriale.

Sopra ad ogni cosa, tutti ora volevano più che mai saziarsi al banchetto della vita, sperando che quel Convitato di pietra, ospite quanto mai indesiderato, non giungesse mai.

Myriam Ambrosini