LA BIBLIOTECA DI MABEL

1.

Affetto da una vera e propria mania per la classificazione, fin da adolescente mi misi a catalogare i libri della mia personale biblioteca.

Quando frequentavo il quinto anno delle superiori, contavo già una ragionevole – per la mia età – quantità di volumi: mi stavo avvicinando ai seicento.

Possedevo un timbro di gomma con la seguente dicitura:

BIBLIOTECA DI FERNANDO SORRENTINO

VOLUME N.°____

DATA DI ENTRATA: ____

Non appena acquisivo un nuovo libro, vi applicavo il timbro – sempre con inchiostro nero – sulla prima pagina, lo numeravo progressivamente e registravo – sempre con inchiostro azzurro – la data d’acquisto. Dopo, a imitazione dell’antico catalogo della Biblioteca Nacional, inserivo i suoi dati in una scheda di cartoncino, che archiviavo in ordine alfabetico.

Le mie fonti per reperire informazioni letterarie erano i cataloghi editoriali e il “Piccolo Larousse Illustrato”. Un esempio qualunque: in molte collane di diversi editori si trovava “Atala. René. Le avventure dell’ultimo degli Abenceragi” di Chateaubriand. Convinto da tanta attenzione e dal fatto che Chateaubriand sembrava, nelle pagine del Larousse, rivestire molta importanza, comprai il libro nell’edizione della collana “Austral” di Espasa-Calpe. Nonostante queste premesse, queste tre storie mi risultarono tanto insopportabili quanto inconsistenti.

A compensazione di questi insuccessi, trovai piena soddisfazione nella collana “Robin Hood” della casa editrice Acme, rimasi affascinato da “David Copperfield” e, nella Biblioteca Mundial Sopena, da “Delitto e castigo”.

Dal lato dei numeri pari di avenida Santa Fe, poco prima di arrivare in calle Emilio Ravignani, sorgeva quasi invisibile la libreria Muñoz: buia, profonda, umida e piena di muffa, con pavimenti di listelli di legno che cigolavano un po’. Il suo padrone era uno spagnolo sui sessant’anni, molto serioso e un po’ stucchevole.

Di solito mi serviva l’unico dipendente: giovane, calvo, incompetente e senza molta conoscenza né dei libri che gli chiedevano né della loro ubicazione. Si chiamava Horacio.

Quel pomeriggio, mentre entravo nel negozio, trovai Horacio intento a frugare in diversi scaffali, in cerca di chissà quale titolo. Secondo quello che si poteva intuire, lo aveva sollecitato una ragazza alta e magra che, nel frattempo, faceva scorrere lo sguardo lungo l’ampia tavola dove erano esposti i volumi usati.

Dal fondo del negozio arrivò la voce del proprietario: «Che stai cercando adesso, Horacio…?».

L’avverbio “adesso” tradiva una certa contrarietà.

«Non trovo “Don Segundo Sombra”, signor Antonio. Negli scaffali di Emecé non c’è».

«È un libro di Losada, non di Emecé. Vai a guardare nello scaffale della collana “Contemporanea” della editrice Losada».

Horacio cambiò la zona della sua ricerca e, dopo intensa esplorazione, tornò dalla ragazza e disse: «No, mi dispiace, non c’è restata più nemmeno una copia di “Don Segundo”».

La giovane si lamentò, disse che le serviva per la scuola e chiese dove avrebbe potuto trovarlo.

Horacio, sbigottito di fronte a un quesito troppo impegnativo, spalancò gli occhi e alzò le sopracciglia.

Per fortuna il signor Antonio aveva sentito la domanda:

«Qui intorno – rispose – è difficile. Non ci sono buone librerie. Dovresti andare in centro, a El Ateneo, oppure a quelle di Florida o di Corrientes. O, altrimenti, vicino a Cabildo e Juramento».

La delusione si manifestò sul volto della ragazza.

«Scusami se mi intrometto. – le dissi – Se mi prometti di trattarlo con attenzione e restituirmelo, posso prestarti io “Don Segundo Sombra”».

Mi sentii arrossire per la vergogna, come se mi fossi lasciato andare ad un’audacia assurda. E, al tempo stesso, provai disgusto contro me stesso per essermi lasciato trasportare da un impulso che si opponeva al mio più profondo sentire: amo i miei libri e odio prestarli.

Non so cosa rispose esattamente lei, però – dopo qualche finta smanceria – finì per accettare l’offerta.

«Ho bisogno di leggerlo subito per la scuola», disse, come per giustificarsi.

In seguito seppi che frequentava il terzo anno del collegio femminile di calle Carranza. Le proposi che mi accompagnasse fino a casa mia per consegnarle il libro in questione. Le dissi il mio nome e cognome e lei mi diede il suo: Mabel Mogaburu.

Però, prima di incamminarci, portai a termine l’obiettivo che mi aveva portato alla libreria Muñoz: comprai “I delitti della rue Morgue”. Avevo già letto le “Storie straordinarie” e, affascinato, decisi di ricadere nelle fantasie di Edgar Allan Poe.

«Non mi piace per niente – disse Mabel – È truculento e impressionante. Sempre con queste storie di omicidi, di morti, di feretri… Non mi attraggono i cadaveri».

Mentre camminavamo per Carranza verso calle Costa Rica, Mabel parlò con entusiasmo e sincerità del suo interesse (o, meglio, smodata passione) per la letteratura. Questo ci aveva permesso di trovare una profonda sintonia; nonostante ciò, continuammo a confrontarci in merito ai nostri rispettivi amori letterari, alcuni comuni, altri differenti. Anche se ero più grande di due anni, mi parve che Mabel avesse letto molto più di me.

Era mora, molto più alta e magra di quello che mi fosse sembrato in libreria. I suoi modi di fare erano eleganti. La sfumatura olivastra del suo viso sembrava attenuare il pallore dell’incarnato. Gli occhi scuri si fissavano direttamente nei miei, e mi costava fatica sostenere l’intensità di quello sguardo immobile.

Arrivammo alla porta di casa mia in calle Costa Rica.

«Aspettami giù un minuto che ti porto immediatamente il libro».

E infatti lo trovai all’istante, dato che, per una questione di omogenità, tenevo (e ancora tengo) i libri suddivisi per collana. Di modo che “Don Segundo Sombra” (Biblioteca Contemporánea, Editorial Losada) si trovava tra “La metamorfosi” di Kafka e “L’innocenza di Padre Brown” di Chesterton.

Tornando in strada, notai – anche se non mi intendo di abbigliamento femminile – che Mabel vestiva in maniera, diciamo, démodé, con una camicetta grigina e una gonna nera.

«Come vedi – le dissi – questo libro è nuovo fiammante, come se lo avessi comprato un secondo fa nella libreria di don Antonio. Per favore, stai attenta, rivestilo, non piegare le pagine come segnalibro e, soprattutto, che non ti venga in mente di scriverci una sola virgola».

Prese il libro – mani lunghe e belle – con quello che mi sembrava un sussiego canzonatorio. Il volume, con il suo arancione impeccabile, sembrava fresco di stampa. Lo sfogliò un po’.

«Però vedo che tu sì che hai scritto sul libro», disse.

«Naturalmente, però lo faccio con la matita, con lettere piccole e una grafia molto curata: sono appunti e osservazioni utili per arricchire la mia lettura. Inoltre – aggiunsi, un po’ irritato – il libro è mio e lo uso come ne ho voglia».

Mi pentii all’istante della mia protervia, dato che vidi mortificazione sul viso di Mabel.

«Bene – mi disse – se non hai fiducia in me, preferisco che non me lo presti».

E me lo tese.

«No, no, per carità. Semplicemente, prenditene cura: confido nella tua accortezza».

«Oh. – guardava la prima pagina – Hai catalogato i tuoi libri…?».

E lesse a voce alta, senza intento canzonatorio: «Biblioteca di Fernando Sorrentino. Volume numero 232. Data di entrata 23/04/1957».

«È così: lo comprai quando stavo al secondo anno. Lo chiese il professore per utilizzarlo nel corso di spagnolo».

«I pochi racconti di Güiraldes che ho letto mi sono sembrati abbastanza brutti… Ecco perchè non ho mai pensato di comprare “Don Segundo”».

«Credo che ti piacerà: almeno non ci sono bare, né case maledette né persone sepolte vive… Quando prevedi di restituirmelo?».

«Prima di quindici giorni lo riavrai indietro, altrettanto fiammante – sottolineò – di come me lo dai adesso. E, perché tu stia tranquillo, ti scrivo il mio indirizzo e il mio telefono».

«Non è necessario», dissi per educazione.

Dalla cartella estrasse una biro e un quaderno di scuola e scrisse qualcosa nell’ultima pagina; la strappò e io la presi. Per maggior sicurezza, le diedi anch’io il mio numero di telefono.

«Bene, allora… Molto piacere. Vado a casa».

Mi strinse la mano (a quel tempo non si usava dare baci come adesso) e si allontanò fino all’angolo di Bonpland.

Mi lasciò un po’ inquieto. Avevo forse commesso un errore nel prestare un libro che amavo a una persona della quale non sapevo nulla? I dati che mi aveva lasciato non potevano essere falsi?

Il foglio del quaderno era a quadretti: l’inchiostro verde. Cercai nella guida telefonica il cognome Mogaburu. Sospirai con sollievo: un certo MOGABURU, HONORIO figurava al domicilio annotato da Mabel.

Tra “La metamorfosi” e “L’innocenza di Padre Brown” inserii una scheda con questa avvertenza: “Manca “Don Segundo Sombra”, prestato a Mabel Mogaburu il giorno martedì 7 giugno del 1960. Ha promesso di restituirmelo entro mercoledì 22 giugno”. E, sotto, aggiunsi il suo indirizzo e il suo numero di telefono.

Dopo, nella pagina della mia agenda corrispondente al 22 giugno, scrissi: “MABEL, ATTENZIONE! DON SEGUNDO”.

2.

Trascorse quella settimana e anche la seguente. Mi dedicai alle incombenze abituali – in generale non gradite – di un alunno che frequentava l’ultimo anno del liceo.

Era il pomeriggio di giovedì 23. Come sono tuttora solito fare, scrivevo appunti sulla mia agenda e poi mi dimentico di rileggerli. Mabel non mi aveva chiamato per restituirmi il libro o, semmai, per sollecitare una proroga del prestito.

Feci il numero di Honorio Mogaburu. Il telefono squillò dieci volte senza che nessuno rispondesse. Riagganciai e provai a richiamare molte volte e a orari diversi, con lo stesso risultato negativo.

Il tentativo si ripeté nel tardo pomeriggio del venerdì.

Il sabato mattina mi diressi verso casa di Mabel, in calle Arévalo, tra Guatemala e Paraguay.

Prima di suonare il campanello, osservai la casa dal marciapiede di fronte. Era il tipico edificio del vecchio quartiere Palermo: porta al centro della facciata e una finestra per ciascun lato. Attraverso una di queste si vedeva una luce: forse Mabel era in quella stanza intenta a leggere?

Aprì la porta un uomo alto e moro che immaginai essere il nonno di Mabel.

«Cosa desidera…?».

«Chiedo scusa, è questa la casa di Mabel Mogaburu?».

«Sì, però adesso lei non c’è. Sono il papà. Per cosa la cercava? È qualcosa di urgente?».

«No, non è urgente né molto importante. È solo che le avevo prestato un libro e… Insomma, adesso mi servirebbe per… – cercai una qualche scusa plausibile – … un compito in classe che ho lunedì a scuola».

«Entri, per favore».

Dietro a un piccolo ingresso c’era una piccola sala che mi sembrò misera e antiquata. Incombeva un odore sgradevole, come di salsa di pomodoro fredda, mescolato con vapori di insetticida. Sopra un tavolino c’erano il quotidiano “La Prensa” e una copia della rivista “Mecánica Popular”.

L’uomo si muoveva con estrema lentezza. Somigliava abbastanza a Mabel, con il suo colorito olivastro e il suo sguardo inflessibile.

«Che libro ha prestato a Mabel?».

«“Don Segundo Sombra”».

«Andiamo in camera di Mabel a vedere se lo troviamo».

Sentii un poco di vergogna a disturbare quell’uomo anziano che considerai sfortunato a vivere in una casa così triste.

«Non si disturbi. – gli dissi – Posso tornare un altro giorno quando ci sarà Mabel. Non c’è fretta».

«Ma non mi ha detto che il libro le serve per lunedì?».

Aveva ragione. Preferii non aggiungere nulla.

Il copriletto di Mabel era bordeaux, con toni sfumati.

«Questi sono i libri di Mabel. – mi portò di fronte a una piccola biblioteca di solamente tre scaffali – Veda se c’è quello che cerca».

Non credo che avesse nemmeno cento volumi. Abbondavano quelli della Editorial Tor, tra i quali riconobbi – perché anch’io possedevo quell’edizione del 1944 – “Il fantasma dell’opera», con la sua terrificante illustrazione in copertina. E identificai altri titoli che avevo anche io, sempre di edizioni abbastanza antiche.

Però “Don Segundo” non c’era.

«L’ho fatta entrare perché stesse tranquillo. – disse l’uomo – Sono molti anni che Mabel non porta nuovi libri qui. Avrà notato che questi sono abbastanza vecchi, no?».

«Sì, mi ha un po’ sorpreso non vedere libri più recenti…».

«Se è d’accordo e ha tempo e voglia – mi lanciò il suo sguardo e mi fece abbassare il mio – mettiamo un punto fermo a questa faccenda. Andiamo a cercare il suo libro nella biblioteca di Mabel».

Si mise gli occhiali e agitò un portachiavi. «Con la mia auto ci arriviamo in meno di dieci minuti».

L’auto era una De Soto, nera ed enorme, credo un modello del ’46 o ’47. Al suo interno mi accolse un tanfo di chiuso e di tabacco stantio.

Mogaburu fece il giro dell’isolato e imboccò Dorrego. Passammo velocemente da Lacroze, Corrientes e Guzmán ed entrammo nelle viuzze interne del cimitero della Chacarita.

Scendemmo e cominciammo ad andare per quei sentierini selciati. La mia benedetta o maledetta curiosità letteraria mi spinse a seguirlo, senza fare domande, fino alla zona delle cripte.

Sul frontespizio di una di queste si leggeva MOGABURU; lui ne aprì con una chiave la porta di ferro nero.

«Venga – mi disse – non abbia paura».

Anche se non ne avevo molta voglia, obbedii, dato che mi aveva infastidito la sua allusione alla mia presunta paura. Entrai nella cripta e scesi una scaletta di metallo. C’erano due bare.

«In questa bara – l’uomo indicò quella più in basso – riposa Maria Rosa, mia moglie, che morì lo stesso giorno in cui Frondizi assumeva la presidenza».

Con le nocche diede qualche colpetto al coperchio.

«E quest’altra appartiene a mia figlia Mabel. Poverina, è morta così giovane… Aveva solo quindici anni quando Dio se la prese, nel maggio del 1945. Il mese scorso c’è stato il quindicesimo anniversario della sua morte: adesso avrebbe trent’anni».

Mi sentii le gambe tremare e un macigno mi bloccò lo stomaco.

«La morte crudele non riuscì a privarla della sua grande passione: la letteratura. Continuò instancabilmente a leggere un libro dopo l’altro. Vede? Qui c’è l’altra biblioteca di Mabel, più completa e aggiornata di quella che c’è in casa».

In effetti, una parete della cripta era coperta, dal pavimento al soffitto, da centinaia di libri, quasi tutti – per mancanza di spazio, dedussi – sistemati orizzontalmente e su due file.

«Lei, dato che è molto meticolosa, ha riempito gli scaffali dall’alto in basso e da sinistra a destra. Pertanto il suo libro, poiché è un prestito recente, dovrebbe essere nello scaffale a destra non ancora del tutto pieno».

Una forza sconosciuta mi condusse al ripiano indicato. Lì stava il mio “Don Segundo”.

«In generale – continuò Mogaburu – non si sono presentate troppe persone a reclamare i libri prestati. Si vede che lei ci tiene molto».

Tenevo lo sguardo fisso sulla prima pagina di “Don Segundo”. Un’enorme lettera “X” verde cancellava il mio timbro e la mia annotazione. Sotto, con lo stesso colore e curate lettere tipografiche, si leggevano tre righe:

MABEL MOGABURU

VOLUME 5328

7 GIUGNO 1960

“Maledetta. – pensai – E meno male che le ho raccomandato di non scrivere nemmeno una virgola”.

«Bene, insomma, le cose stanno così. – disse il padre – Si riprende il libro o lo lascia in donazione alla biblioteca di Mabel?».

Con rabbia e con un gesto brusco replicai: «Ovviamente me lo porto via. Non mi piace separarmi dai miei libri».

«Fa bene. – rispose, mentre salivamo la scaletta – Ad ogni modo, per Mabel sarà molto facile recuperarne presto un’altra copia».

Fernando Sorrentino

(traduzione a cura della redazione di “Inchiostro” – Adattamento di Davide Longoni)