TRUE CRIME E TRUE CRIME

A che distanza reale dal crimine sei stato? Questa domanda, dopo solo alcuni articoli su serial killer, omicidi e altri personaggi in vario modo pericolosi, comincia a farsi strada nella mente di noi letterati di piccolo cabotaggio, di noi dilettanti che scriviamo per il puro piacere di farlo, ben diversi dai vari mostri sacri del genere true crime, Truman Capote, Norman Mailer o Gordon Burn che siano, obbligati per lavoro a stare vicini ai loro assassini. “Per lavoro” significa con un atto volontaristico, senza niente di casuale, senza nulla di necessario, solo un frenetico consultare archivi, un rigoroso documentarsi, un interrogare testimoni o colpevoli, trovandosi addirittura fianco a fianco a galeotti nel braccio della morte per rispettare un contratto editoriale. Estetica insomma. Ma niente moralismo: constatazione. In quei casi, comunque, bella forza essere così prossimi al delitto… Non si può fare altro! Noi invece, nella nostra un po’ stupida ingenuità, abbiamo in qualche maniera paura di aver resuscitato i morti, vittime e carnefici che siano, senza l’opportuna pietà, senza l’opportuno rispetto… Ci saremmo comportati nello stesso modo in cui abbiamo fatto se i protagonisti delle nostre storie nere fossero stati presenti di fronte a noi, avremmo scritto le medesime cose se avessimo dovuto motivarle ai loro occhi? È quello che vorrei sapere di me. È quel che ovviamente non saprò mai. Allora, da onesti dilettanti, accontentiamoci di quel che sopporta il meschino rigore del numero, della misurazione. E per l’appunto, quindi, a che distanza reale dal crimine sono stato?

Dex era stato soprannominato così da un suo compagno di indiscussa autorità politica, e pertanto autorizzato a dare soprannomi a tutti, se stesso incluso, nel liceo scientifico che entrambi frequentavano: eravamo all’incirca alla metà degli anni ’70 e allora ci si collocava all’estrema sinistra o all’estrema destra extraparlamentare – non esistevano vie di mezzo. Dex si riconosceva tiepidamente di estrema sinistra, vuoi per l’estrazione sociale proletaria vuoi perché allo scientifico c’era una straripante maggioranza “rivoluzionaria”. Lo conobbi a causa della passione che quasi tutti nutrivamo per il calcio, alla faccia della politica, anche se non ricordo più se fu in occasione di qualche scontro fra liceo classico e liceo scientifico alla Collinetta, oppure più semplicemente in una delle tantissime partite o tornei che all’epoca si organizzavano nei campi dell’oratorio dei Frati o di Sant’Andrea, o in una zona periferica chiamata Lodolino, o infine al campo di Maina, supertifoso interista che doveva morire in un incidente stradale ancora ragazzo. Non ricordo nemmeno se di solito fossimo compagni o avversari, ma so che la sua voce possedeva una particolarità, forse legata a un difetto di pronuncia o al dialetto dei suoi: era come se le parole gli si affrettassero in bocca per uscire tutte insieme al più presto possibile, o perlomeno così mi sembra oggi che si è avvolto d’una coltre di impenetrabile e più che comprensibile mutismo. L’unica reazione sensata e veramente eroica, questa volta socialista sul serio, per non diventare un consumatore del proprio dolore o per evitare – ancora peggio – che consumatori di esso lo diventino gli altri. Proveniente da un’imprecisata regione del sud, si vedeva a occhio nudo che anche se ancora un ragazzo Dex era una persona già seria, e non soltanto per l’espressione del volto, ma soprattutto perché dava l’impressione di sapere esattamente cosa significasse faticare. Credo anche che un anno fosse stato addirittura bocciato (di sicuro rimandato, credo in più occasioni), ma la cosa non gli impedì di continuare caparbiamente il liceo fino ad arrivare alla maturità. Dietro tanta ostinazione si potevano facilmente intuire tutti i numerosi sacrifici che dovevano essersi sobbarcati i suoi genitori per farlo studiare (ignoro se avesse fratelli o sorelle). “Volli, sempre volli, fortissimamente volli” arrivò comunque fino alla laurea in ingegneria e a un ottimo impiego (in realtà tutto questo lo seppi solo dopo, dalla tv), ma allora l’avevo già perso di vista da un pezzo. Niente più partite e neppure incontri casuali per la Passeggiata.

Quando lo rividi anni dopo, aveva moglie e due figli, o forse soltanto una bambina? In ogni caso ci ritrovammo ad abitare nello stesso brutto palazzone anni ’60, lui al primo piano e io al sesto, in via Felice Cavallotti 23; lui all’interno 2 e io al 16. In linea d’aria le nostre vite potevano distare forse una ventina o una trentina di metri. Non di più. A volte le nostre famiglie si incontravano sul pianerottolo e si scambiavano brevemente inevitabili pareri su altrettanto inevitabili e banali questioni condominiali. Qualche volta sfiorai con lo sguardo sua figlia, ammesso che fosse lei, al “San Giorgio”, istituto superiore ecclesiastico frequentato per lo più da atei in pectore, dove mi feci le ossa di insegnante. Oggi non esiste più. La ragazzina non mi piacque per niente, ma esattamente come da sempre non mi piacciono per niente molte ragazzine. Senza che neppure me ne accorgessi, un giorno Dex e i suoi andarono ad abitare proprio nella tranquilla zona (ora residenziale, senza più campo di calcio) del Lodolino, in una villetta a schiera. Qualche anno dopo, fu il bagno di sangue: moglie e figlio di Dex accoltellati dalla figlia e da un suo complice, imberbe come lei. Ma io già da molti anni ero distante oltre centoventi chilometri da Novi.

Gianfranco Galliano