QUATTRO GIGLI

1. La musica preferita

Alcuni giorni or sono uscii di casa e presi per Olazábal. Camminai per qualche isolato e, prima di giungere a via Cuba, vidi una vecchietta dalla faccia simpatica ed allegra. All’improvviso, le cadde una busta dalla borsa. La vecchietta non se ne avvide. Accorsi, afferrai la busta di nascosto e constatai che conteneva un bel po’ di soldi.

Corsi a casa e nascosi il denaro nel libro di matematica. Pensai che con esso avrei potuto comprarmi alcuni dischi della mia musica preferita, la più sensazionale al mondo, e pensando a ciò misi il mio impianto audio a tutto volume per schiarirmi le idee.

Il giorno seguente mi resi conto di non essermi comportato bene: decisi di fare un sacrificio e, invece dei dischi, comprare a mia mamma un tritacarne o un coltello elettrico.

Mi diressi allora verso viale Cabildo per andare ad informarmi sul prezzo del tritacarne e del coltello. Presi per Mendoza ma piegai per Olazábal, e colà c’era ancora la vecchietta. Camminava da Arcos fino Cuba e da Cuba fino ad Arcos, con lo sguardo fisso al lastricato, come se cercasse vada uno a sapere che cosa.

Udii che il portinaio d’un condominio diceva ad una signora:

—È che ha perso la busta con la pensione. Ha passato tutta la notte a cercarla.

Io andai allora a casa volando e presi i soldi che avevo nascosto nel libro di matematica. Buttai la busta nella spazzatura e mi cacciai i biglietti nella tasca dei pantaloni. E, come una palla, corsi, corsi, corsi fino a viale Cabildo ove comprai i dischi della musica più sensazionale al mondo.

2. La formula magica

Sabato notte ho sognato un fattucchiere. Era vestito come i fattucchieri dei racconti, con una tunica nera ed un altissimo cappello a punta. La tunica ed il cappello erano stampigliate di tante mezzelune e stelle argentate. Il fattucchiere era magrissimo, molto vecchio ed aveva un naso assai ossuto, barba lunghissima e bianchissima. L’importante però è che mi rivelò in sogno gli ingredienti della formula magica dell’invisibilità. Si vede che ho di questi sogni poiché mio papà è farmacista e quindi sono abituato alle formule.

Appena sveglio annotai tutto in un foglio ed andai a cercare il mio amico Marcelo giacché volevo dividere l’esperienza con lui. Ci chiudemmo nel laboratorio del retrobottega e mettemmo in azione un esercito di tubi, provette, alambicchi, e ci passavamo l’un l’altro acidi, polveri ed altre porcherie che lì abbondavano e che non so a cosa mai possano servire. C’eravamo entusiasmati e, a dire il vero, già non ci attenevamo più alla formula del fattucchiere e ci lasciavamo piuttosto guidare dalla nostra iniziativa che consisteva nell’aggiungere sempre altri ingredienti finché non riempimmo fino all’orlo un enorme flacone con un liquido nero, spesso e gorgogliante. Marcelo mescolò il tutto con un cucchiaio di legno e versò una certa quantità del liquido in un tubo di vetro.

Trassi allora il mio cagnolino Lucas, e poiché esso faceva resistenza in mille modi, fui costretto ad obbligarlo: gli tenni fermo con forza il muso e gli feci mandar giù l’intero contenuto del tubo. Il vetro tra le mie dita scottava e Lucas strabuzzava gli occhi. Quando lo mollai il cane ebbe una strana cosa, come una serie di colpi di tosse o starnuti, e restò poi quieto, respirando appena. Io e Marcelo lo osservammo con attenzione per oltre un’ora, nulla avvenne però che fosse degno di nota.

—Questa formula con i cani non funziona —dissi, constatando che Lucas era morto.

—Bene —replicò Marcelo—. Vediamo se la formula del fattucchiere va bene per noi.

Tornammo a riempire il tubo due volte e prima io, poi lui, bevemmo una buona porzione di quel liquido nero e fumante. A tratti sembrava sciroppo per la tosse, ad altri pareva zolfo o polvere. Marcelo, come Lucas, ebbe un po’ di soffocamento e starnutì più volte di fila, a me  però, per contro, gli occhi s’inondarono di lacrime e sentii in faccia e nello stomaco una vampata di calore.

Aspettammo con gran pazienza un’ora, poi un’altra, poi un’altra ora. Come vedemmo che nulla ci accadeva, sedemmo a guardare la televisione e dovemmo convenire che il fattucchiere s’era miserabilmente burlato di noi.

3. Il mago

Per il mio compleanno mamma mi chiese se desideravo venisse un pagliaccio o un mago.

I pagliacci mi paiono stupidi, cosicché scelsi un mago.

Costui si rivelò essere un uomo magro e pallido, ma con alcuni dettagli neri: i capelli, i baffetti, lo smoking, il nodino a farfalla e la sua meravigliosa valigia.

Egli salutò con un gesto desueto e gentile, ed i ragazzi cominciarono a gridare:

—Il ma-go, il ma-go, il ma-go, il ma-go!

Il mago sorrise compiaciuto e realizzò diverse prove — che già io avevo visto fare da altri maghi —, quali, ad esempio, moltiplicare un unico fazzoletto in sette o otto, od estrarre da un cappello a cilindro nero una colomba bianca. Fece anche, con le carte che si usano nei film del lontano western, una quantità di trucchi che non riuscii ad afferrare.

—Questo prestidigitatore è molto buono —disse papà a bassa voce. Il mago, non so come, lo udì.

—La ringrazio per la sua opinione —rimandò—. Io però non sono un prestidigitatore bensì un mago.

—Bene —replicò papà con la sua consueta sufficienza—. Diciamo che lei è un mago e non un prestidigitatore.

—Vedo che lei non mi prende sul serio. Perché si convinca vado a trasformarla in un qualche animale. Quale preferisce?

Papà dette in una risata da lasciarci quasi sordi, con una gran bocca spalancata, come fosse un ippopotamo. Parve leggermi nel pensiero poiché, puntuale, disse:

—Giacché mi lascia scegliere, mi trasformi in un ippopotamo. Ed i restanti, negli animali che più le piacciono.

Il mago fece una breve smorfia e mosse le dita e le braccia, e papà si trasformò in ippopotamo: nei suoi occhi globosi permase alcuni istanti un piccolo lampo di terrore.

—Questo ippopotamo occupa tutto l’appartamento — disse con disapprovazione il mago —. Sarà meglio che io prosegua con animali più piccoli.

Trasformò quindi mamma in tucano approfittando del fatto, credo, che ella avesse un naso piuttosto pronunciato. Trasformò poi mia nonna in tartaruga. Con le mie zie zitelle si distinse: creò una civetta, un armadillo ed una foca, tutto secondo lo stile di ognuna. Trasformò quella sposata, ch’era autoritaria, in ragno, e suo marito sottomesso in mosca.

Con i bambini si dimostrò dolce: li convertì man mano in animali graziosi e simpatici, coniglietti, scoiattoli, canarini. Gabriel però, che aveva una viso largo e brufoloso, lo trasformò in rospo. Alla piccola Lucila, di solo due mesi, dette il sembiante d’un colibrì.

Quando non restai che io da essere trasformato il mago mi pose una mano sulla spalla e mi disse:

—Tu dovrai incaricarti della cura di questi animali. Il ragno e la mosca comunque, ed alcuni altri, se la sbrigheranno da soli.

Ripose tutto nella sua meravigliosa valigia, e se ne andò.

Per quattro giorni provai a prendermi cura di loro ed a nutrirli, ma mi resi ben presto conto che tale lavoro costituiva per me uno sforzo fuori dal comune. Chiamai allora per telefono il Giardino Zoologico; mi ringraziò ed accettò la donazione il suo direttore in persona.

All’inizio andavo a visitare la mia famiglia e i miei amici ogni giorno, poi una volta alla settimana e, ora, verità è che non vi vado quasi mai.

4. Uno scherzo di cattivo gusto

Quando stamane suonò la campanella della ricreazione io rimasi in aula poiché dovevo terminare un compito che avevo lasciato incompleto.

Per tramare di nascosto qualche cattiveria, erano rimasti anche Beveretti e Campitelli i quali in quattro cose assomigliavano: erano entrambi alti, spettinati, biondi e discoli.

Essi giocherellavano con una cosa nera e disordinata. Era un ragno enorme, grosso e peloso, non però vero bensì di gomma, di quelli che vengono venduti per fare scherzi.

Con sorrisi di perfidia Beveretti e Campitelli sistemarono il ragno nell’astuccio porta occhiali della signorina Mónica. La maestra era una donna magrissima e spigolosa, dall’aspetto di disgraziata. Io provavo per lei tanta pena poiché avevo sentito dire che non s’era sposata per prendersi cura di sua mamma paralitica la quale passava la vita in una sedia a rotelle. Comunque, chi avrebbe voluto ad ogni modo sposare una donna così brutta e miope come la signorina Mónica?

Fosse come fosse, però, io non intendevo perdermi l’istante in cui la signorina Mónica si sarebbe imbattuta con il finto ragno.

Tornata in aula, la signorina Mónica sedette alla sua cattedra e, guardando noialtri, allungò meccanicamente — come faceva sempre — la mano sinistra per cercare i suoi occhiali.

Toccando assieme alle lenti il corpo del ragno, dovette girare la testa per vedere cosa diavolo fosse quello.

La sua espressione fu d’enorme sorpresa:

—Oh! Un ragno! — esclamò —. Il mio piatto preferito!

E, senza inforcare gli occhiali, portò il ragno alla bocca e, con morsi affilati e precisi, cominciò a tagliargli le zampe che divorò voracemente. Mangiò così le otto estremità, i pedipali ed i cheliceri. In seguito, quegli affilati denti bianchi che recidevano come ghigliottine si piantarono con precisione metallica nell’addome e nel cefalotorace.

In estasi di piacere, gli occhi verso il soffitto, la signorina Mónica masticò e divorò ciecamente la gomma dura ed indigesta. E mangiava con tanto e tanto piacere che né Beveretti, né Campitelli, né io, né nessun’altro ci azzardammo a disilluderla e quindi non l’avvertimmo che invece d’un delizioso ragno vero aveva solo mangiato un insipido ragno giocattolo.

Fernando Sorrentino

(Dal quotidiano La Prensa, Buenos Aires, 1° luglio 1984. Traduzione di Mario De Bartolomeis)