DEADLY SHADOW

E’ una notte fredda, umida.

L’aria è quasi immobile, calma, non un alito di vento scuote le fronde degli alberi. Sottolineano la staticità dell’intera città, vuota, senza un’anima. Mentre nel mondo esterno infuria una guerra voluta da altri per altri, qui vige un microcosmo d’ipocrisia, un involucro ovattato di tradimenti e menzogne.

E’ una notte buia.

Ha appena piovuto a dirotto, e non rimane che una coltre di nebbia, quasi palpabile, a tentare di nascondere quello che non si dovrebbe mai vedere, a tentare di nascondere il marciume che si annida negli angoli oscuri dei vicoli di New York, in una notte come tante, che si tinge di rosso di un crimine che troppe poche volte paga. Un crimine che schiaccia la minoranza pura della popolazione, che come un faro nella notte è un lume in un mare oscuro.

Tre blocchi contrapposti di superpotenze mondiali, il cui frivolo conflitto qui non sembra arrivare, non tocca una città stagnante che semplicemente volge lo sguardo altrove. Nessuna bomba, nessun frastuono di spari se non flebili effluvi di luce in lontananza, di deflagrazioni là oltre il mare sconfinato.

Prima che arrivi la vera guerra è quella interna che ha già bussato alle porte della Grande Mela. Quella della natura prevaricatrice dell’uomo che senza repressioni si scaglia sul prossimo, quella di una popolazione lasciata in balia di se stessa quando privata di gran parte delle forze dell’ordine, mandate al fronte come carne da macello.

Manca la paura.

 

Riecheggiano rumori di passi nelle pozzanghere, un’ombra si staglia dal ciglio della strada.

E’ Daniel Stanford, umile e giovane impiegato postale presso lo United States Postal Service, che ritorna dall’usuale sosta al pub dopo il lavoro, per affogare nel gin le sue frustrazioni, i fantasmi del passato, la solitudine.

Annichilire le emozioni.

Il chiarore della luna filtra a malapena tra la fitta nebbia, illuminando il suo viso spento, gli occhi tormentati di un marrone profondo, i capelli neri di carbone. Mentre avanza, dalla massa fumosa emerge una corporatura abbastanza robusta, ma allo stesso tempo agile, di chi in passato era abituato a sforzo fisico e agilità delle grandi altezze.

Il tragitto verso il suo attico, antro desolato dove alberga in totale solitudine, è relativamente breve, ma reso pesante da quello che sta per vedere.

Mentre aumentano i passi di Daniel, così aumentano le grida di una donna che viene picchiata nel vicolo. Aumentano i passi, mentre egli cammina dinanzi alla scena voltando il capo dall’altra parte, nascondendosi ricolmo di rabbia nell’ombra del suo cappuccio, aumentano le grida. Poi più nulla.

Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Poco più avanti un gruppo di teppisti tenta di sfondare la vetrina del negozio di alimentari del vecchio Joe, ma ormai Dan è già arrivato sul ciglio della porta di casa. La chiave è nella serratura, mentre uno di loro afferra un tubo metallico. Con uno sguardo si rivolge alla scena poco distante per poi tornare con gli occhi sulla chiave su cui posa la mano, e il braccio del tizio è proteso, pronto a colpire.

La chiave gira, la vetrata va in pezzi.

 

Il vano delle scale è oscuro come la notte all’esterno, illuminato parzialmente da una lampada guasta, che dà luce a intermittenza come l’animo di Dan appare per poi diradarsi. Lentamente sale le scale per raggiungere l’attico, e gli sembra quasi di vederla, negli attimi di buio tra un’intermittenza e l’altra, la ragazza del vicolo, supplicante che chiede aiuto, o a tratti il suo volto libero e leggero, raggiante nel pieno della sua vita, se solo fosse continuata. Mentre corre felice spensierata e girando il capo ti fissa, con occhi gelidi e vitrei, ma al contempo le scale sono terminate. Non serve richiudersi la porta dell’appartamento alle spalle, sbattendola con forza, per spazzare via il richiamo della coscienza.

Un’esistenza grama, la sua. Spenta, come del resto l’abitazione stessa, illuminata solo da una flebile candela posta su un tavolino di legno al centro della stanza. Non perché abbia particolari problemi economici, ma perché piace così. Così va fatto, per non rischiare di illuminare troppo dei lati nascosti e reconditi che se dovessero tornare alla luce porterebbero troppa sofferenza.

E’ notte fonda ormai, mentre il lume della candela pian piano si spegne, e lacrima la cera bollente.

 

Al mattino seguente una scarsa colazione veloce e Daniel è già per strada, con la cravatta non del tutto annodata, e la giacca in spalla. Non può permettersi di perdere il primo treno della monorotaia, che fortuitamente ferma proprio dinanzi all’ufficio del servizio postale, ma che non ripassa se non dopo un’ora.

Potrebbe, certo, prendere un altro mezzo, ma non sarebbe la stessa cosa. Non si perderebbe per nulla al mondo lo spettacolo di osservare il mondo attorno, riflesso nel finestrino, mentre scorre lungo i binari, e scorrere assieme alle vite altrui per un breve tragitto osservandone l’unicità e la meccanica monotonia.

Prende posto, aprendo il finestrino per far entrare un po’ di brezza mattutina, quel tanto che basta a percepire quel senso di frescura sulla faccia per cominciare la giornata con più sollievo, mentre un servizio del telegiornale sul monitor del vagone cattura la sua attenzione: Daniel sgrana gli occhi, e si precipita ad alzare il volume.

Sembra proprio lui, l’assassino della ragazza nel vicolo la sera prima, trovato morto dissanguato, con entrambe le mani amputate, poco lontano da dove l’aveva visto compiere quella violenza. “Se l’è meritato” pensa, fra sé, e per certi versi prova felicità da questa notizia, liberazione. Tira un sospiro, come una rabbia che sbollisce e viene fuori sibilando da una vecchia teiera. Ma intanto le porte automatiche si aprono, e il tragitto è finito.

 

Un breve cenno di saluto ai colleghi e Dan è già seduto al suo posto, come sempre mai del tutto pronto ad affrontare una marea di pratiche e posta da smistare.

La sua scrivania è alle spalle di una serie di grandi finestre, dalle quali filtra pulviscolo e una tenue luce che ha scolorito una vecchia fotografia poggiata sul tavolo, l’immagine di una donna dal volto ormai quasi irriconoscibile.

Troppo sbiadito, troppo dimenticato.

Tempi felici ormai lontani, andati irrimediabilmente. Tempi in cui lavorava nella centrale nucleare appena fuori la City, con lei, Eleanor, sua compagna di vita, che condivideva con lui anche le fatiche del lavoro. Dalla fotografia non è ormai più visibile, ma era un fiore tra i più belli, nel pieno della sua vita. Una giovane pelle bianca, marmorea, nella quale si intingevano due occhi color argento, ravvolti in un fazzoletto di capelli biondi, dal colore e dal profumo di camomilla.

“Vorrei guardarti negli occhi, ancora…”

Era al tramonto, quel giorno, e se ne stavamo lì, calati nel camino della torre di raffreddamento, appena terminata la manutenzione di routine immersi in quel pozzo senza fondo, penzolanti nel vuoto con una corda da imbracatura. Discutevano scherzosamente su cosa avrebbero fatto dopo il lavoro, lei con la sua tenera timidezza e lui con l’immancabile simpatia, che allora lo contraddistingueva.

Fu solo un attimo, un funesto secondo, e la cinta di Elea (come lui soleva chiamarla), fornita non a norma dai datori di lavoro, si spezza silenziosa, facendo scivolare giù dolcemente il suo corpo leggiadro. Niente più tempo per darle un ultimo bacio, solo sabbia di clessidra per guardarla profondare nel fondo, con la mano protesa che non puo’ raggiungerla, mentre il suo urlo misto a lacrime si va scemando. Giù, sempre più giù, fino a scomparire nell’oscurità.

Così come il suo amore anche la voglia di vivere è scomparsa, schiacciata dal senso di colpa per non essere riuscito a salvarla. Senso di inadeguatezza, anche per sporgere reclamo e denunciare imprenditori più dediti al culto del denaro che alla sicurezza dei loro dipendenti. Imprenditori che in seguito cesseranno comunque la loro attività, espropriati da un governo la cui priorità è il conflitto, e per esso la costruzione di una centrale ben più grande.

 

Le ore di lavoro passano lentamente, mentre la radio annuncia le notizie del giorno. Una in particolare, riguardo un duo di pirati della strada che sta terrorizzando Downtown, cattura l’attenzione di Dan e gli altri impiegati. D’un tratto la stanza è permeata dalla voce struggente di una madre, intervistata dal giornalista del dolore di turno, che piangendo straziata racconta la vicenda di sua figlia, una bambina travolta mentre attraversava la strada e il suo piccolo corpo scaraventato in una pozza ai margini della carreggiata. Lasciata lì come un sacco di rifiuti, senza che le fosse prestato il minimo soccorso o attenzione.

Il silenzio cala in tutto l’ufficio. Tutti sono impietriti, gli sguardi vacui e le bocche cucite. Non ci sono parole da proferire, o gesti da fare. Tranne che per Daniel.

Stringe i pugni fino a stropicciare della carta da lettere che si trovava al di sotto, i denti digrignati e le imprecazioni che partono spontanee. Un solo pensiero fisso gli resta nella mente, quando ormai il lavoro è ripreso tranquillamente per tutti.

Il pensiero che al mondo non dovrebbe esistere tale “feccia” e che quei due individui meriterebbero un posto in prima fila per il mondo dei morti, così come “l’essere” della sera prima. Ma cosa farebbe se dovesse incontrarli, magari oggi stesso, appena uscito dall’ufficio? Molto probabilmente non avrebbe il coraggio di far nulla, forse neanche di guardarli in volto.

Già una volta, quella che contava di più, non ha avuto il coraggio di agire, di anteporre gli altri alla sua stessa vita. E per quella mancanza ha perso tutto, ottenendo solo disperazione, che sfoga bevendo fino al limite della sopportazione sperando magari di tirare le cuoia.

Una voce dai piani alti proveniente dall’intercom intima di velocizzare il lavoro, e le ore passano fino all’orario di chiusura, che segna l’inizio del tuffo quotidiano nell’alcool.

Intorpidire i ricordi.

Ed è questo che fa, all’incirca fino alle due di notte, quando non resta altro da fare che tornare a casa arrancando, e concludere nel sonno l’offuscamento. Ma questa notte non sarà così.

Qualcosa è nell’aria, una sensazione strana, elettrica, di tagliente tensione. Il vento è in subbuglio, violente raffiche spazzano via il bucato steso sulle balconate, cambiano il paesaggio del parco poco distante spargendo dappertutto i cumuli di foglie secche autunnali che il giardiniere aveva da poco ammassato.

Movimento, trasformazione.

Sonno agitato, un grido nella notte, è Dan che si sveglia di soprassalto. La candela si spegne con un soffio di vento, e lui non è più la stessa persona.

Gli occhi sono rossi, iniettati di sangue, l’iride è una perla dalle sfumature rubino. Si siede sul letto e per un attimo osserva le sue mani, dal palmo al dorso, e la mente è completamente vuota, un’oasi di silenzio. Le mani poi vanno alla faccia e lì le mantiene sugli occhi qualche istante, per poi scorrerle sui capelli neri per tirarli all’indietro. All’improvviso, però, di scatto si alza e si precipita verso l’armadio poco distante, aprendolo e tirando fuori la vecchia valigetta con gli attrezzi da lavoro, anticaglie consunte, della vita che fu.

Infila il pantalone scuro di quella che una volta era la sua tuta da lavoro, e l’accompagna alla sua fida felpa nera con qualche foro qua e là. Allaccia dopo la cintura, che un tempo era collegata al sistema di imbracatura, ora opportunamente modificata per contenere due fondine per armi, i punteruoli da lavoro convertiti in affilati pugnali, che con innata maestria fa roteare tra le dita per poi immetterli nei foderi. Sul braccio destro collega invece il rampino automatico, dispositivo in dotazione a tutti gli operai degli impianti nucleari, che s’avvinghia a mo’ di estensione del suo arto, arnese che serviva a calarsi ed effettuare la manutenzione nel camino della centrale. Così esile eppure strumento così potente, una lunga corda retraibile dall’intreccio sottilissimo, sparata da un cannoncino Vulcan ad aria compressa, con all’estremità una lamina di titanio, in grado di aprirsi come delle voraci fauci in tre ganci non appena a contatto con qualsiasi superficie.

Osserva per un istante tutti questi oggetti, che ora acquistano un valore nuovo, uno scopo diverso visto da occhi diversi. Una rossa missione.

Al corredo mancano solo dei guanti scuri, che ora infila a combaciare con le maniche della felpa e mimetizzarsi perfettamente a causa dello stesso identico colore nero. Non serve altro, il cappuccio tirato giù a nascondere il viso e lo sguardo fermo, determinato ed allo stesso tempo vacuo, di chi è trasformato. Sposta leggermente il capo, un cenno, verso la finestra aperta che ora raggiunge. Il vento è ancora in tempesta, ma non lo considera minimamente mentre si sporge e fuoriesce, scalando la facciata del palazzo sino ad appollaiarsi su un’antefissa leonina posta all’apice della terrazza. Da lassù guarda la città, ma non con sguardo stupefatto di chi osserva una vista così meravigliosa, bensì uno sguardo insensibile alle distrazioni, rapace, di un predatore in cerca della sua preda.

Totale apatia.

Le raffiche spazzano, ma Daniel non le sente, non c’è sensibilità sulla pelle urtata dal vento, solo un riflesso deformato del suo volto attraverso le borchie poste sulle nocche dei suoi guanti. Con un gesto del braccio spara il rampino che si aggancia su un’antenna satellitare in cima al palazzo adiacente, e con un balzo si getta nel vuoto, mentre il mondo attorno scorre come da un treno in corsa. Un’altra persona, ma che condivide con quella diurna rabbia e ricordi. Il suo obiettivo è chiaro, la caccia comincia.

Una corsa frenetica verso Downtown, roteando nell’aria per superare ostacoli, saltando di palazzo in palazzo fino a raggiungere la meta. Il rampino lo porta in alto, sul margine della Freedom Tower, e dal suo tetto la vede, la muscle car color seppia, mentre procede all’impazzata a zig-zag incurante di tutto e tutti, con all’interno due individui in preda ad alcool e droga.

L’auto scorre sotto di lui, ma Dan è già in volo, sfrecciando sulla corda del rampino appeso per un braccio, facendo scivolare il suo corpo lungo le teste ignare come una liana nella grande giungla della megalopoli, atterrando proprio sul tettuccio della muscle. Essendosi accorto dell’impatto di qualcosa di pesante sul tetto, uno di loro sporge la testa fuori per guardare, e gli si staglia davanti una figura nera, minacciosa, che nel turbinio dell’alcool pare irreale, suscitando una tranquillità beffarda tale da rimettere il capo dentro l’abitacolo ridendo col suo compare di quello che ha appena visto. Ma un colpo di pugnale che Dan sferza nella lamiera e fuoriesce dalla parte interna del tettuccio rende la “visione” molto reale, come si fa vera l’agitazione dei due depravati: “Ma chi cazzo è quello stronzo, avanti idiota spara, spara!”, intima all’altro quello alla guida, che intanto si fa ancora più spericolata di quello che avevano programmato.

Daniel si tiene per il manico del pugnale mentre la velocità va aumentando, l’individuo di fianco si sporge completamente per poter sparare, ma non fa in tempo a rilasciare un colpo che Dan lo ha già disarmato con un calcio, per poi prenderlo per i capelli facendogli sbattere violentemente la testa sul tetto, scaraventandolo successivamente ancora all’interno. L’urto colpisce anche il secondo, che devia involontariamente ed inevitabilmente il volante in direzione di un fatale albero che si erge sul ciglio della strada. L’impatto è imminente, quando il veicolo si ritrova a sfrecciare per un sottopassaggio stradale dei binari.

Un’occasione, un’opportunità, e furbescamente Daniel si serve di un sostegno per agganciarsi con il rampino. Ritraendo la corda è già in cima, un istante prima che l’auto vada in pezzi in una violenta esplosione. Se ne sta lì, ancora una volta appollaiato, con un ghigno sul volto osservando l’automobile dilaniata, ma i due non sono ancora morti, ed a quell’ombra nera non basta.

Con un gesto acrobatico scende per terra poggiando con il palmo della mano aperta sull’asfalto che odora di bruciato, lentamente si rialza e procede a passo spedito verso le prede agonizzanti. Afferrandoli per il colletto li trascina in un vicolo vicino mentre la folla fugge in ogni direzione preda, invece, di assoluto terrore. Usando i pugnali con una mossa netta trancia le gole di entrambi che ricadono poi in una pozza di sangue.

Ora non ode più madre lamentare.

Un ultimo gesto a completare la macabra opera, quando intinge il dito indice nel cruore fino ad imbevere la trama del guanto, scrivendo con questo sul muro una frase a fin troppo chiari caratteri cubitali: DS WAS HERE (DS È STATO QUI).

Un messaggio, un monito.

Deve affrettarsi a tornare adesso, o arriverà il tramonto, e la trasformazione avrà fine. La polizia non arriverà presto, e quando lo farà sarà illusa che si tratti di un incidente stradale. La via è per ora libera, ma qualcuno dei terrorizzati astanti potrebbe nel caos averlo visto e indirizzare su di lui le ricerche. Occorre muoversi, mentre la notte va sempre più diradandosi lasciando spazio al giorno e a diversa vita.

 

Un suono in dissolvenza si fa sempre più forte, è l’allarme della sveglia olografica che desta Daniel, mentre i raggi del sole a stento riescono a filtrare dalle veneziane perennemente chiuse. Una strana sensazione di sonnolenza lo accompagna intanto che con l’acqua bagna quel volto che osserva nello specchio, visibilmente stanco senza che ne sappia spiegare il motivo.

Non conosce, non ricorda nulla.

La monorotaia porta ritardo questa mattina. “E la chiamano alta velocità” pensa, quando l’annuncio dell’edizione straordinaria del notiziario riecheggia a gran voce in tutti i monitor della stazione:

“Deadly Shadow – Ombra Mortale,

ancora altri criminali rinvenuti morti questa notte, questi ultimi nella zona di Downtown Manhattan. Le vittime erano Ronald Keaton e Harry Harper, noti pirati della strada e pericoli pubblici, che proprio recentemente si erano resi colpevoli di numerosi omicidi stradali.

Questa volta l’assassino ha lasciato un tetro messaggio scritto col sangue, presumibilmente delle vittime, che recita DS E’ STATO QUI. Non è chiaro il significato delle iniziali, ma testimoni affermano di aver visto una figura ammantata di nero allontanarsi velocemente dalla zona del crimine. Che le testimonianze siano attendibili o no è ancora da verificare, intanto i maggiori criminologi della città sono convinti che siamo di fronte ad un serial killer dei criminali, che la stampa ha già soprannominato Ombra Mortale”.

Le mani dalle tasche fuoriescono per penzolare a palmo aperto, mentre lo stupore pervade la sua mente incredula. Non comprende il significato di quelle iniziali, troppo occupato a gioie per quelle dipartite, per quella “giustizia” radicale che ha, forse al posto suo, potato le erbacce dal giardino del mondo.

Il treno è finalmente arrivato, portando con sé l’inizio del viaggio quotidiano verso l’osservazione, il ricordo, il volto di Eleanor nella ragazza seduta accanto, mentre una nuova giornata di lavoro si appresta a cominciare. Tutti non fanno altro che parlare del caso del giorno, l’Ombra Mortale, le speculazioni su chi sia, l’origine delle iniziali. Un collega azzarda, con il tono beffardo della battuta, ad insinuare che si tratti di lui, Daniel Stanford, per poi proseguire con una grassa risata. Certo, non può essere lui, non è nella sua natura, nella sua indole.

Frattanto che il vociare prosegue, un incarico faxato arriva proprio per Daniel, e pare della massima urgenza. Deve recarsi ai piani alti, nell’ufficio dell’Army Post Service, per ritirare e poi consegnare un dispaccio militare. In un’era in cui la tecnologia avanza per surclassare i mezzi convenzionali vige il terrore dell’intercettazione, dell’hacking, che tutti siano potenzialmente in grado di sapere tutto. E questo non serve allo scopo.

I messaggi e le direttive militari di una certa importanza vengono consegnati a mano da personale scelto, opportunamente, da una perversa tattica di osservazione, da una contorta selezione della personalità, delle ambizioni, della capacità del cane di rivoltarsi contro il padrone.

Uno studio attento.

Arrivato sul ciglio della porta di quell’ufficio, una figura mastodontica si intravede sfocata dal vetro satinato, che apre l’entrata non appena Dan è arrivato sul ciglio. E’ il Capo di Stato Maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, arrivato da poco direttamente dal Pentagono, che lo invita a sedersi. Contrariamente da quanto l’uomo si aspettasse, Daniel non sembra particolarmente colpito né riverente. Nella stanza vi è anche il massimo funzionario del servizio postale, che invece, tutto tremolante, dà ampio sfogo ad adulazioni e deferenze.

I primissimi istanti del colloquio non sono altro se non una schermaglia di silenzi e scambio di sguardi, per poi lasciare spazio ad una fin troppo accurata descrizione della missione a cui Dan non presta la minima attenzione.

Non appena uscito dall’ufficio, però, i passi diventano lenti, calcolati, ragionati. Se c’è stata la necessità che il Capo di Stato Maggiore si scomodasse ad arrivare di persona fin qui dal Pentagono, può solo significare che il contenuto della busta è più bollente di quanto non lo sia scaldata dai raggi del sole. Non è timore, il suo, bensì curiosità, fanciullesca quasi, di conoscere gli ultimi risvolti della guerra che con oculata sagacia vengono opportunamente tenuti lontani dall’udito del popolo.

Varcata l’entrata dell’interscala in Dan cresce il desiderio di scoprire il contenuto del dispaccio, ed aumenta esponenzialmente gradino dopo gradino.

Sul primo pianerottolo è irradiata una strana luce, grigiastra tendente al blu, proveniente da un vasistas semichiuso, che lì, macchiato e non pulito da anni, proietta un effetto non dissimile ad un mosaico su una vetrata. Un’intuizione, e Daniel ha già alzato in aria il foglio ponendolo contro i raggi di luce che, filtrando, rendono a lui leggibili solo due parole: Kaufmann e Montauk.

Osservato a vista si dirige verso la meta del suo incarico usando il furgoncino postale, e dopo averlo portato a termine da bravo galoppino, non resta molto altro da fare se non marcia indietro, a meno che non ci sia un modo per soddisfare ulteriormente la curiosità.

Nelle varie vie di New York ce ne sono a bizzeffe, una colonnina con alla sommità un tablet collegato costantemente alla rete internet, nel tempo in cui ad ogni angolo vi è una fonte gratuita di informazione, come l’acqua che sgorga da una fontana per dare da bere agli assetati. Daniel non perde tempo, e prontamente digita la parola Kaufmann.

Il risultato della ricerca è immediato, causa la rete quantica a pacchetti di informazioni precaricati, ma non per questo meno esaustivo: prof. Neville Kaufmann, età 64 anni, docente presso la Technische Universität di Berlino. Reso celebre negli ultimi anni per i suoi studi sui metalli ultraleggeri e per il notevole sostegno alle associazioni pacifiste per la cessazione delle ostilità. Assente dalla Germania dopo la pubblicazione del sua ricerca su una nuova lega metallica. Perplesso è la parola che meglio descrive la sua reazione a queste righe, non riesce ad immaginare cosa voglia il governo da questo individuo, anche se è lampante che lo stiano per trasportare a Montauk, ridente località sempre bagnata dal sole, alla punta più ad est della Long Island, dove il faro della civiltà si erge per avvistare i pericoli causati dagli errori degli uomini. Ma di tutto questo poco se ne cura, ed è meglio avviarsi verso casa prima che faccia notte, ora che il bisogno della curiosità è stato soddisfatto e resta quello di un bicchiere d’oblio.

 

E’ una notte limpida e dalle mille stelle, quella che segue.

Nel quartiere non si ode un sibilo, e regna sovrano il silenzio di chi dorme beato consapevole che il sole di certo sorgerà anche il giorno seguente.

All’improvviso un altro grido nella notte, e i vetri dirimpetto si crepano come la foce di un fiume. Ora i sensi si fanno più acuti, senza le emozioni a limitarne il rapido fluire.

Ora Daniel Stanford è un’Ombra Mortale.

Perché lasciarsi scappare da sotto il naso un luminare della tecnica e permettere che assista il governo? L’epoca in cui vive gli ha insegnato la spudorata etica dell’utile, ed in questo istante l’unica cognizione di utilità che gli sovviene è servire i propri scopi.

Adesso l’utile è anche dilettevole.

Una breve scalata ed è pronto sulla sommità di un palazzo, a contemplare la notte che porta consiglio. Così come egli la sfrutta e si mimetizza in essa, così un carico come quello rappresentato da Kaufmann non può viaggiare alla luce del giorno. E quale altro mezzo più efficace del gioiello del trasporto moderno, l’Altotreno. Una serpentifera monorotaia ad alta velocità dal telaio luminescente, che anche nel buio della notte sembra brillare di luce propria. Un corpo doppio, simmetrico, due locomotive collegate tra loro da innesti, cordoni ombelicali, da cui si nutrono vicendevolmente di pura forza elettromotrice.

Niente carburante, solo differenza di potenziale, che dona il movimento al grande anellide argentato mediante un semplice avviamento di circuito, in un vuoto sublime che sfrutta il principio del cuscino d’aria.

Energia virtualmente infinita.

Non è difficile uccidere furtivamente una guardia e con la sua uniforme prendere il suo posto, frattanto che, puntuale, arriva la consegna, e degli ignari soldati lasciano nelle sue mani il prezioso carico. Il prof. Kaufmann, uomo sessantenne dal volto rugoso e paffuto. Capelli vecchio stile che non coprono un inquietante occhio di vetro, sormontato da folte ciglia dello stesso, scuro, colore dell’occhio sano.

Ma una volta dileguati i soldati non si sale sul treno, con gioia del vecchio, che letteralmente rapito dalla sua casa è ben felice di aiutare un’entità esterna al conflitto, entità che pare rimediare a torti come questo.

 

Rintanato, occultato, nella vecchia centrale in cui Dan lavorava, ora in disuso, il professore si prodiga per costruire all’Ombra supporti tecnologici ed armi per la sua sanguinosa missione. Non conosce la sua vera identità, ma è conscio del fatto che a lui, indubbiamente, serve. E fin tanto che le cose resteranno così, la sua vita non corre pericoli, ed anzi, è ben più sicuro e celato qui, in questo angusto e freddo luogo di potenza atomica, che nel vortice degli eventi bellici, bersaglio dell’avidità e della cupidigia.

Le visite di quell’uomo nero che l’ha “salvato” si susseguono di tanto in tanto, nelle notti più tetre, quando il gocciolìo dei rigagnoli nei vecchi canali di scolo arrugginiti si ripercuote a mo’ di un erosivo martello nella sua testa. Ed è in una di queste, che gli mostra l’ultimo ritrovato di una scienza nuova, che sarà l’ultima cosa che le sue vittime vedranno prima di dipartire.

Daniel avanza nel laboratorio, e gli viene mostrata una valigetta poggiata su una sgangherata scrivania. Una volta aperta, una nube di fumo si dipana in ogni dove, per poi lasciare visibili al suo interno quattro pile di laminelle di metallo, di cui molte accatastate le une sulle altre.

Quadrangoli di materiale ultraleggero, quasi inavvertibili al tocco, dal peso inconsistente. Il professore lo invita a fare una prova, in questo luogo abbandonato dove nessuno può sentire. Gli suggerisce di lanciare la lamina e di sparare con una normale pistola, che gli pone successivamente nelle mani. L’effetto ha dello stupefacente.

Nello stesso istante dell’incontro tra il metallo ancora in aria ed il proiettile, dall’oggetto disintegrato si propana un gas pesantemente denso, fumogeni che rapidamente si diffondono in un’ampia zona, occultando corpi e oggetti anche alla vista più acuta. A disposizione altri tre tipi di queste sottili e infide armi, lamine esplosive, pirotecniche, e lacrimogene.

I complimenti al brillante scienziato sono d’obbligo, anche se perpetuati senza proferire parola, stringendo la mano fissando con quegli occhi che congelano l’anima.

 

Con questo arsenale dedito ai suoi scopi, i giorni seguenti si tramutano in alternanze tra efferati omicidi e servizi dei notiziari in merito, rocambolesche fughe dalla polizia e normali giornate di lavoro, delicato equilibrio che sta per spezzarsi.

Al Daniel impiegato postale non era fin ora mai sfiorato nulla alla mente, nessun pensiero, nessuna supposizione, neanche un dubbio per l’anticamera del cervello. Tuttavia quando l’equilibrio di potenza pende da una parte più che dall’altra, quella più bramosa tenta di prevaricare su quella apparentemente più debole.

Cosicché, quasi casualmente, dolori e lividi accumulati nella notte cominciano ad essere notati durante il giorno. Inspiegabili ferite, tagli anche profondi a cui non sa dare una spiegazione, ma che instillano in lui l’ombra del dubbio. Un dubbio sempre crescente, esponenziale alle vittime cadute da lui considerate indesiderabili.

E se fosse proprio lui, quell’ombra mietitrice che dispensa mortali condanne, che amministra una ferrea giustizia come lui vorrebbe ma non ha il coraggio di fare? Incertezze che degenerano, nelle giornate a venire.

Un riflesso nello specchio del bagno, ma non è il suo viso quello nel vetro, ma un’ombra dagli occhi di sangue. Un viso latteo, le vene pulsanti sulla fronte aggrottata, i capelli più neri della notte oscura.

L’immagine parla, lo insulta – “Sei un misero codardo” – lo deride. “Non la meritavi, a lei serviva uno come me invece di un essere inutile” e gli sembra di impazzire, mentre le sue risate gli penetrano la testa come spinte a viva forza.

Le mani a coprire le orecchie per non più sentirle, ma non serve. Sono nel suo cranio, che solleticano una coscienza che ribolle e vuole venir fuori, esplodere come una bomba che distrugge gli oggetti intorno, o un pianto di disperazione che annega la malinconia.

Nella distruttiva follia, il lancio di un oggetto. Un elenco telefonico, casualmente aperto su una pagina e un nome preciso: Layla Martini, psicologa, 39 Atlantic Ave, Brooklyn.

Tanto vale provare, per cercare conforto anche se impossibile confessare.

 

Una placca dorata fuori dalla porta dello studio medico, ribadisce a chiare lettere il suo nome e la sua qualifica, sopra un intarsiato intercom che lo prega ad entrare. La sala d’attesa è vuota, e non c’è fila per andare da lei.

Sull’uscio del suo ufficio, gli si presenta un’immagine di soave bellezza. Una donna dallo sguardo solare, un dipinto fatto di lunghe ciglia, occhi ipnotici attorniati da grandi e spessi occhiali tondi, sulle cui lenti piombano come fiocchi i riccioli dei suoi capelli rossi acconciati con splendidi intrecci. Un naso piccolo e lievemente tondo, come scolpito ad arte, al di sopra di carnose labbra rosse. Uno sguardo che ispira fiducia e ammalia, supportato dal suo corpo sinuoso e sensuale.

Invita Dan a sedersi di fronte a lei, e per la prima volta dopo anni, torna a provare quella sensazione, come un tepore interno, che sentì la prima volta che incontrò Eleanor.

Il suo sguardo e la sua voce lo irradiano, lo spingono a fidarsi di lei, in un modo in cui non può fare a meno di raccontarle ogni cosa, in un disperato bisogno di ancorarsi a qualcuno ancora una volta.

Layla si mostra innaturalmente dolce, una dolcezza che prevarica lo stupore della tremenda rivelazione, del terrore per l’Ombra Mortale. Non lo teme, sembra comprenderlo nel profondo, con i suoi occhiali che ogni tanto si tira su sembra fare una radiografia della sua vera anima. Con calde parole tesse la trama dei suoi ricordi come abile sarta sul filatoio, fino a trovare il foro nel tessuto, il nocciolo del problema.

“Non fu colpa tua, se lei è morta. Devi fidarti di me.”

Fiducia, semplice parola eppure così carica di significato. Ancora una volta qualcuno aveva fiducia in lui, credeva nella sua essenza ed era dalla sua parte. Fiducia crea altra fiducia, e il mondo di colpo pare più bello.

Non accetta di essere pagata, anche lei nel suo passato ha avuto un simile lutto, ed ha dedicato la sua vita ad aiutare gli altri. In Daniel ha visto qualcosa di suo e lui in lei. Ma questa comprensione non piace all’Ombra, che non può più nutrirsi del suo odio.

Si ripeteranno tanti incontri come quello, nelle quali il loro legame si fa sempre più forte, si rimescola come un fluido sino a divenire qualcosa di più. Ognuno vede nell’altro frammenti della propria esistenza, elementi in comune che rafforzano Daniel a scapito del suo sanguinario alter ego.

Solo la parola amore può spezzare quel turpe incantesimo.

E l’Ombra lo sa, ora teme per la propria posizione, cade dal piedistallo di forza dal quale si ergeva. Il sangue sulle mani è ormai secco, e la rabbia ha smesso di ribollire.

Ma è proprio quando il nemico è sconfitto, che talvolta tenta un ultimo disperato assalto.

 

Sonno finalmente tranquillo, niente più grida nella notte.

Occhi che piano si riaprono, visioni sfocate di un uomo dal manto nero in piedi sul ciglio del letto, come al capezzale di qualcuno che sta per morire e ancora non lo sa. E’ lui, la mortale essenza, non più insita in Daniel ma una persona a parte, adesso. Non più confinato nel suo corpo ma libero di agire – “Niente più pesi morti” – esclama ridacchiando.

Lo invita a guardare fuori dalla finestra, un’alta torre, un maxischermo con l’immagine di Layla legata sofferente ad un palo.

La Freedom Tower, là dove tutto è cominciato.

Ma è diverso, ora, non ha più paura, il senso di inadeguatezza è svanito, e questa volta la fiducia riposta in lui sarà ripagata. Le stesse abilità dell’Ombra sono sue, e comincia una corsa forsennata, una rapida scalata dei tetti della città, mentre un violento temporale scoppia tempestato di fulmini assortiti, e i vestiti sono zuppi come il volto sudato.

Non lo rallentano però, e l’ingegno sopperisce alla mancanza del rampino con il furbo utilizzo di una gru per arrivare in cima.

Il momento è giunto.

Gli occhi di Layla si illuminano, e solo il tempo di una carezza a lei che subito la sua voce riecheggia nell’aria, l’ombra nera.

Faccia a faccia, la fiducia contro la vendetta.

L’uno corre verso l’altro, ma non appena si urtano accade qualcosa di inaspettato.

E’ solo un’ombra, e in quanto tale viene riassorbita dal corpo che la emette, se questo si staglia con più forza, forza ritrovata.

Un accecante bagliore, tale che Layla deve girare il capo per non restarne folgorata. Un’esplosione di luce che ricopre tutta la città, mentre d’un tratto la pioggia smette di cadere per lasciare spazio ad un alto sole cocente. Il corpo di Daniel per terra, fumante ma sano, che piano si rialza per liberare la sua dolce compagna dai capelli rossi. L’Ombra è svanita per sempre.

Tutta New York è ferma, le automobili per strada e la gente al di fuori con lo sguardo rivolto al cielo, uomini, donne e bambini attratti da quel caldo sole. Così come loro due dall’alto della Freedom Tower, contemplano la città rischiarata dal chiarore, mano nella mano, e i fantasmi del passato dissolti come cenere al vento d’autunno.

Gianluca Gelsomini