IMAGELAND – PARTE 15

SECONDA PARTE

Cap. 15°

Quel castello non si era mai mostrato come qualcosa di buono e rassicurante. Ostile invece … straniero se ne era rimasto a scrutare minaccioso Imageland che nasceva e si sviluppava.

Appena superato il ponte levatoio – che aveva già iniziato a risalire –, nello spazio antistante all’entrata del castello, ad Ecìla parve d’intravvedere innumerevoli bisce e serpenti che strisciavano, si contorcevano, s’intrecciavano. Inorridita si bloccò, intenzionata quasi a tornarsene immediatamente indietro, quando si accorse che si trattava in verità di ombre guizzanti che il sole, in un precoce tramonto, pareva trarre dalle stesse pietre dell’edificio o rubare ai rami degli alti alberi scheletrici che lì dimoravano.

“Ombre … soltanto ombre …” si confidò, seguitando comunque a sentirsi a  disagio, e quelle allora, come obbedendo ad un suo interno desiderio, si rintanarono tra le innumerevoli crepe del castello o furono presto ingoiate dai tanti camini che svettavano sugli spalti. Alcune di loro parvero attardarsi avviluppate agli alti pinnacoli, oscillando lievemente ad un vento inesistente, per poi sparire definitivamente come fumo quando il sole, in un precoce tramonto, iniziò ad adagiarsi dietro l’orizzonte.

 

Prima di raggiungere il mastodontico portone d’ingresso – nero, massiccio e borchiato di ferro – Ecìla si fermò un attimo ad osservarne la facciata, come per misurarne l’altezza e l’ampiezza, e non seppe resistere poi a saggiarne la pietra che, in cambio, le restituì una tale impressione d’interno gelo da farla rabbrividire.  Fattasi  coraggio, varcò finalmente la soglia d’ingresso – che si spalancò da sola, come se la stesse aspettando – e compì i primi passi all’interno.

La sensazione iniziale fu che il castello fosse disabitato tanto spessi erano il buio ed il silenzio al suo interno.

Attraversato il grande atrio deserto, dove il buio pareva aver trovato ancora più angoli per rintanarsi, Ecìla si ritrovò a visitare molteplici stanze, incastonate quasi una nell’altra in una geometrica enfilade . Dall’odore di muffa e di stantio che le colpiva le narici arguì non esservi vita da tempo in quella sequela di spazi vuoti e che parevano accanirsi a respingere la luce.

Poi, alla fine di quel susseguirsi di sale e salette, Ecìla intravide quello che doveva essere l’ambiente cucina.

Sperando di trovare almeno in quel luogo, caro alla convivialità, un accenno di vita, si affacciò sulla soglia, da dove poté scorgere qualche essenziale utensile e la bocca di un enorme camino dalle cornici sbreccate e simile all’entrata di un antro denso di minacce. La fuliggine che ne aveva annerito le pareti faceva comunque comprendere che, almeno quel luogo, era stato … o forse era ancora frequentato.

Attraversata la cucina in tutta la sua ampiezza, Ecìla si accorse di un’uscita secondaria che doveva dare sul retro del maniero e, raggiuntala, la spalancò, avvedendosi che, in una sorta di cortile interno ed a soli pochi metri di distanza da lei, sorgeva una scala esterna in pietra che doveva condurre al piano superiore.

Fattasi nuovamente coraggio, ne iniziò la scalata.

 

Il secondo piano si sviluppava per lo più identico al primo, ma poté ravvisarvi una sottile differenza nella scelta del mobilio ed un aspetto, per quanto possibile, maggiormente curato.

Ancora una volta si accinse a visionarne le numerose stanze, sempre disposte in una lunga prospettiva d’enfilade, finché, in fondo a tutta quella interminabile sequela, si trovò in una sala più ampia delle altre:  poggiato su di un palco rialzato una sorta di “trono nero” che faceva del buio il suo stesso impero.

“La sala del trono …” pensò, mentre il gelo, che non era mai mancato, lì raggiungeva il suo acme

“Chi mai sarà il Signore … il Re di questo sinistro castello? E dov’è? Dove sono tutti i suoi abitanti? Dove sono finiti?”

Scoraggiata, ripercorse all’indietro tutte le stanze e, lentamente, discese poi la scala esterna, ritrovandosi nell’ampia cucina e, prima di affrontare di nuovo l’infilata di sale del primo piano, si accorse dell’esistenza di un’esigua anticucina … poco più di una nicchia dove, su di una panca di pietra, era steso una sorta di drappo.

Raggiunta da una stanchezza improvvisa quanto inspiegabile, Ecìla vi si sdraiò sopra e, per la prima volta da quando era entrata in quel castello, avvertì come una sensazione di calore … come se quel cantuccio aspettasse proprio lei.

“Probabilmente questa nicchia è situata proprio dietro al camino”, si confidò allora “ed è soltanto a ciò  e non a qualcosa di arcano che è dovuto questa sensazione di calore!”

Aveva appena formulato questo pensiero, quando, di colpo, si addormentò.

 

Deserto … quel castello seguitava a presentarsi deserto, a riempirlo soltanto il silenzio, interrotto ogni tanto dalla voce del vento, ora melodiosa, ora melanconica, ora straziante come un interminabile lamento.

Ecìla si sentiva sempre più oppressa da una strana sensazione, ma, ogni volta che si trovava sulla soglia del sonno, le pareva di avvertire delle voci intorno a sé … percepiva che il castello era tuttavia abitato, ma a lei non era ancora concesso penetrare quel mistero … non era a lei dato vedere l’invisibile.

Passarono così alcuni giorni, ma Ecìla, tra sonno e veglia, non avrebbe saputo dire quanti.

Le pareva però di ricordare – era sogno? Era realtà? – che nelle cucine trovava sempre, pronti per lei, qualcosa da mangiare e da bere. Quel cibo risultava però del tutto insapore, come se ingoiasse soltanto trasparente aria.

Poi, crudele, assoluta, l’assalì la solitudine. Una solitudine che era anche dolore, mancanza di calore, mancanza di speranza …

Una solitudine nera e scarna, simile allo scheletro ripulito di chi un giorno era stato un uomo.

(15 – continua)

Myriam Ambrosini