IMAGELAND – PARTE 14

Cap. 14°

La coltre di nebbia che aveva così dolorosamente avvertito intorno a sé non accennava a diradarsi.

Attraversando il paese, Ecìla iniziò a percepirlo come offuscato e le persone in cui le capitava d’imbattersi le apparivano d’improvviso sbiadite, immateriali al pari di Nives che, almeno, tale le era parsa sin dall’inizio.

Quella stessa algida estraneità che comunicavano i suoi genitori ora la ravvisava anche negli abitanti di Imageland che esibivano infatti  espressioni artificiose,    gesti studiati e sorrisi di circostanza.

“I miei genitori? Nives … la mia migliore amica? Perché?” iniziò allora a domandarsi “Perché proprio le persone a me più vicine e care che debbono – dovrebbero – rivestire un’ importanza vitale nell’esistenza di una persona e, nella fattispecie, nella mia , paiono invece copie sbiadite, se non, persino, caricature di loro stesse?

Ecìla tentò in tutti i modi di sbarazzarsi di quelle sgradevoli … penose sensazioni, così come di quella invalidante nebbia che, pur nella sua simbolica sostanza, offuscava ormai ogni gesto, ogni pensiero, ogni sua nascente iniziativa.

Inutilmente …

La mente le si era come bloccata … nulla scaturiva più dalla sua, sino ad allora, così fervida immaginazione e la sua solitudine – come quando era una bimba  senza nome, orfana e priva di ogni affetto, fragile bersaglio per chiunque avesse voluto colpirla – era di nuovo un macigno da trascinare, un luogo oscuro, negato alla luce, dove ogni pauroso fantasma poteva ghermirla.

Pensava all’uomo dello specchio … avrebbe voluto poterlo rivedere, ascoltare, forse anche abbracciare nella sua potente realtà.

In verità le mancava molto …

 

Imageland brillava sotto un sole caldo e gioioso.

Le piccole case dai colori pastello assorbivano ogni raggio di luce e le fontane zampillavano allegre, riempiendosi di colore.

Qualcuno iniziò a cantare … un canto alto e melodioso e, come a salutare quell’inno alla vita, porte e finestre si spalancarono una dopo l’altra, mostrando i loro gai interni con i letti color salmone, le pareti intrise di luce e le gocce di cristallo dei lampadari a riempirsi di riflessi luminescenti.

Qualcuno cantava …

E le botteghe si schiusero al battito prepotente del sole ed ogni artigiano portava avanti con gioia e passione la sua opera.

Le pecore belavano sazie tra l’alta e vellutata erba primaverile, i frutti degli orti esplodevano alle carezze del sole, ringraziando una terra generosa e feconda.

Gabriel si affacciò sull’uscio della sua bottega e le sorrise … i folti capelli color dell’oro si mossero intorno al suo volto, stimolati da una brezza leggera e profumata di spezie.

Imageland … quella era la sua Imageland … bella … dominio della luce … dell’armonia … della bontà.”

Quella

Ecìla si svegliò e vide che la notte – anche quella di cui era preda il suo cuore – si trovava ancora al suo colmo.

D’improvviso dentro la stanza, magnifica e terribile, scivolò l’immagine dell’uomo dello specchio. Con i suoi vestiti logori ed un po’ grotteschi, attraversò quel breve spazio e l’enorme specchio che sosteneva la sua schiena rubò un riflesso alla giovane luna nascente.

 

Mormorii, stridori e guizzi di ombre dal castello. Dall’eterna nuvolaglia nera iniziarono a saettare i fulmini.

Ecìla, svogliata ed annoiata, osservò da dietro i vetri della finestra il sinistro risveglio di quel gigante di pietra nera.

Sbadigliò a lungo prima di alzarsi: era divenuta pigra, accidiosa e passava ormai quasi tutte le giornate chiusa nella sua stanza.

Era smagrita, sempre di malumore e soltanto il gatto Cesare e Pilù, quando si sforzava di raggiungere il bosco,  riuscivano ancora a strapparle un sorriso o un moto d’affetto.

Il castello dunque si risvegliava …

Per giorni – come la preparazione di un’eruzione vulcanica – da quella cupa nuvolaglia seguitarono a scaturire saette, come crepe feroci nel cielo, ed il frastuono dei tuoni somigliava alla voce di un gigante arrabbiato.

Il massiccio maniero ad ogni lampo lasciava udire gemiti e rauche grida, mentre dietro le orbite cieche delle finestre il popolo di ombre andava addensandosi.

Con il perdurare del fenomeno, persino gli imperturbabili abitanti di Imageland iniziarono a volgere sempre più spesso lo sguardo verso il castello.

Ecìla non ignorava tutto ciò, ma tuttavia non riusciva ad uscire dalla sua apatia; da quel senso d’indifferenza ed inutilità che ne rendeva lenti i gesti e spenti i giorni. Finché una sera, di ritorno da uno dei suoi soliti vagabondaggi, Cesare entrò trafelato nella sua stanza e, con un’espressione disperata che sgranava i suoi occhi e rendeva più aguzzo il suo muso: <Miaoooooooo …> urlò, d’istinto, appena si trovò dinanzi ad Ecìla.

<Pilù … Pilù sta male!> gridò poi, correggendo il suo naturale linguaggio felino.

<Pilù …> ripeté dapprima stancamente, Ecìla, come se non avesse ben compreso il messaggio accorato del gatto <Pilù sta male?> chiese poi, finalmente conscia della cattiva notizia che le era stata appena comunicata.

<Sì, molto male …> e Cesare, a quel pensiero, scosse la grossa testa e arruffò il pelo.

<Vieni, Ecìla  … Presto! Corri … corriamo da lui … ha urgente bisogno di noi!>

 

Il pettirosso giaceva supino su di una foglia … il corpicino come rattrappito, le alucce aperte intorno al corpo e la macchia rossa sul petto quasi completamente sbiadita.

<Pilù … Pilù … piccolo mio!> lo chiamò Ecìla, sedendosi a terra accanto a lui e raccogliendo poi la foglia nella sua mano.

<Pilù, cosa è accaduto? Ti hanno fatto del male?>

L’uccellino fissò i suoi occhietti neri, offuscati dal dolore, in quelli di Ecìla.

<No …> mormorò poi a stento <No, Ecìla cara, è soltanto … la morte!>

<La morte? Ad Imageland nessuno può … deve morire!> urlò allora,

<Noi … noi sì!> la corresse Pilù in un bisbiglio.

<Noi “chi”?> chiese la bimba, carezzando quel corpicino sofferente.

<Noi animali …>

< … L’uomo dello specchio … ricordi Ecìla? L’uomo dello specchio lo disse che noi seguiamo l’istinto … e quello sfugge anche al tuo dominio … anche a te!>

<No … no, tu non puoi morire: io ti voglio bene! Sei importante … troppo importante per me: non lo permetterò!>

< Allora ascolta, Ecìla …> ed il cinguettio parlato di Pilù era ormai soltanto poco più di un bisbiglio nel vento <Ascolta … tra breve dovrai sopportare una prova terribile ed io non potrò essere con te.>

Ecìla scosse violentemente la testa come per sconfessare quell’ultima affermazione.

<Guarda allora dentro di te … ascolta attentamente il tuo cuore e non farti deviare da false verità, da facili allettanti menzogne.

Pensa a me ed all’uomo dello specchio quando ti sentirai persa e non saprai quale sia la soluzione … la scelta giusta e subirai il peso della verità. Pensa … pensa a me!>

Un piccolo brivido scosse quel corpicino e le aluccie si aprirono in croce, mentre

dall’esile becco uscì un ultimo nostalgico “Ciricì”!

 

Ecìla, scuotendo quel cadaverino, provò a rianimarlo e, mentre Cesare lanciava tutt’attorno strazianti miagolii, come per riscaldarlo, se lo  strinse poi fortemente al petto, adagiandolo infine sul suo cuore.

Nel tornare poi a depositarlo sulla foglia, sfiorandolo con un dito come era solita fare, in un’ultima carezza, Ecìla si accorse che sul suo polpastrello si era depositata una tremula goccia di sangue che, ad un ultimo raggio di sole, brillò accesa al pari di un rubino, mentre di Pilù non vi era più alcuna traccia.

(14 – continua)

Myriam Ambrosini