IMAGELAND – PARTE 06

Cap. 6°

“Tullio ed Elvira”… pensò Ecìla, rincantucciata nel letto sotto una strato di calde coperte “Sono due nomi che credo di ricordare da sempre … abbelliti ed indorati, credo, dal tempo”.

L’indomani Ecìla, scendendo in cucina le trovò lì … quelle due persone autoproclamatesi “genitori”.

Rigidi ed impettiti parevano attenderla intimiditi, anche se un accenno di bonario sorriso comparve immediatamente sulle loro labbra non appena si accorsero della sua presenza.

Ecìla, calda di letto, rabbrividì ed allora si rese conto che la cucina era gelida, poiché i due non avevano provveduto ad accendere il camino. Notò comunque che, al contrario di lei, sembravano immuni al freddo che aveva preso possesso della casa.

“Pare che se ne siano rimasti lì, in piedi d immobili, per tutta la notte …” si confidò Ecìla.

<Salve!> esclamò comunque e si avviò decisa verso il focolare.

<Guardate …> aggiunse poi e mostrò loro come accendere un bel fuoco.

<Sedetevi …> disse infine, una volta che il fuoco aveva preso a scoppiettare allegro, regalando un po’ di calore a quell’ambiente gelido.

Poi Ecìla si premurò di aprire le finestre e rimase per un attimo ad osservare i bianchi fiocchi di neve che, seguitando a scendere copiosi, avevano mutato l’aspetto del paese.

Seduti impettiti sulle sedie dall’alto schienale i genitori tenevano lo sguardo fisso su Ecìla, come in attesa, se non di ordini, almeno di disposizioni da parte sua.

<Ho deciso di chiamarvi Tullio ed Elvira,> disse infatti Ecìla, sforzandosi di sorridere a quei rigidi manichini che l’osservavano con palese intensità <ma se preferite altri nomi o già ne possedete di diversi, non avete che da dirmelo e li sostituirò.>

<No … vanno benissimo.> risposero all’unisono.

<Vi piacciono dunque?> sottolineò Ecìla.

<Naturalmente …> confermarono, doppiando nuovamente, con perfetta sincronia, uno la voce dell’altro.

Detto ciò il silenzio tornò a calare nella stanza dove si percepiva soltanto il sussurro ardente del fuoco.

“Vogliono compiacermi …” si disse Ecìla “Per loro sembra fondamentale compiacermi!”

Inconsciamente si alzò e si diresse verso il camino, stendendo le mani dinanzi alla fiamma per scaldarsi da un gelo che, più che la sua persona, sentiva stava penetrando nel suo cuore.

“E’ soltanto l’inizio …” provò poi a rassicurarsi <Sono nuovi nel loro ruolo  e paiono non conoscere nulla di me …”

<Tullio … Elvira …> sentì allora di dover dire <Sapete cucinare?> aggiunse poi, pronunziando la prima cosa che le veniva in mente.

Un largo sorriso animò l’espressione della coppia che, senza aggiungere parola, si mise immediatamente all’opera e, mentre uno accendeva la cucina economica, l’altra, rovistando tra le pentole, scelse un bricco per preparare il caffellatte.

Strane ombre sul castello.

Una nera nuvolaglia pareva essersi abbarbicata agli alti pinnacoli, stringendoli quasi in un abbraccio mortale.

Una densa foschia avvolgeva invece gli spalti e parte dell’intera struttura. Soltanto il nero portone d’ingresso, stretto come in una morsa dal possente ponte levatoio, mostrava per intero il suo volto, mentre le feritoie delle finestrelle parevano rabbrividire agli assalti di un vento impetuoso che all’improvviso si era levato.

Seduta dinanzi alla finestra della sua stanza, con il grosso gatto rosso a ronfare sulle ginocchia, Ecìla osservava pensierosa quel bizzarro accadimento che pareva però riguardare soltanto il castello, lasciando tutto il resto del paese nella normalità.

Similmente ad una danza che avesse perso il suo ritmo originale, pur in assenza di lampi, lame di luce iniziarono ad illuminare, senza un ordine preciso, ora una feritoia ora l’altra del castello, animando la facciata con sprazzi discontinui di luci e di ombre.

Ecìla, come ipnotizzata, non riusciva a staccare gli occhi da quella visione.

La sua mente andava però ogni tanto, rabbrividendo, alle figure rigide dei genitori che immaginava, privi d’espressione, seduti immobili accanto al focolare, in attesa che lei scendesse in cucina.

“Qualcosa non stava andando nel senso giusto, sfuggendo apparentemente al potere della sua mente …” Fu allora costretta a confidarsi.

<Non mi piacciono!> ed alle parole il grosso gatto rosso aggiunse uno stridente miagolio, come ad affermare, in modo ancor più palese, tutto il suo disappunto. Ecìla volse di nuovo lo sguardo verso i suoi genitori seduti impettiti accanto al fuoco del camino, e non poté non condividere il giudizio del gatto.

<Eppure sono gentili, educati … e paiono sempre attendere soltanto di potermi compiacere.> affermò rivolta a Cesare che, a sua volta, teneva i tondi occhi gialli fissi sulla coppia irrigidita in una posa innaturale.

Ecìla, lentamente, passò in esame, quasi centimetro per centimetro, i lineamenti, la figura e persino gli abiti di quei suoi algidi genitori.

La donna era bionda, graziosa e, nell’azzurro slavato degli occhi, quanto sulle labbra si poteva leggere un sorriso perenne.

L’uomo era alto e slanciato, scuro di occhi e con una folta capigliatura corvina che brillava alla luce del fuoco, rilasciando lampi azzurrini. Anche le sue labbra piene erano piegate in un sorriso fisso come in un quadro.

Entrambi dimostravano poco più di trent’anni.

“Cosa manca loro per essere dei buoni genitori?” si chiese Ecìla “Sono perfetti …”

Proprio quel perfetti suonò improvvisamente ad Ecìla come una nota stonata di cui però non riuscì ancora a cogliere il motivo della dissonanza.

Ecìla lanciò allora un altro sguardo alla coppia che, sotto quel palese esame effettuato dalla bimba, avevano assunto una posa ancora più composta, irrigidendosi ulteriormente.

Una breccia iniziò ad aprirsi nel cuore di Ecìla … dunque qualcosa nelle sue creazioni doveva esserle sfuggita: ma cosa?

“In fondo sono ancora soltanto una bimba,” provò a consolarsi “non conosco ancora a fondo tante cose … troppe cose. Pur tuttavia a  me … proprio a me è stato dato questo potere e, prima o poi, imparerò a gestirlo al suo meglio: dovrà sicuramente essere così!”

Poi Ecìla pensò a Gabriel, il biondo e bellissimo falegname che la riempiva di gioia ad ogni incontro e sentì il bisogno irrefrenabile di raggiungere immediatamente la bottega dove si trovava e, presa allora la pesante mantella che, da qualche giorno, si era improvvisamente materializzata su di un attaccapanni, – forse l’esaudimento di un suo desiderio, pur inespresso – e si avviò verso la porta d’uscita.

Il grosso gatto fece l’atto – come sempre d’altronde – di seguirla, ma Ecìla, chinatasi accanto a lui, gli sussurrò in un orecchio: < No, Cesare … perdonami, oggi preferisco rimanere sola! >

E, vedendo l’espressione rattristata del gatto, gli accarezzò con dolcezza la testa setosa.

<Torno presto.> aggiunse, guadagnando già l’uscita.

 

Gabriel sorrise e l’azzurro dei suoi occhi era un lago di montagna ai primi raggi dell’aurora.

Ecìla pensò ancora una volta a quanto fosse bello … forse la sua creazione migliore.

<Gabriel> disse allora <ho un problema ed ho bisogno di un consiglio.>

< Un problema?> sottolineò il biondo falegname.

< Sì … qualcosa che mi rende triste.>

<Triste?> e Gabriel la sfiorò con lo sguardo.

Ecìla si sedette sulla panca di legno, lucida e levigata come fosse marmo, posta accanto alla porta d’entrata ed iniziò a raccontare.

< … Capisci, m’inquietano quei miei genitori così perfetti, ma anche così rigidi, algidi, quasi disumani.>

<Ma … ma sono brave persone …>sottolineò il falegname con un’espressione confusa sul volto.

Ecìla guardò verso Gabriel e, in quell’azzurro ed oro che lo connotavano, capì che non aveva compreso.>

<Certo … sono brave persone, ma c’è qualcosa che non va, sembrano comunque mancanti : una realizzazione in parte difettosa.>

<Ma, perdonami dolce Ecìla, se mi hai appena detto che sono di aspetto gradevole, puliti, educati e persino appropriati nella scelta dell’abbigliamento. Forse non mostrano di volerti bene?>

Ecìla, a quella domanda, corrugò la fronte, riflettendo.

<Mostrano di volermi sempre accontentare e non hanno che sorrisi sui loro volti quando si rivolgono a me: questo è amare?>

Gabriel sollevò le spalle in un gesto dubbioso.

<Non so, Ecìla, come pensi che debba essere “amare”?>

<Tu forse non mi ami?>

<Credo … credo di sì: mi hai creato!>

<Già ti ho creato ed allora non puoi che … sei costretto ad amarmi!>

<Costretto? No … no … Ecìla! Sei così dolce, bella ed amichevole nei miei confronti, e …>

Ma non seppe più cosa dire: confusione e quasi vergogna nel suo sguardo chiaro.

Gabriel tacque, sforzandosi di guardare altrove.

<Grazie, Gabriel.> sussurrò Ecìla con un nodo in gola e quel giorno tutto quell’azzurro e quell’oro parvero come sbiaditi mentre lasciava la bottega.

Non aveva voglia però di tornarsene  casa ed allora, attraversando Imageland, si avviò verso i pascoli che sempre la rallegravano con la loro vista.

 

“Ciricì.”

Un cinguettio la raggiunse da qualche punto sopra la sua testa.

<Ciricì!>

Ed Ecìla, guardando in alto, scorse sul ramo di un albero un piccolo pettirosso.

<Salve!> gli gridò allora allegramente, rivolgendo al piccolo volatile anche un benevolo sorriso.

<Ciricì … salve!> cinguettò a sua volta il pettirosso, fissando Ecìla con i suoi brillanti occhietti  neri <Sei triste, non è vero?> aggiunse poi, notando l’espressione un po’ tesa della bimba.

<Forse …> confermò Ecìla <ma vieni qui, fatti vedere più da vicino!> e porse una mano affinché l’uccellino potesse posarvisi.

Il pettirosso , dopo un breve attimo di esitazione, staccandosi dal ramo, volò sulla mano della bimba che tese allora il dito indice affinché – a mo’ di alternativo trespolo – potesse agganciarlo con le esili zampine.

<Pilù … ti chiamerò Pilù!> affermò poi Ecìla <Ti piace come nome?>

Il pettirosso parve riflettere e, allargando le alucce, rispose d’istinto <Ciricì …> e scosse il capino contrariato con se stesso per aver ancora una volta usato il consueto cinguettio <Non è il massimo … ma può andare …> si corresse poi.

Insieme iniziarono poi ad attraversare i verdi pascoli e, ad ogni pastore o contadino a cui Ecìla regalava il suo saluto, Pilù univa alla voce della bimba il suo Ciricì  che, secondo le regole fissate da Ecìla, alcuni coglievano come un “Salve!” ed altri invece no.

 

Nei giorni seguenti Ecìla e Pilù divennero inseparabili. Il pettirosso raggiungeva la bimba non appena questa lasciava il paese per inoltrarsi nei campi o visitare il bosco limitrofo: poggiato su di una spalla di Ecìla o scegliendo la sua folta capigliatura come il sostituto di un vero nido, Pilù alternava cinguettii e parole.

Ci volle poco tempo perché Ecìla si accorgesse che in quell’uccellino abitava una saggezza antica ed allora iniziò a confidarsi con lui e ne ricavò sempre delle perle di saggezza.

Pilù possedeva poi un’altra incredibile proprietà: nei tempi intermedi che precedevano l’alba o il tramonto, la macchia rossa che decorava il suo petto rosseggiava più intensamente e pareva divenire liquida … uno scintillio rubino rosso sangue.

La prima volta che Ecìla assistette al curioso fenomeno rimase assai turbata e ne chiese ragione al suo piccolo amico, ma Pilù parve assai reticente e, soltanto dopo diversi tentativi da parte della bimba di conoscerne il motivo, si decise a rispondere: <Un giorno te lo dirò, Ecìla … E’ un racconto bello e triste che mette a nudo le ombre e gli abissi che, a volte, ospita il cuore umano.>

Scosse poi la testolina e dal suo becco uscì uno sconsolato “Ciricì”.

(6 – continua)

Myriam Ambrosini