IN ATTESA DI UNA SPIEGAZIONE RIVELATRICE

Sono nelle mani di una zanzara. Mi può uccidere quando vuole. Fortunatamente, fino ad ora non ha abusato del suo potere: esercita la sua autorità con moderazione, senza arbitrio, in maniera, diciamo, costituzionale. Ma si deve comunque tener presente che la mia sottomissione non deriva dal riconoscimento dei suoi meriti o virtù, bensì dal timore che mi infonde.

Se lo ritenesse opportuno mi ucciderebbe e il suo crimine (o esecuzione) rimarrebbe impunito. Anche nel caso in cui le autorità giudiziarie potessero provare in maniera schiacciante che la zanzara è l’omicida non potrebbero punirla: non solo per il fatto, secondario, che questa figura delittuosa non è prevista dal codice penale, ma soprattutto perché la zanzara stessa non permetterebbe di farlo. Per fortuna ho elementi sufficienti per supporre che, se io non le fornisco pretesti, abbia definitivamente scartato l’idea di giustiziarmi.

La zanzara se ne sta sulla parete, vicino al vertice di un quadro dipinto a olio che rappresenta un paesaggio improponibile in cui due pastorelle, in apparenza spagnole, ognuna con il suo bastone, parlano di cose ignote circondate da docili pecore; la schiena dritta di una di esse coincide assurdamente con la linea dell’orizzonte. La topografia è abbondante: c’è una pianura verde, ci sono due montagne di colore viola contornate di bianco e c’è un fiume azzurro che sfocia in un lago grigiastro. Non capisco nulla di arti plastiche ma mi è sempre sembrato che questo quadro sia totalmente privo di valore artistico. Tuttavia, si direbbe che alla zanzara non interessi il valore artistico, né, forse, nessun altro tipo di valore. Perlomeno non ha mai manifestato approvazione o biasimo.

Preferisce occuparsi di altre faccende. Durante la mattinata le piace girare per la casa, probabilmente senza uno scopo preciso. Ma il fatto è che, dalla sala da pranzo, dove ha stabilito la sua sede governativa, si dirige in primo luogo verso la cucina, dove sembra – ma è senza dubbio una mia mera supposizione – essere attratta dalla brillantezza di una casseruola dal manico nero e allungato. A volte mi sono chiesto come mai un oggetto così banale richiami tanto la sua attenzione. Ho realizzato che in fin dei conti è solo una zanzara. E’ in cucina che si trattiene più a lungo. Poi passa per l’entrata, il reparto notte e l’altra stanzina senza soffermarsi in modo particolare su nessun oggetto. Credo che il suo scopo sia più ratificare la sua autorità sui suoi domini che verificare il buon andamento della casa.

A mezzogiorno – alle dodici e mezza, per essere più precisi – pranza. La sua dieta non è molto variata. Mangia tutti i giorni una fetta di sanguinaccio basco che le servo su un piattino di porcellana (non ne accetterebbe uno diverso). Ricordo ancora il giorno in cui rifiutò indignata un pezzetto di sanguinaccio nostrano che le avevo offerto ossequioso nel tentativo di ingraziarmela: dovetti scendere dal macellaio in tutta fretta e comprarle il suo cibo preferito, l’unico che accetta. Una volta lasciato il piattino sul tavolo, devo andarmene immediatamente, in quanto non tollera che qualcuno sia presente mentre mangia. Tuttavia, un po’ d’astuzia ce l’ho anch’io e certe volte – quando non ho nessun’altra cosa più urgente da fare – la spio dal buco della serratura. Questa è un’azione abbastanza stupida: confesso che non c’è niente di particolarmente notevole in ciò che vedo. Appena la zanzara s’è accertata che ho lasciato la sala da pranzo scende lentamente in volo sul piattino di porcellana. Poi affonda la sua tromba nel sanguinaccio e succhia avidamente il sangue (evitando, paradossalmente, i pezzetti di noce, che sono ciò che differenzia il sanguinaccio basco da quello nostrano): in questa azione è perfettamente uguale a tutte le altre zanzare del mondo. Il suo pranzo dura in genere dai due ai tre minuti. (In realtà ho mentito dicendo che la spio quando non ho cose più urgenti da fare: la verità è che la spio tutti i giorni. E’ affascinante introdursi nell’intimità dei potenti).

Una volta saziato il suo appetito, la zanzara viene colta da una specie di sonnolenza mista a pesantezza e non sembra più in grado di fare ritorno alla sua residenza vicina al quadro delle pecore. Preferisce allora dormire una sorta di siesta sul battiscopa, in un punto in cui la parete è leggermente incavata. Si sveglia sulle cinque del pomeriggio e non gira più per la casa: si piazza di nuovo vicino al quadro e rimane lì fino all’ora di cena.

A proposito di questi particolari, supposi, erroneamente, che conoscere con tale precisione le sue abitudini di vita mi desse qualche vantaggio al fine di sbarazzarmene. Ci provai una sola volta: mi andò così male che non osai riprovarci. I fatti, mi vergogno a ricordarli, andarono così: quel giorno mi sembrò che il suo pranzo fosse durato più del solito e che la zanzara fosse particolarmente appesantita. Allora mi levai una pantofola, la presi in mano per usarla come arma e mi avvicinai alla zanzara con la massima circospezione e con il cuore in gola, fino ad arrivare al battiscopa su cui dormiva o fingeva di dormire. Per un attimo la superbia mi accecò e credetti candidamente di poterla fare fuori facilmente sbattendola con la pantofola sul legno del battiscopa. Ma nel preciso istante in cui le stavo per assestare il colpo fatale spiccò il volo rapida e maestosa e si lanciò verso il mio volto. Iniziai allora una fuga sbigottita per tutta la casa, gridando di paura, impazzito. Come volava veloce, come si mimetizzava bene, com’era silenziosa la sua persecuzione, quanti ostacoli m’impedivano di muovermi con la velocità che la pericolosità della situazione richiedeva! Tentai di far girare la chiave nella serratura per aprire la porta e fuggire per sempre dalla mia casa, ma questa operazione era impossibile: la zanzara non mi dava tempo, la chiave s’incastrava e le mie dita si bloccavano. Corsi, corsi per tutta la casa, corsi senza poter frapporre tra me e la zanzara una porta chiusa, corsi inciampando sui mobili, abbattendo sedie, rompendo vasi e vetri, strapazzandomi i vestiti, ferendomi le ginocchia e i piedi scalzi. Corsi, corsi, corsi fino a che, esausto, caddi in ginocchio.

-Perdono! Chiedo perdono! – gridai con le mani congiunte con espressione supplichevole. – Lo giuro, lo giuro su ciò che c’è di più sacro! Giuro di non provarci mai più!

La zanzara si fermò e iniziò a fare dei brevi voli circolari mentre io, versando fiumi di lacrime, ripetevo quelle parole supplichevoli e altre di simili. Non so se mi ascoltava. Sembrava meditare su cosa fare di me. Doveva prendere una decisione importante per la quale, senza dubbio, serviva la riflessione, possibile solo nei momenti di calma e silenzio. Io, invece di tacere, continuavo a gemere e ad ansimare, con i vestiti inzuppati di sudore; notavo che le vene delle mie mani erano gonfie, violacee, quasi nere. La zanzara pensava, ponderava, rifletteva seriamente: era chiaro che non avrebbe preso una decisione affrettata di cui poi si sarebbe potuta pentire. Aleggiava, aleggiava sempre più lentamente, come se volesse fermarsi ma – e questo era esasperante – non si fermava. Questo stato di cose durò più di mezz’ora e io nel frattempo (con il volto impallidito, gli occhi colmi di lacrime, tremante da capo a piedi, aspettavo il suo verdetto e la sua sentenza, che sarebbero stati simultanei) osservavo dalla finestra i muratori che lavoravano nel cantiere in costruzione sul marciapiede di fronte e pensavo che loro vivevano in un mondo di sole, aria, secchi e mattoni, in un mondo in cui non viveva una zanzara sinistra e potente che ora avrebbe deciso della mia vita o morte… Alla fine la zanzara fu misericordiosa: con un sollievo indicibile la vidi dirigersi calma verso il suo piedistallo, senza alcuna vanità, certo, ma sicura che non mi sarei mai più azzardato a disturbarla.

Dopo questo episodio capii che dovevo rassegnarmi al mio destino. In fin dei conti la zanzara non pretendeva molto da me: le due fette quotidiane di sanguinaccio e il piattino di porcellana. Ho tuttavia uno scrupolo, uno solo: mi irrita, mi ferisce, mi umilia essere nelle mani di un insetto così piccolo, che pesa solo pochi milligrammi quando io peso quasi ottanta chili. Nello stesso tempo, non mi sento per nulla sminuito per il fatto di essere alle dipendenze di un ente irrazionale, un ente che ha, letteralmente, un cervello di zanzara. Forse questa rassegnazione è dovuta al fatto che molte volte ho lavorato alle dipendenze di gente meno intelligente e sicuramente molto meno attrente di un gatto.

Ma così come ho uno scrupolo, ho anche una speranza. So che la vita di una zanzara dura solo pochi mesi: pertanto ogni mattina dò un’occhiata furtiva al calendario attendendo il giorno in cui potrò cerchiare con una matita verde che tengo nascosta la data in cui la zanzara morirà. Però è anche vero che domani saranno vent’anni dal giorno in cui la zanzara fondò il suo impero. Ciò, oltre a contraddire le leggi naturali, mi fa sprofondare in una sorta di allucinazione: l’idea che la zanzara sia immortale.

Dall’eventuale falsità di questa idea deriverebbero due possibilità.

La prima è che la zanzara non sia stata sempre la stessa e che durante la notte, mentre io dormo, la zanzara moribonda venga sostituita da una più giovane e più forte. Mi ha indotto a supporre ciò il ritrovamento di un cadavere di zanzara una mattina ai piedi del tavolo in sala da pranzo. E’ certo che questa non è una prova decisiva: non sono affatto sicuro che quella zanzara morta fosse quella che m’ha tenuto in suo potere, magari era una banalissima zanzara, di quelle che si eliminano facilmente con la ferula o con l’insetticida.

La seconda possibilità esclude la prima. La zanzara potente potrebbe essere quella morta e quella che si trova vicino al quadro delle pecore sarebbe una zanzara usurpatrice, senza alcun potere, una zanzara che fonda la sua autorità su una mera questione di somiglianza. Ma poiché questa argomentazione non spiega i vent’anni di potere, si potrebbe supporre che le zanzare usurpatrici siano molte e che si succedano disciplinatamente. In ogni caso, non oserò accertarmi della verità: potrebbe essermi fatale.

Così intanto passano i giorni, i mesi, gli anni senza che io possa fare nulla. Invecchio e marcisco, consumato dalla mia angoscia e, sempre sottomesso ad una zanzara, continuo ad attendere una spiegazione rivelatrice.

Fernando Sorrentino

(Da Imperios y servidumbres, Barcelona, Editorial Seix Barral, 1972. Traduzione di Alessandro Abate)