DIOGENE

Ondeggiava la lanterna… avanti… indietro… fendeva le nebbie più dense, bucava prepotente la notte, strappava all’acqua liquide trasparenze, irrompeva nel buio…

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“Cos’è che abbiamo perso?” pensava. Nella multiforme abbondanza che ci è stata donata – prestata? – perché quasi sempre, come ciechi, abbiamo pescato – estratto – soltanto la zavorra, la maleolente mucillagine che raschiava il fondo, il marcio che ammuffiva negli angoli…?

Diogene si raggomitolò ancora di più nella coperta consunta: la notte era illune ed il freddo non dava tregua.

Erano quelli i confini del mondo?

<Cosa abbiamo perso?> si ripeté ed anche se, per quanto lo riguardava, era stato sempre così parco nel pretendere ed assai generoso invece nel darsi alla vita, nel rispettarne, rigorosamente, le reali richieste, le verità, le leggi immutabili, gli umori.

“Abbiamo…” si diceva però, perché anche lui, comunque, volente o nolente, faceva parte di quell’umanità che ormai pareva divenuta ignara, proterva, insaziabile.

Eppure, nel disincanto dei secoli trascorsi, c’era pur stato qualcosa in cui credere,  cui sarebbe stato giusto, nonché opportuno tener fede e c’era anche sempre stato qualcuno in grado di farlo: ma ora?

L’orizzonte si illuminò di luci violacee orlate di verde e sanguigno: svolazzando, come ali di angelo o di dèmone, invadevano magicamente il cielo.

Diogene, tirando i lembi della sudicia coperta affinché seguitassero a coprirlo, si sollevò per contemplare quel prodigio iridescente.

Al di sotto di quelle misteriose danze colorate – che parevano assecondare una loro interna armonia – Diogene si sorprese a ricordare tutti gli eoni di anni che aveva passato a cercare… cercare… cercare: attraverso la storia, attraverso i popoli, le civiltà, la danza dei secoli… di mutamenti, restaurazioni, regressioni, decadenze ed improvvisi progressi, qualcosa che era da salvare… qualcuno che era da imitare.

La sua lanterna aveva oscillato dappertutto e neppure il vento più impetuoso era riuscito a spegnerla: in mezzo alla bolgia pulsante di una farraginosa umanità – qua e là – qualcosa aveva infine trovato; qualcuno infine… si era salvato. Ma ora?

<Cos’è che abbiamo perduto?> la domanda – ripetuta, insistente -, come un uncino infuocato, scavava nella sua anima.

“L’umanità…”

Fu realmente una voce o piuttosto il suono di un vento che si era misteriosamente risvegliato quella che parve rispondere alla sua accorata, viscerale richiesta?

“L’umanitààà…”

E capì che la voce nasceva dal gelo stesso che covava sotto di lui, dalla medesima aria che si condensava non appena uscita dalle sue labbra; una voce che correva, a perdita d’occhio, per tutta quella immensità oscura che lo circondava, sino ad arrivare a toccare quel cielo impassibile dove seguitava la silente danza spettrale: quella era la voce stessa del mondo.

 

Diogene si sentì piccolo, smarrito, disperso: “Dov’è l’uomo?” si era sempre chiesto in passato, ma “Che cosa ne è dell’uomo?” si trovava invece or a chiedersi.

Soltanto per sentirsi un po’ meno solo, con l’ultimo stoppino, accese allora la sua lanterna e fu nel riflesso sospeso di un ghiacciolo che poté scorgere la sua immagine.

Avrebbe ancora atteso, ma per poco, soltanto sino a quando l’olio della lucerna non si fosse esaurito.

Myriam Ambrosini