I PAESI DELL’OMBRA – 06

I MORTI

Nella radura, attorno alla quercia schiantata dai fulmini, ronza un folto sciame di insetti. Vespe e calabroni formano una nuvola ronzante attorno alle spoglie dell’albero. Altre centinaia di insetti di ogni tipo si rincorrono lungo la corteccia e i rami. Cosa sta accadendo? Anche la natura pare sul punto di perdere la ragione. Zeno arriva presso il bus e non trova i due travellers. Prosegue fino alla casa del vecchio. Bardeville e Marialé non ci sono. Zeno cerca nel piccolo cimitero. Si aggira tra le croci. Ritrova il punto in cui aveva intravisto il becchino il giorno in cui lo aveva portato a casa sua. Poi si ferma, forse stremato da un sole ancora violento e inizia a sentirsi ridicolo: in quel momento realizza di aver mollato il turno di lavoro per correre a capofitto in un cimitero abbandonato di campagna. A quel punto ha due possibilità: buttarsi a terra e strapparsi i capelli in preda a una crisi di nervi, oppure mettersi a ridere. Sceglie la seconda. Zeno scrolla il capo, sinceramente divertito dalla sua impulsività. Cosa credeva di trovare? Cosa credeva di aver intuito? Complotti dall’oltretomba? Maledizioni ordite da un vecchio scemo e una ragazza handicappata? Ma quello che lo diverte di più è provare a immaginare la faccia di un capo turno giù al centro commerciale. Controlla il cellulare, e nessuno lo ha cercato. Tanto vale godersi quelle ultime ore di luce. Zeno si stende nell’erba alta e socchiude gli occhi. Il tepore del sole gli scalda il viso e asciuga l’ultimo tratto del pomeriggio. Sopra di lui la tinta infiammata dell’aria si smorza a poco a poco a favore del manto purpureo della sera. Il rumore di grilli e cicale. Una formichina che si infila nell’orecchio e Zeno si tira su. Nel fare quel movimento l’occhio cade sulle parole a sbalza su una lapide. Ad attirarlo è il nome del morto. Poi le date di nascita e di morte. Infine una fotografia in bianco e nero velata dall’umidità di tante notti gelate. Nella foto è ritratta una bella ragazza sui vent’anni, bionda. Zeno barcolla all’indietro. I suoi denti battono l’uno contro l’altro. Prova a sollevarsi ma un capogiro lo ributta giù nella sorba.

Marialé!- Grida sgomento e sviene accanto alla lapide di una ragazza morta da trent’anni. La scritta recita:

Marialé Bardeville 1960 – 1981.

 

Lo ridestano delle grida improvvise. Zeno si alza di scatto e stenta a ricordare dove si trova. Intanto, è scesa la notte. Una notte meravigliosa fatta di stelle splendenti che spiccano sul manto scuro. Tutto è tranquillo, nulla sembra preannunciare catastrofi. Invece Zeno ricorda ogni cosa. Fa uno sforzo tremendo su se stesso per dominare i nervi e allontanare l’angoscioso ricordo della lapide di Marialé. Per le prima volta dall’inizio di quella torrida estate sente una specie di freddo posarsi sulla pelle. C’è un’umidità tremenda che gli scava nelle ossa. Zeno trova le energie per abbandonare velocemente il camposanto. Non sa cosa fare, dove andare e la testa gli da ancora qualche vertigine, eppure intuisce che l’importante, la prima cosa, è lasciare quel luogo maledetto. Non vuole nemmeno rivedere la foto sulla lapide, verificare se si è trattato di uno sbaglio tremendo, di un abbaglio, non vuole correre il rischio di svenire di nuovo e rimanere inerte in balia della notte e di quello che essa contiene. E’ in questo stato di prostrazione mentale, quando le urla tornano a disturbare la quiete dei giusti. Nell’udirle, lui si confonde maggiormente, e non riesce a distinguere se si tratta di voci umane o strilli confusi di animali, comunque l’effetto è impressionante. Quasi inconsapevole dei suoi stessi movimenti, come prigioniero di una ipnosi o di un incantesimo sconosciuto, Zeno cammina spedito nella direzione da cui giungono i rumori. Cammina a fatica, inciampando più volte nei grumi di ombra che ricoprono il terreno. Nell’avanzare verso la misteriosa sorgente, i rumori mutano in altro, forse delle voci gridate, lontane, poi ancora in voci più posate, differenti per tono e colore. Una girandola di voci che si librano nell’aria come lucciole sonore e lo accompagnano nel suo errare nella notte…

 

I capireparto, i capi turno non ti dicevano niente su quello che stavi facendo, o di quello che respiravi. Erano gli operai di quel tempo che ti insegnavano. Mi sono reso conto subito che la polvere era insopportabile, l’ambiente di lavoro era insopportabile. Cominciai a lamentarmi e mi spedirono in un reparto peggiore. Eppure era un inferno anche per loro, per quelli che dovevano controllarci. Eppure sopportavano. Per uno stipendio appena maggiore e la finta condiscendenza dei padroni, facevano da caporalato di fabbrica e morivano come noi altri…

 

Le nostre richieste di allora vertevano sempre sullo stesso punto, un ambiente di lavoro più sano, non solo una sala mensa. La nostra lotta era quella di migliorare l’ambiente di lavoro. Di aggiungere aspiratori. Un giorno si ruppe un aspiratore e andai dal caporeparto a dirgli di fermare l’emissione di cemento. In un attimo c’era polvere ovunque, l’ambiente si era saturato di polvere. Ma lui non mi ascoltò, non mi disse nulla. Non vede che tipo di situazione stiamo vivendo? E lui, mene sbatto i coglioni, ma la produzione deve proseguire. Ecco quella era la politica aziendale!…

 

Io mi presentai al mio turno e non c’era la cartolina da timbrare. Mi mandarono in Direzione, non mi consegnarono nemmeno la lettera per mano, mi dissero che la raccomandata con il mio licenziamento era partita il giorno prima, e quindi non avevo più niente a che fare con la Fabbrica…

 

Eravamo bianchi, uomini e donne, eravamo irriconoscibili…

 

Ho studiato all’estero, ho fatto stage, ho mandato il curriculum a decine di società, senza ricevere in risposta neppure un no…

 

Alle lastre, tubi, pressione, magazzino, dappertutto…

 

I sacchi arrivavano alla stazione, li aprivamo coi coltelli, dentro lo stabilimento…

 

Una operaia era preoccupata per sua figlia, diceva, accidenti esco con la polvere, con il camice tutto bianco ad allattare, la sua preoccupazione era quella…

 

La stragrande maggioranza di noi andava a casa con la tuta…

 

Pochissimi si cambiavano in fabbrica…

 

I dirigenti di allora, il caporeparto, il capoturno non ti dicevano nulla sulla pericolosità di quello che facevi, o di quello che respiravi. Erano gli operai con più esperienza che ti insegnavano…

 

Non mi hanno mai detto che l’amianto fa venire il mesotelioma…

 

 Non, no, anzi era tabù, non bisognava parlarne, perché tutto era sano tutto andava bene…

 

Ma no, non fa male, state tranquilli, si sminuiva la cosa, la cosa veniva sminuita…

 

Si lavorava e si andava avanti…

 

Ero pieno di stimoli, quando mi sono laureato, adesso non ne ho più a 27 anni, non è giusto che non ne abbia…

 

Continuavo a lavorare…

 

I camion giravano sulla statale, un avanti e indietro notte e giorno, c’era movimento e la polvere si vedeva a vista d’occhio, cioè non c’era bisogno di misurarla perché si vedeva proprio su tutta la campagna…

 

Il paese era molto popolato, contrariamente alla desolazione che c’è attualmente era molto popolato… Le vie erano ricoperte da un paio di dita di polvere, in particolare d’estate quando il clima asciutto faceva…

 

Impalpabile, ovviamente secca…

 

Questi paesi sono coperti da questi polverini, e poi il polverino puro e semplice veniva messo nei solai per fare da isolante…

 

Sono costretto a vivere coi genitori, temo che il mio destino non potrà migliorare, semmai peggiorare…

Si giocava a pallone e appunto prima quando c’era il campo solo di terra si giocava solo a pallone, poi il campo i cemento amianto che ci sembrava una grande innovazione per noi ragazzini, si poteva giocare a pallone, pallavolo, pallacanestro e tennis, era stato adattato a più esigenze, era tutto grigio, era una pavimentazione compatta, però è chiaro che correndoci sopra, giocandoci sopra, si sgretolava evidentemente per cui da qui la necessità di bagnarlo spesso, perché c’era polvere, questa polvere chiaramente si respirava giocando a pallone…

 

Mi hanno promossa anche se avevo un contratto a progetto. Mille complimenti, allora ho chiesto un contratto a tempo determinato. Dopo un mese mi hanno cacciato. Non posso pensare a progetti di vita se non ho un minimo di sicurezza…

 

Che nessuno è mai guarito da questo tipo di cancro… Si muore al 100%…

 

E tutti conoscevano in famiglia o tra amici e conoscenti qualcuno che ne era stato colpito…

 

Al 100%…

 

Ebbi un decorso molto rapido della malattia, in soli cinque mesi… Se ci penso devo ammettere che non ho alcuna certezza per il futuro…

 

Improvvisamente intravede i bordi del campo di grano e uno strano chiarore che colorava le punte dei filari. Oltre, la Fabbrica morta. A quel punto sente un fruscio dietro di sé e, nel voltarsi intimorito, scorge le facce livide di Gaspare e Ottavia. Anche loro sono giunti fino alla Fabbrica attirati dalle voci e dalle luci, ma non hanno bisogno di dirselo, di spiegarsi. Ormai l’impressione di trovarsi di fronte a qualcosa di meraviglioso o orribile è una possibilità concreta. Gaspare e Ottavia si tengono per mano e guardano stupefatti l’effetto delle luminarie prodigiose. Le voci invisibili si attutiscono in quieti fruscii della sera, nel mormorio del vento tra i filari, nel piegarsi verso terra delle pannocchie, nel suono compatto e prolungato dei grilli e delle rane che volteggia sopra gli specchi delle risaie. Sembra che nella Fabbrica riluca la luna per intero o il brillio delle stelle profonde. Poi il fenomeno cilestrino si smorza e l’aria notturna torna di un blu profondo. Ancora dei deboli bagliori scappano dal ventre segreto della Fabbrica. Zeno, Gaspare e Ottavia si scambiano lunghe occhiate di paura, eppure non voltano le spalle al fenomeno, anzi, muovono altri passi verso la costruzione addormentata sotto la ruggine, passi in principio esitanti, resi sbilenchi dalle emozioni contrastanti che li animano, ma che poi si fanno decisi, quasi ansiosi di solcare l’ingresso e immergersi nelle interiora dell’edificio.

Ecco la Fabbrica. Eccola rischiarata debolmente da rosee palle di luce, aloni che non hanno sorgenti ma fluttuano a mezz’aria come spore. Ecco la fabbrica vuota, priva di macchinari, di lavorio operaio. Solo enormi spazi di cemento sorretti da colonne ciclopiche. La marcia del gruppo prosegue lentissima, di stanzone in stanzone. Tutti e tre avanzano raccolti e aggrappati l’uno all’altro, ora anche con Zeno, in un unico abbraccio fraterno e infantile, come se fossero tornati indietro nel tempo, giovani e insaziabili esploratori delle meraviglie che solo i sogni o gli incubi d’infanzia sanno progettare e, brevemente, mettere in vita. Stanzoni sempre più bui, avanti, verso un cuore pulsante di tenebra che sembra originare di nuovo le voci, i bisbigli, questa volta supplichevoli, differenti dai toni sospesi che li avevano guidati (stregati?) fin lì. Ecco l’ultimo stanzone, il fondo della fabbrica, il suo nucleo primitivo, abitato da sagome umane raggruppate al centro. Gli occhi dei nostri esploratori fanno fatica a distinguerli, poi percepiscono i vestiti quasi impeccabili, le giacche inamidate, ormai troppo larghe e le cravatte, indumenti mal posati sopra corpicini aggrumati e fragili. Quelle sagome sono persone, persone anziane, tremolanti. In qualche pagina passata del tempo sono stati dei potenti, dei capi, persone che hanno potuto decidere, nel bene o nel male, della vita o della sorte lavorativa di qualcuno; ora non rimane altro che un guscio vuoto fasciato da abiti fuori moda, messi nell’armadio sotto nafta per trent’anni. I vecchi in giacca e cravatta non si accorgono dell’arrivo dei tre. I loro sguardi sono tutti concentrati verso un altro punto della stanza, precisamente gli angoli più fangosi e oscuri. In quegli angoli si fatica a vedere altre sagome immobili. Zeno le nota e altre ondate di eccitazione e paura lo percuotono da cima a fondo. Sente, nel mezzo della schiena, una minacciosa carezza, una specie di contatto, come se qualcuno gli puntasse contro un oggetto gelido. Le sagome sono ferme, in piedi, con la schiena appoggiata ai muri e le braccia inerti lungo i fianchi. Forse indossano come delle tute, tute da lavoro. Forse sono uomini e donne e le donne portano fazzoletti annodati sulla testa e le loro tute sono imbiancate dalla polvere, polvere bianca che li circonda come flauti di nebbia. Le sagome immobili hanno scarponi sfilacciati da lavoro e i volti assenti, impenetrabili, affogati dall’ombra nera che li ricopre come una nuova pelle. Si scorgono solo gli occhi, accesi di brace rossa, senza iridi o pupille, solo diamanti dell’inferno, brillanti di luce color sangue, accesi da una carica di odio implacabile minimamente scalfito dallo scorrere lento degli anni. Un olezzo di tomba mal sigillata si sprigiona in tutta la stanza. I vecchi dirigenti guardano le ombre e implorano la loro clemenza; singhiozzano e supplicano incrudeliti dalla paura che li avvince; ognuno parla per sé, accavallandosi al compagno, cercando un modo, una maniera, una ragione per sgravarsi parte della colpa, perché di questo, alla fine del racconto, dopo tante parole, si tratta: di una colpa da scontare che non si credeva la si dovesse scontare e invece è ancora lì, a pendere sopra la testa di ognuno di noi, sopra il destino di chi c’era e s’è voltato dall’altra parte, probabilmente per paura di perdere il posto, di fermare la produzione, di perdere la grazia dei capi, di arrestare la propria scalata, il proprio prestigio. E’ tutta una storia di colpe. E di indifferenza, finché non ti tocca da vicino. I vecchi dirigenti cercano ancora una buona uscita. Un modo per cadere in piedi. Ormai è troppo tardi…

 

Il controllo sulla gestione diretta dello stabilimento non rientrava tra i nostri compiti, noi dovevamo solo coordinare…

 

 Non sapevamo della pessima qualità, della pericolosità che ne derivava. Noi dovevamo solo controllare, erano i proprietari che dovevano migliorare le condizioni…

 

Non eravamo noi i datori di lavoro…

 

Dovevamo solo sorvegliare…

 

Anche noi si obbediva, si operava solo in funzioni direttive e organizzative…

 

Anche a noi la Fabbrica dava da mangiare…

 

Come a Voi…

 

Erano i proprietari…

 

Era il datore di lavoro…

 

Era la pluralità della società…

 

I morti hanno occhi rosso rubino brace. I vecchi si zittiscono assieme e dai loro occhi prende a uscire del sangue, prima singole lacrime, poi ruscelli densi e arteriosi. Il sangue cola lungo il collo, impregna i vestiti, si nasconde nelle pieghe della pelle e si assorbe dentro i corpi. Intanto l’eternità si consuma e i vecchi smettono di sanguinare, di tremare, di piangere e si raggruppano come scolaretti diligenti e sfilano fuori, sfilano via, ognuno con la testa bassa e le guance appena sporcate di rosso e un verdetto inappellabile già emesso e scritto nei loro corpi, inciso sotto la pelle del destino. Tocca solo aspettare l’esecuzione della sentenza. Un giorno o l’altro. I vecchi sfilano via. I morti rimangono immobili nei loro stagni di tenebra, alla fine anche loro si muovono, passano accanto a Zeno, Gaspare e Ottavia (che se ne restano spettatori mezzi tramortiti, coi capelli rizzati sulla testa, impalati nei loro anfratti, tuttavia rapiti, a bocca aperta) e altre zaffate di puzzo nauseabondo impestano il locale. Il corteo lugubre di figure prosegue per minuti interminabili. Tantissimi morti senza volto, uno dietro l’altro,  sfumano verso l’uscita, ondeggiano come la fiammella di una candela l’attimo prima di spegnersi e, in quel lungo scorrere di identiche tute da lavoro, di lineamenti putrefatti e verminosi, Zeno scorge, o si illude di farlo, un viso appena più delineato degli altri, meno sciupato dal tetro lavorio della bara, un viso severo e implacabile come gli altri, ma sottilmente famigliare. Un anello di ghiaccio sembra posarsi sulla sua testa. L’epifania è una ragazza bionda, ossuta e soave, una ragazza che volta appena la testa nella sua direzione e, nonostante il bianco degli occhi, mostra di riconoscerlo. Poi ogni cosa finisce. Nel tornare all’aria aperta, nel lasciarsi la costruzione alle spalle, i tre si scoprono invecchiati di cento anni in una sola notte. Nei pressi del campo di granoturco si separano senza altri fiati.

Gaspare e Ottavia partono la notte stessa, scappano col bus e per tutti gli anni futuri cercheranno di cancellare quel ricordo, di convincersi che si è trattato di un lungo sogno; certo sarà difficile, ma ci proveranno, oppure potranno provare a pensare che si sia trattato di un fatto parzialmente reale, magari trasfigurato dai bisogni del momento, un fatto simbolicamente capace di rappresentare le incertezze di quei giorni pieni di angosce per un presente che sembrava renitente a trasformarsi in qualcosa capace di avere delle prospettive, di avere un respiro lungo, una serie di possibilità da trasformare in progetti, se non lavorativi, perlomeno di vita: vita libera dalle spietate gerarchie del mondo, cioè, insomma, capace di avere un futuro.

Zeno, al contrario, non scappa. Il suo mondo inizia e finisce in questa ragnatela di paesi in cui ha vissuto per 38 anni, prima coi suoi genitori, poi nella narcotica solitudine del tempo del commercio. Zeno non scappa quindi, anzi vaga nei bacini dei campi cuciti attorno a Balzola. A casa precipita nell’oblio e questa volta non ci sono cani arrabbiati che grattano alla sua soglia per entrare, nemmeno voci, bisbigli di passate maledizioni. A portarlo sulla superficie della coscienza sono dei semplici passi, passi di qualcuno che sta salendo lentamente, troppo lentamente, le scale. Percepisce il ruotare della maniglia, percepisce qualcuno scivolare furtivo dentro la stanza e sedersi ai piedi del suo letto, ma lui è fisicamente e psicologicamente annientato e non progetta alcuna reazione, si limita ad aspettare che le cose accadano, abbozzando sulle conseguenze. Solleva le palpebre a fatica e vede prima una spalla, poi una zazzera di capelli, un volto. Bardeville. Becchino di Balzola. Bardeville che siede ai piedi del letto e pure lui sembra stremato, malconcio. Bardeville sorride intristito. Poi parla con una voce piatta. Spiega l’inspiegabile.

Spiega come ha trovato strane formule dentro certi vecchi libri, libri pericolosi che sua madre aveva ereditato da sua nonna, una specie di fattucchiera. Superstizioni da streghe ignoranti nel tinello di casa. Radici di fole novecentesche, ottocentesche, rimasugli pagani, sciocchezze. Lui, in principio, non ci credeva, poi l’odio l’aveva cambiato. L’odio per quello che aveva subito. Aveva perso amici e parenti per colpa della grande fabbrica e se lui era sopravvissuto alle polveri di amianto un motivo doveva pur esserci. Il motivo era che doveva vendicarsi, trovare un modo. La fabbrica aveva avvelenato quelle campagne, uccidendo centinai di persone, anche chi non ci aveva mai messo piede. Marialé ad esempio. A vent’anni, nel fiore della vita, il mesotelioma se l’era portata via come tutti gli altri. Una svolta del destino di quel piccolo fiore. Prima la tosse, le fitte, la diagnosi implacabile come una condanna e nel volgere di una estate afosa la malattia l’aveva uccisa. La sua adorata nipote Marialé che non aveva lavorato nella fabbrica ma s’era trovata a convivere con gente che portava a casa le tute imbiancate di polvere perché non aveva una lavanderia, perché nessuno li aveva avvertiti. Tutti morti per un pezzo di pane. Morti gli operai, morte le famiglie. Allora Bardeville aveva aspettato che la giustizia lo ripagasse di quelle perdite, ma anche il processo s’era risolto in un carnevale. Tutti assolti, nessun colpevole diceva la giustizia dei tribunali. Toccava rivolgersi a un’altra giustizia. Quella in cui credevano i suoi predecessori, sua madre, sua nonna, i suoi antenati incrudeliti dall’ignoranza e dalla paura del fulmine. Fu così che riaprì quei vecchi libri e si ritrovò a vagare di notte nei campi, a urlare alla luna come un cane disperato, a chiedere vendetta, invocare una giustizia. Leggeva le formule, imprecava, piangeva, li chiamava e gli anni passavano, lui invecchiava e i colpevoli morivano uno a uno per via della polvere bianca. Che fosse quella la vendetta? Non poteva bastargli. La pazzia ballava dentro il suo cranio e lo rendeva sempre più convinto. Arrivò il giorno in cui Bardeville finì per crederci. Compiva i riti, recitava gli scioglilingua in dialetto e sentiva che stava tutto lì.

Poi una sera lei tornò indietro. Forse era la prima volta che succedeva nella storia dell’umanità,  forse no. Era così come l’aveva vista l’ultima volta, sola, col suo cane pastore a farle da guida. Nel rivederla, Bardeville fu quasi sull’orlo della tomba, poi credette di essere impazzito per la troppa solitudine, ma Marialé gli parlò, venne notte dopo notte, dapprima per poche ore, poi via via sempre più a lungo e le parole di lei ebbero il potere di calmare le sue paure, riempire i suoi dubbi. Col tempo lei iniziava a trattenersi quasi per tutta la durata della notte, poi anche per brevi segmenti del giorno. Fu lei a celebrare i riti, a chiamare gli altri, e tessere la maledizione. Gli ex responsabili delle pubbliche relazioni. Ex capireparto. Ex medici di fabbrica. Ex sindaci. Ex dirigenti sindacali. Sopravvissuti. Vivevano ancora tutti lì attorno. Uno a uno.

Bardeville fa un lungo sospiro e si alza dal letto. Così come è entrato se ne esce. Zeno non accenna alla minima reazione. La stanchezza accumulata è una valvola di sicurezza e la notte appena finita ha portato magie così incredibili che se non è impazzito di colpo, oppure morto in maniere atroci, può considerarsi un resuscitato. Ecco, si, un resuscitato a nuova vita. Negli ultimi mesi ha superato prove durissime. Orrore e paura non lo hanno ucciso. Orrore e paura appaiono come due parole svuotate di significato. La morte, i morti, i tumori, le torture psicologiche (finissime) dell’Azienda Totale appaiono sotto una nuova luce, una luce al neon. Le regole dell’Azienda rappresentano la normalità, una matrice protettiva dal caos informe della notte appena consumata. Che cosa crede di aver fatto Bardeville? Crede di aver vinto? E su chi? Su dei poveri derelitti? Degli anziani che non contano più un cazzo? Rimasugli superati di un potere dalle mille facce? Erano dei morti tra i morti. Ora l’Azienda è altrove. Irraggiungibile e intoccabile. E anche quando cade una delle torri, subito ne sorge un’altra, da un’altra parte del globo. Il nuovo potere oppressivo è nei centri commerciali. Negli uffici delle banche. E’ ovunque si sacrifichi capitale umano in nome del profitto ad ogni costo, oltre ogni limite etico e morale. I nuovi padroni non hanno il volto rugoso e cascante di un vecchio che si caga addosso davanti ai morti viventi. I nuovi padroni sono più immateriali che quei poveri morti viventi metafisici. I nuovi padroni sono ubiqui come il mercato. E se anche qualcun altro li avesse maledetti, altri capi reparto, altri delatori, altri caporali avrebbero preso il loro posto nella catena di soprusi. Bardeville è stato uno sciocco nel credere di aver vinto. Nessuno avrebbe restituito a quei morti la vita rubata. I mille attimi di vita quotidiana che sono stati loro rubati. Anche i più piccoli, anche i più brutti, i più insignificanti. I morti sono solo dei fantocci avvinti dalla pulsione della vendetta. Estranei al nuovo mondo nel quale sono resuscitati. Non avrebbero più potuto mangiare, amare, protestare, urlare, litigare, votare, opporsi, resistere. La loro capacità di interazione sul reale si limita a quella pagliacciata funebre, un temporale estivo, scatenato su dei vecchini già spremuti. I morti non possono più incidere sulle nuove ingiustizie, laddove esse si perpetrano con nuovo accanito furore. In quel preciso momento, mentre Zeno se ne sta sul letto, centinaia di nuovi sfruttati rinunciavano alla propria individualità pur di sopravvivere. Questo è il segreto. Questa è la vera maledizione. La vera magia. Sopravvivere per sopravvivere. Ogni pensiero contrario, ogni afflato di vita, di ribellione, di emozione, è solo dannosa, una inutile perdita di tempo. L’Azienda, in fondo, è paziente, ha un posto per ognuno di noi, una parola di conforto per i più diligenti, l’Azienda ti tende la sua mano, ti accetta nella famiglia, in cambio ti chiede di farti robot aggiogato alla bontà naturale del mercato, al suo autoregolamentarsi tra domanda e offerta, crescita e decrescita, lavoro, sfruttamento, lavoro. L’Azienda è un gruppo, una nuova compagnia, il tuo posto è là, mimetizzato, protetto, nascosto, disciolto, forse, finalmente, senza la fatica di un’anima…

Il giorno seguente lui si presenta nei reparti, sicuro di esser stato licenziato. Il caporeparto lo convoca negli uffici al piano superore e gli consegna una cravatta.

Da oggi non dovrà più indossare la divisa da scaffalista. Abbiamo visto che lei è disposto a farsi il mazzo per l’Azienda, che è affidabile e abbiamo intenzione di farla crescere, investire su di lei. E alla svelta. Il suo contratto di 3 mesi è finito. Glielo rinnoviamo per altri sei. Le nuove mansioni saranno manageriali e di controllo. Avrà la responsabilità di 15 persone. Sarà faticoso e gratificante. Dovrà gestire la corretta rotazione dei turni di lavoro e l’armonia della crew. Inoltre seguirà i nuovi assunti in prova. Oggi ne ha già uno. Deve vigilare, riferire, sedare.

La voce prosegue monotona per altri minuti. Poi Zeno si congeda con la sua nuova cravatta e ridiscende tra i neon. Nota subito che i vecchi colleghi sono tornati a guardarlo e salutarlo, persino con un nuovo timore. Zeno ne avvicina uno e chiede notizie di Giancarlo e Ambra. Il collega riferisce docilmente che entrambi non lavorano più lì. Giancarlo ha taciuto e obbedito, è stato comandato a bacchetta, poi, un bel giorno, anche lui s’è spezzato. E’ sbroccato, s’è strappato la camicia, il badge e la cravatta e si è messo a gridare per i corridoi biancodash. Urlava che non ce la faceva più, che stava impazzendo. Hanno dovuto portarlo via, chiamare le guardie e caricarlo su una autoambulanza e di lui non si sapeva più niente. Anche Ambra era arrivata al capolinea. Le pizze col capetto sono finite di colpo e la sua ventura è cambiata. Il suo contratto è scaduto, a 35 anni, con un bimbo piccolo a casa, un marito cornuto, nessuno se l’è sentita di rinnovarglielo. Ora è tagliata fuori, declassata, oltre il perimetro rassicurante del mall. Per Giancarlo e Ambra la porta del lavoro è chiusa, sigillata. Adesso sono fuori al buio e stridor di denti. Zeno fa spallucce, non ci pensa più. Problemi loro. Viene accompagnato dal nuovo assunto, un ragazzino alto e spaurito con ciocche spettinate di capelli. Il ragazzino è timoroso e gentile. Ha superato la prima soglia, quella del colloquio preliminare fatto di curriculum, bugie, foto e delibera sulla privacy. Ora deve affrontare l’impatto col moloch, col lavoro vero. Zeno lo porta nei bagni a pulire i cessi. Il ragazzo non si lamenta. Sembra molto imbarazzato, ma ubbidisce quieto. Dopo i cessi Zeno lo trascina a spostare e svuotare i cassettoni dell’immondizia sul retro del mall. Mentre il ragazzo si rompe la schiena, lui gli spiega il lavoro che lo aspetta. Gli parla delle esigenze dell’Azienda. Anche 12 ore continuate. Anche due turni avvicendati. 60, 70 ore settimanali, con straordinari non pagati. E lavoro notturno, lavoro festivo. Lavoro allo spasimo, perché se si vuole rimanere in corsa, se si vuole far carriera, bisogna saper correre, altrimenti là fuori è pieno di gente disposta a prendere il tuo posto. Qui c’è una sola ragione: quella dell’Azienda. Altre non sono previste. In fondo è più semplice, è come aver una cornice che delimita la tua vita e ti dice che cosa fare e cosa no, che ti dice cosa è giusto e cosa no, che pensa per te, pensa ai tuoi bisogni elementari e ti leva tutto il superfluo, l’inutile e dannoso scorrere del tempo libero, pieno di distrazioni, insidie, problemi familiari, ore inutilmente trascorse. Zeno continua a indottrinare e la sua voce esce fuori senza accenti, priva di inflessioni, prevedibile. Il ragazzo lavora e lo ascolta e non ci è dato sapere che cosa pensi di quella tirata. Poi Zeno cambia discorso e parla del rapporto coi colleghi, delle capacità di fare gruppo, di fare squadra, perché più della tua famiglia, dei tuoi figli, di tua moglie, dei tuoi amici, c’è l’Azienda, la tua famiglia siamo noi.

(6 – fine)

Davide Rosso