I PAESI DELL’OMBRA – 03

UNA SEMPLICE GIOIA GALLEGGIA SOPRA LA DISPERAZIONE

Alla guida, Zeno cerca di liberarsi dalla spiacevole sensazione che l’episodio di Giuditta ha provocato dentro di lui. Lasciarsi alle spalle i corridoi dell’iper e degli altri edifici che lo avvolgono (uno spizzico, un self, un euronics, un pittarello, una facit, un autolavaggio), lasciarsi alle spalle l’asettica solitudine dei reparti, dimenticare le promesse di tutti i Capitan Findus, di tutti i Biancodash, di tutte le regole dell’Azienda, lasciarsi alle spalle i grumi di cemento della città lo aiuta a star meglio, a sbollire la rabbia e l’impotenza. Accende l’autoradio e la sigaretta e posa la nuca sul poggiatesta. Sono quasi le sei e il sole è ancora caldissimo. Prima di partire s’è dovuto levare il maglioncino di cotone e la camicia e rimanere in maglietta per non morire dal caldo. Attorno a lui, nei vari svincoli e circonvallazioni, altre auto cercano di scappare dall’afa e dalla città. Campi di riso intervallati da campi di granoturco a perdita d’occhio. Campi di riso allagati, pezzi di mare, un mare a scacchi e la statale diritta fino a Balzola, un paese composto da dieci o quindici case l’una sull’altra, ammassate con le facciate scure per le intemperie e sporche, sperdute in strade larghe come campi. Parcheggia nella piazzetta del paese ed entra in una abitazione. Lui vive al secondo piano. Fa una doccia tiepida. E’ stanco, ma non ha fame e non vuole rimanere in casa. Sente ancora il bisogno di sfogarsi e fare due passi e poi non è nemmeno riuscito a fare la spesa e non ha niente di pronto. Forse più tardi gli toccherà andare fino a Greggio, il paese vicino, dove c’è una pizzeria. Per il momento vuole solo camminare nel suo bosco. Il bosco si stende tra Balzola e Greggio e costeggia il fiume. Dalla piazzetta di Balzola si scende a piedi lungo una strada asfaltata per un tratto e che, a metà, cede alla polvere e a una campagna intersecata da profondi borri. Dopo una breve salita, oltrepassata una casetta bassa e rettangolare usata come circolo da qualche ricco annoiato, inizia il bosco, che, in realtà, è una riserva naturale piuttosto conosciuta da quelle parti, ma pochissimo frequentata se non da qualche amante del jogging, o da coppiette e vecchietti perditempo. Ma nel cuore del bosco, nella parte più profonda e silenziosa non ci arriva quasi nessuno. E’ una bella camminata in mezzo a un intrico fitto di salici, pioppi, ontani, frassini, ciliegi, aceri. Il percorso è diviso in tre parti. Una, più esterna, che costeggia la statale ed è munita di piccole casupole di legno e panchine per delle soste, un’altra, stretta e tortuosa che segue il corso del fiume. La terza, quella principale, è la più larga e si snoda, nel primo tratto, a serpentina, scende verso il fiume per poi scostarsene e inabissarsi in un fitto boschetto quadrangolare di pini e frassini e riprendere, per un breve tratto asfaltato, su una lieve salita che domina il corso del fiume. Dopo, la via riprende lineare e sterrata. Il bosco ignoto segue ai lati e impedisce lo sguardo. Si può solo avanzare diritti o tornare indietro. Man mano che si prosegue, le cime degli alberi tendono a curvarsi, a sfiorare il viandante, e la luce del meriggio diminuisce e anche la cappa di caldo sembra recedere lievemente. Finalmente siamo quasi nel cuore del bosco e lo sguardo fugge in avanti, quasi a precedere i passi, incontrando solo la massa di foglie verde scuro e il brillare fugace di qualche filo di ragno sospeso. E’ l’incanto che Zeno cerca quasi ogni giorno da quando vive lì. Lo aiuta a ripulirsi dalle angosce e paure del lavoro (del futuro). Lo aiuta a ritrovare un piccolo mondo familiare, un nucleo che sente, in gran parte, perduto. Nell’ultimo pezzo il bosco si riapre in una specie di radura con al centro un grande albero bruciato dalle saette, con i rami bassi aperti a ventaglio, come (banale ma vero!) lunghe e nodose dita di vecchia strega. Nella radura si incontra anche un bus scalcinato, dipinto su un lato di grigio con sopra disegnata la sagoma del grande albero bruciato e le sue radici che si stendono sotto la terra; dietro all’albero disegnato si intravede un grande campo di granoturco bruciato dal sole e un cane, forse un levriero, che ci corre dentro. Oltre il campo le punte verdi di un boschetto figurato e ancora oltre le montagne stilizzate con le cime innevate e il sole sopra tutto. L’altra facciata del bus è più semplice, ma comunque affollata di fiori giganti, tracciati con uno stile elementare, e un personaggio coi capelli rasta e i calzoncini corti che balla in mezzo ai fiori. I proprietari del bus sono due ragazzi sui venticinque anni con cui Zeno ha fatto amicizia. Si definiscono travellers, due nomadi moderni, figli inquieti di questo tempo ostile. Gente che non ha voluto piegarsi alle esigenze dell’Azienda. Sono un uomo e una donna. Gaspare e Ottavia. Vestono come due hippy, pantaloni a zampa, ciabatte infradito, camicette dai colori arcobaleno, ciondoli, anelli, piercing. Zeno li incontra spesso durante le sue escursioni e loro sono ben contenti di scambiare due parole con un abitante del pianeta terra che non li etichetti come barboni mangia bambini. Gaspare e Ottavia sono molto rispettosi nei confronti del bosco. L’erba attorno al bus è immacolata. Quando Zeno arriva nello spiazzo, Gaspare e Ottavia se ne stanno in mutande a suonare. Ottavia ha un violino ed è inginocchiata nel prato, Gaspare un tamburello dipinto di rosso. Appena vedono Zeno, smettono di suonare e lo salutano festosi. Gaspare prepara il tabacco per la sua pipa, Ottavia fabbrica una sigaretta e pesca il tabacco dalla sacchetta che porta al collo. Zeno accende una delle sue. Dopo la passeggiata si sente disteso, comunque non riesce a trattenersi dal raccontare l’episodio di Giuditta. Gaspare e Ottavia ascoltano senza interromperlo. Alla fine Gaspare annuisce profondamente e Ottavia si passa le dita tra i capelli. Per loro la morale di quella storia è fin troppo chiara. Comincia Gaspare. Spiega che per quei posti di lavoro ha un odio feroce. Poi divaga sulla situazione generale, sul male profondo della società in cui viviamo. Lui la chiama l’illusione della crescita infinita, praticamente la corsa ad avere un buono studio, ad avere un posto fisso, sicuro, sicurissimo, a lavorare in città, con tutti i servizi a portata di mano, ad avere il macchinone, magari in leasing e cambiarlo ogni 3 anni, avere la casa di proprietà, la magione riscaldata e fare shopping ogni giorno in un grande centro commerciale.

Dagli anni Sessanta, il sogno del boom illimitato ci ha portato su sentieri oscuri: per anni, politici e cittadini, mafiosi e furbetti del quartierino hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, dilapidando tutto. Ora, per mille cause, le cose sono cambiate di colpo. E i debiti si devono pagare. E non ci sarà una formula economica che risolverà all’ultimo le magagne. Il mondo occidentale ha esaurito la sua spinta, i cancelli dorati si stanno chiudendo e non c’è posto per tutti.

Questo è il succo del discorso di Gaspare.

Molte persone continueranno a bussare all’uscio del vecchio mondo per chiedere ancora se c’è una sedia libera, ma basta guardarsi intorno per capire. Di episodi come il tuo, Zeno, ne ho visti a dozzine. Ascolta. L’unica soluzione possibile è abbandonare questa realtà morente. Riscrivi le tue priorità. Non è essenziale produrre e crescere all’infinito. Oltre tutto non si può. Il pianeta è grande, ma non illimitato. Le risorse sono quelle che sono e tra 40 anni il petrolio dirà basta, e ci sono nuovi paesi emergenti, il che vuol dire altri milioni di aspiranti benestanti in fila. Dobbiamo imparare un nuovo stile di vita. Meno pretenzioso. Guarda noi. Viviamo in un bus. Adesso siamo in un bosco, ma domani potremmo essere dove vorremmo. E il sogno, lo sai, ne abbiamo già parlato, è abbandonare l’Italia. Girare senza una meta precisa. Ascolta: i miei erano nel ramo immobiliare, compravano case fatiscenti alle aste, le mettevano a posto e ci facevano soldi a palate. Io, fin da ragazzino, non capivo quel modo di vivere, quel continuo affanno, quella continua corsa. A 15 anni ho cominciato a vivere in una tenda montata nel giardino di casa, perché così i miei non mi avevano tra i piedi a spinellarmi e incasinare la loro atmosfera economica. A 18 me ne sono andato, non ho finito di studiare, ho preferito imparare dalla vita di strada, ho lavorato anche, non credere. Ho fatto l’imbianchino, la fabbrica, e lì è stata la morte. Una sera, in un bar, mi sono detto, voglio andare via, sempre più lontano e vedere altri posti, altre facce. E l’ho fatto, capisci? Il mio modello sono quei popoli nomadi che vivono a contatto con la terra. Sono loro che mi interessano e a cui voglio somigliare. Anche Ottavia è così. Quando ci siamo incontrati non mi sono sentito più solo. Lei è più forte di me. E’ indispensabile creare un clima del genere per essere felici. Bisogna essere molto forti per amare la solitudine. E’ tutto il sistema che non vuole farci entrare in contatto con la terra. Il sistema ti dice…

Zeno osserva Gaspare caricare la pipa con l’hashish e perdere il controllo dei suoi ragionamenti. Ragionamenti sicuramente più vicini a lui delle preoccupazioni aziendali di Giancarlo e Giuditta. Gaspare ha gli occhi velati, compie dei semicerchi nell’aria.

Io credo che la felicità risieda nel contatto della gente con la terra, come popoli cacciatori di mille anni fa. Abbiamo un bus, ma preferiremmo avere un calesse coi cavalli. E poi ci piace costruire oggetti con le nostre mani. Il tamburo e il violino, per esempio, sono di Ottavia e guarda come sono belli. Tu sapresti fare una delle scatole che vendi al supermercato? Ottavia ha costruito il tamburo con delle cose prese dal bosco, la pelle è di capra e l’ha presa da uno che aveva un grosso gregge a Volterra…

Gaspare smette di parlare. Un’espressione sognante gli rimane stampata sul viso. Si stende all’indietro e rimane a guardare il cielo. Una luce quieta e diffusa colora tutta la radura. E le zanzare cominciano a dare i primi pizzicotti.

E’ partito, conclude Ottavia con una gran risata.

Il bosco è bellissimo, ma come fate a sopportare le zanzare?

Siamo nomadi, bene, ma il conforto di alcune tecnologie non ci manca. Autan, zampironi e una lucerna brucia moscerini. Zeno, hai fame? Hai già mangiato?

No.

Lei entra nel bus, traffica su un grosso bollitore da sei litri sopra una caldaia a legna. Il resto dell’abitacolo è occupato da una grande brandina e un piccolo mobiletto di compensato. Zeno si accorge che non c’è un bagno. Ottavia ride e spiega che non è igienico cagare dove cucini. Naturalmente ha ragione da vendere. Tornano all’aperto a mangiare un piatto di pasta col tonno. Gaspare è sempre immobile a scrutare la volta del cielo. Ogni tanto lei gli allunga la forchetta coi fusilli e lo imbocca. Dopo prepara un piccolo fornello da campeggio e prepara la moka. Continuano a parlare. Anche Ottavia ha una storia simile a quella del suo ragazzo. Si definisce una che vive al di fuori della società, una “tagliata fuori”, per citare il titolo di uno dei libri del suo scrittore preferito, ma non per questo indifferente al dolore e alle ingiustizie degli altri. Capisce benissimo le umiliazioni sul lavoro. Lei, al contrario di Gaspare, lavora ancora in una fabbrica di catene per auto. Servono soldi per il loro progetto da girovaghi. Vogliono partire per i Paesi Bassi, entro Settembre.

Vedi, Zeno, io leggo, seguo quel che succede. Ascolto i discorsi delle mie colleghe e un’opinione generale te la fai anche senza una laurea. A me l’andazzo generale non piace. Quel che diceva Gaspare è sacrosanto. Ci hanno inculcato bisogni falsi. Non puoi tenere un’auto più di due anni, hai le cassette musicali e loro ti inventano i cd, e allora sbatti via le cassette per i cd e poi arriva l’ipad, l’iphone e così via. Io ho un fratello. Non lo vedo da 5 anni. Lui, per evitare di finire come me, ha una bella casa, un mutuo, lavora in banca e racconta di essere felice. Il fatto di non vederci mai ci fa andare d’accordo.

Ottavia scoppia in un’altra risata allegra, una risata vera, non di plastica. Continua.

Trovo che la società sia parecchio complicata e stronza. Tutto ruota attorno al metterti alla prova e avere successo. E per cosa poi? Io non devo provare un cazzo a nessuno. Il nostro modo di vivere sarà da straccioni, ma perlomeno è autentico. “Autenticità”, ecco una bella parola. Sarà anche una piccola gioia, ma galleggia sopra oceani di disperazione. E nel dirlo, mi dispiace per te, Zeno, per i tuoi colleghi, per quello che vi fanno vivere.

Gaspare, dal suo nirvana, tira su la testa e balbetta che non può immaginarsi col posto fisso. Zeno annuisce e già si sente bene. Le parole di quei due matti, unite alle dolce quiete del bosco, riescono a metterlo a posto. Poi cambiano discorsi. Zeno adocchia una copia sgualcita del giornale locale. Sulla prima pagina riporta la notizia della morte di un noto personaggio locale. Non è la prima volta nelle ultime settimane. Nell’articolo si spiega che l’uomo, un ex dirigente, è stato trovato morto nella sua abitazione. Il caldo? Forse. Unico particolare stonato, il sangue agli occhi. Uno sbocco di sangue. L’uomo viveva in uno paese vicino. Zeno gira pagina e corre alle notizie sportive. E’ a quel punto che Ottavia gli chiede del vecchio. Il vecchio. E’ da un pezzo che non lo vede. Oltre a Gaspare e Ottavia, il bosco è frequentato assiduamente da uno strano personaggio, uno di Balzola. Zeno lo ha conosciuto durante le sue passeggiate. Anche il vecchio è un bel personaggio. Con una storia di quelle alle spalle. Ex operaio in una importante fabbrica della zona. Anzi, nella Fabbrica: un grande complesso, ora abbandonato, che ha fatto la storia di quei posti prima di chiudere per fallimento e altro. Il vecchio vive con una nipote, una ragazza cieca, bellissima, che gli dà una mano e lava i morti per mestiere.

Come si chiama il vecchio? Domanda Ottavia.

Danilo. Danilo Bardeville.

E’ un bel nome.

Zeno le chiede se ha mia visto la nipote. La ragazza cieca. Ottavia scuote la testa. Lei ha incontrato Bardeville, ma sempre solo e non sa di nessuna nipote. Zeno aggrotta un sopracciglio. Lui l’ha vista sempre in coppia col vecchio. Ottavia scrolla le spalle, si illumina e chiede.

A proposito di tipi strani. E quelli che fanno le veglie dentro la fabbrica? Li hai visti?

Quale fabbrica?

La Fabbrica! Ottavia allude al casermone abbandonato che sorge poco lontano, oltre il bosco, oltre un campo di granoturco. Un enorme colosso collassato verso la fine degli anni ottanta. Una fabbrica che ha dato il pane a tutti quei paesi, anzi li ha fatti nascere e crescere dalla fine degli anni cinquanta. Quasi tutti a Balzola ci hanno lavorato. Anche Bardeville. Il vecchio è ossessionato dalla storia della Fabbrica…

Quali veglie? Domanda Zeno.

Una sera io e Gaspare siamo finiti lì. Era buio e non si vedeva granché, ma ci è sembrato di vedere della gente sul tetto della fabbrica. Erano delle sagome e se ne stavano fermi a guardarci.

Chi erano?

Boh, non li si distingueva. Solo delle ombre con le braccia lungo i fianchi voltate verso di noi.

E che facevano.

Appunto, niente.

Quanti erano?

Non lo so. Venti, trenta, forse di più.

Perché hai parlato di “veglie”?

Così. Un’altra sera, ci è capitato di vedere anche delle lucine dentro la fabbrica. Forse erano quei tizi, quelli sul tetto. Magari ci facevano un rave? Non si sentiva della musica, però. Delle vocine sì.

Vocine?

Sì, fai dei bisbigli.

Mamma mia, Ottavia! Basta sennò stanotte le sento io le vocine. Già ho gli incubi all’idea di tornare domani al mio reparto.

Zeno si spazzola i calzoni e si alza in piedi. Dopo aver salutato i due ragazzi se ne torna indietro. Quando arriva al paese il sole non è più una sfera infuocata. Tutta la piazza sembra dormire. Zeno vede di sfuggita il vecchio che attraversa la piazzetta con la fontana. E’ a una decina di metri e tiene sottobraccio la nipote. Il vecchio, che poi non è così vecchio, avrà una sessantina d’anni, mal portati per via dei durissimi anni di fabbrica, e indossa sempre il medesimo completo di lino bianco. Il viso è quello di uno a cui il diavolo va di notte a macinarci sopra piselli: la fronte alta, spaziosa, le rughe ovunque, il naso corroso da venuzze rosse e spezzate, gli occhi infossati nel teschio, occhi pazzi, sempre abitati da una luce folle. Per il resto ha certi capelli lunghi e bianchi e una gran barba, anch’essa bianca che pare mandi luce. La nipote, il cui nome è Marialé, è molto alta e sottile, coi lunghi capelli biondo paglia, il viso volpino, lungo e ossuto, con gli zigomi marcati, la pelle bianca come neve e la pupilla completamente grigia, spenta. Indossa un lungo abito blu con le spalline alte, inamidate, ottocentesche e la vita strettissima che si apre su una gonna che scende fino ai sandali. Zeno fa un cenno con la mano verso di loro, ma Bardeville non presta attenzione e sparisce in un vicolo.

Sera. Zeno rilassato sul letto, guarda la piccola televisione. Sente ancora caldo, ha le luci spente e le finestre accostate per colpa delle zanzare. Ne entra qualcuno e lo tormenta sulle gambe, sulle braccia, dietro le orecchie. Ogni tanto si tira degli schiaffi sul corpo. Per il resto segue svogliato il dibattito televisivo e ripensa a Giuditta. Smaltita la rabbia ha paura di avere delle ripercussioni. Vista la reazione della collega avrebbe fatto bene a farsi gli affari suoi. E’ brutto da pensare, ma è così. Ambra ha ragione, ma è dura non finire come Giancarlo. Zeno sente il rintocco delle campane. Suoni che si dilatano nell’aria immobile della sera. Allora si affaccia alla finestra che dà sulla piazzetta. Forse suonano a morto. Sarà per l’ex dirigente. Quello col sangue agli occhi. L’ex dirigente della Fabbrica. Quella del vecchio. La Fabbrica delle meraviglie anni sessanta. La Fabbrica delle “veglie”. Qualcosa si agita distrattamente nella mente (stropicciata dalla fatica) di Zeno. Quanti ne erano già morti negli ultimi tempi. Quasi tutta gente della zona. Balzola e paesi confinanti. E il sangue agli occhi? Che centrava se quella gente, come ipotizzava l’articolista del quotidiano, era morta magari, facciamo, per il caldo? La campana continua a suonare, sovrapponendosi al faticoso ticchettio della sveglia. Zeno si chiede da dove proviene il rintocco di campana. La chiesa di Balzala è all’estremità opposta del paese ed è abbandonata dagli anni ’50, con le entrate murate per non farci entrare nessuno. La campana, piccolina, sta sul tetto e ci si arriva solo dall’interno. Certo, può suonare per via del vento forte. E’ capitato, di grazia. Ma quella sera non c’è una bava d’aria. Zeno scruta le case attorno alle sue. Case misteriose a causa della notte. Case con le imposte chiuse. Nonostante il gran caldo, sbarrate. Come un luogo disabitato da romanzo. Un luogo maledetto.

(3 – continua)

Davide Rosso