I PAESI DELL’OMBRA – 02

LA PAURA

Zeno lavora nella sua corsia, intento a prezzare uno stock gigantesco di pelati e disporli nell’apposito scaffale. E’ mattina e l’ipermercato germina di gente coi carrelli mezzi vuoti, indecisi ma fermi a non uscire più per via dell’aria condizionata altissima che li aiuta a resistere (per qualche ora) al caldo atroce di un Agosto senza fine. A Zeno invece l’aria gelida che soffia giù dagli alti soffitti non piace, non la sopporta e lo costringe a lavorare sempre con strati di vestiti per non beccarsi un malanno, un trauma muscolare, un blocco alla schiena. Zeno è lì, attento agli spifferi artificiali, nella sua corsia di pelati, a lavorare da un pezzo, fin dall’alba, quando ha svuotato i tir appena arrivati con la nuova merce. Zeno lavora all’ipermarket da quasi un mese e, ormai, conosce già tutte le mansioni che potrebbero toccargli a seconda di un’assenza, un buco di qualcuno o un’oscura decisione aziendale. Il primo giorno, dopo il colloquio di assunzione (durante il quale Zeno e altri disperati si sforzano, prima di rispondere a un test con domande tranello, poi di superare un colloquio a due con un funzionario al quale raccontare tutto quello che vuol sentirsi dire, e poi ancora uno psicologo del lavoro al quale continuare con non naturalezza a recitare la sottomissione ai regolamenti dell’Azienda) gli affiancano un ragazzo con la cravatta che lo segue, gli indica quello che deve fare e rimane immobile ad osservarlo. Il ragazzo con la cravatta lo porta prima negli spogliatoi, dove gli dà la divisa dell’Azienda. Nell’indossarla Zeno sente quasi qualcosa scattargli dentro, come un cambio di identità: gli è già capitato in passato, lo sa, è il rito di sottomissione obbligatorio che l’Azienda ti chiede, e sa anche che quel cambio di umore passerà presto. Dopo, il ragazzo con la cravatta lo porta a pulire i cessi. Gli fa indossare stivali di gomma e guanti e dopo i cessi lo aspetta un’altra casacca arancione (sinistramente simile a quella che indossano alla tv i carcerati di Guantanamo) e i cassonetti della spazzatura nel cortile interno dell’iper super mega market. Per il resto di quella prima giornata continua a svuotare cassonetti e il ragazzo con la cravatta lo segue a ogni movimento (anche se finge di essere altrove, indifferente, chiuso in un’aria da sfinge, inappellabile, senza varchi in cui insinuare anche il minimo discorso, la benché minima parola per alleggerire il peso della tensione di una prima giornata e stabilire un contatto, un senso di contiguità, di comprensione). Successivamente, Zeno scopre che quel modo di fare è tipico dell’Azienda, quasi un rito di iniziazione per vedere come reagisci, se ti lamenti. Il ragazzo con la cravatta deve riferire al capo reparto se Zeno non si è mai lamentato. Insomma si tratta di un’ulteriore classificazione dopo i colloqui. Alla fine di quella prima giornata da netturbino, uno dei capi reparto gli si avvicina con un sorriso plastificato e gli dice che qui siamo una grande famiglia, si lavora assieme al gruppo e se non crei problemi nessuno te ne creerà, anzi, qui puoi crescere, avere un futuro, e di questi tempi non è poco, ma se fai di testa tua, qui sei meno di zero. “Qui siamo una grande famiglia”, quella frase continua a girargli nella mente come un monito, un ritornello, o una preghiera. La prima settimana di lavoro è tutta così: un paio d’ore al reparto carne, un’altra ai salumi, poi al banco del pesce, quello della verdura e gli scaffali da guarnire. Vogliono che impari alla svelta (e a chi non ci riesce tanti saluti!) tutte le possibili mansioni che l’ipermercato offre. Il tutto dentro cicli lavorativi che non si possono certo mettere in discussione; Zeno ha un contratto part-time di 36 ore spalmate su sei giorni e una fascia oraria ampissima: dalle 6 del mattino alle 9 di sera. Gli orari vengono cambiati giorno in giorno e non vengono rispettati mai una volta. Le 36 ore diventano il doppio e tutti questi supplementi di ore eccedenti non vengono pagati, ma compensati con dei fantomatici recuperi che, però, non puoi mai prendere, pena il vederti licenziato con la scusa più banale. Insomma il part-time è fittizio e Zeno, praticamente, vive nel super mega iper marker, con capi reparto che gli chiedono in continuazione e all’ultimissimo momento di fare straordinari su straordinari. Da quando lavora lì, insomma, ha perso la possibilità di programmare come minimo il proprio tempo-vita, il proprio futuro. Ormai lui c’è abituato e non è che i lavori che ha fatto prima siano migliori: con un’inflazionata laurea in lettere (che non gli è servita a niente, se non a perdere tempo dietro all’irraggiungibile chimera dell’insegnamento, e quindi del posto fisso in un mondo in cui non c’è più niente di fisso), all’età di trentatré anni, s’è stufato e ha cambiato strada, prima facendo il commesso in un negozio di targhe, poi l’aiuto postino per tre mesi non rinnovabili, e ancora il commesso in un outlet. Naturalmente mai un contratto fisso, ma sempre a tempo determinato. Contratti dai tre mesi ai sei. Poi a casa a ricominciare la ricerca sui giornali o tramite le agenzie interinali. Tutto sommato, abbassando di molto le sue pretese, le sue ambizioni e aspettative (che, comunque, sono sempre state poche), Zeno è riuscito a sopravvivere. Poi, nell’ultimo anno, drasticamente e improvvisamente, precipita nel baratro più nero: Zeno perde entrambi i suoi genitori, uno a poca distanza dall’altro, a causa di qualche brutta malattia, e lui rimane solo a dover far quadrare i conti senza poter contare sulle pensioni di due lavoratori statali. Fino alla loro morte, Zeno è rimasto a vivere in casa coi genitori per ammortizzare i costi, ma ora che è solo, il luogo dove viveva è diventato troppo caro, così, da due mesi, si è trovato un monolocale piccolissimo fuori città, in un paese desolato a una ventina di chilometri. Certo, spende di più in benzina, ma l’affitto è ridicolo e poi, nella nuova casa, può disporre di un bosco bellissimo. A Zeno, dopo il dolore della perdita genitoriale e dopo esser rimasto solo come un cane (non è sposato, certo ha avuto le sue storie come tutti, ma l’idea di metter su famiglia, progredire la specie e mantenere un marmocchio non lo garba granché; e poi lui è già soffocato da mille assilli lavorativi e non vale la pena averne altri per la testa), il lavoro al super iper di marca francese gli sembra una manna dal cielo. Certo l’impatto durissimo con quell’ambiente totalizzante l’ha fatto subito ricredere, ma non può farci niente. Il bisogno lo prende per la gola e strozza tutto il tempo passato (diciamo gli anni senza affanni della scuola, dell’università) in cui è stato (perché lo è stato) un “antagonista”, un “alternativo” generico, un sinistrorso da centro sociale il sabato sera, un anarchico senza contenuti. Mamma e papà marciscono in una cassa e lui non è più uno studente fuori corso di lettere, mantenuto senza far nulla fino all’età di Cristo. Tutto finito. Ora è, semplicemente, uno schiavo. E, nell’intimità della sua anima, pur rifiutando la cosa, il bisogno e l’assenza di appigli (o di altre persone cui rivolgersi per un aiuto) lo spingono a recitare la parte al suo meglio. Recitare per rimanere dentro al sistema e lavorare. Così, per questi motivi, se ne sta nel reparto di pelati a prezzarli, a sistemarli per benino e aspettare che i minuti volino via, con la gente coi carrelli semivuoti attorno e tutti che sembrano stare lì in attesa di qualcosa che non accade mai. A un certo punto si avvicina una signora enorme, cinta a stento da un abito qualsiasi. Il donnone punta sicuro su Zeno e indica uno scaffale accanto a quello dei pelati, uno scaffale, attenzione, semivuoto.

Qui dovrebbero esserci dei piselli, perché non ce n’è, domanda lei e Zeno mette la maschera pirandelliana per rispondere e alla maschera aggiunge un bel sorriso vuoto e un saluto né enfatico né confidenziale, ma, diciamo, di una cordialità che non significa nulla.

Buongiorno Signora.

La donna torna alla carica coi piselli e Zeno dice che, evidentemente, se non sono esposti nello scaffale è perché sono irrimediabilmente finiti, allora il donnone comincia a dare di matto e dice che sono tutti dei fannulloni, che devono lavorare di più, molto di più e che in un luogo come quello, in un sacro tempio del consumo, non è tollerabile esibire dei buchi sugli scaffali, per nessuna ragione. Se ne va via sculettando, lasciando Zeno stupefatto. La voracità li sta facendo uscire di senno. Verso l’una, lui va in pausa 10 minuti (ormai lavora già da 6 ore) e usa la carta elettronica apposita di cui è dotato (un’invenzione originale della multinazionale francese che, introdotta in apposite macchinette, segna al millesimo il tempo di pausa stabilito, così, se si eccede, anche di pochi secondi, si viene richiamati per iscritto, poi al secondo richiamo si è già a spasso). Anche in pausa non si può rimanere a ciondolare dentro all’iper mega super e nemmeno uscire per restarsene magari nella macchina (non piace all’Azienda l’idea di avere gente accampata dentro le vetture con termos e panini caldi portati da casa). Così Zeno entra in uno spizzico del grande centro commerciale. Nello spizzico trova Giancarlo e Ambra, due tra i pochissimi colleghi con cui ha minimamente solidarizzato. Tutti e tre senza la divisa perché, anche nella pausa, non devono dare l’impressione di bighellonare. Giancarlo ha la medesima età di Zeno, quindi viaggia verso i quaranta. Ambra è sui trenta, bassina, insaccata, con dei capelli corti e delle tette enormi e budinose che rendono difficile memorizzare altri particolari su di lei, forse solo sul suo alito, sempre pesantissimo per via del pacchetto al giorno di sigarette. Giancarlo invece è magrino, anche lui non tanto alto e con un leggero accenno di gobba, i capelli corti pettinati all’indietro a evidenziare un’ampia stempiatura e un viso allungato, da cavallo, segnato da occhiaie profonde. L’espressione di Giancarlo è di perenne spaesamento. Quella di Ambra di ottusità. Prima di finire lì, Giancarlo ha lavorato nella torre d’avorio della Banca. Cassiere, posto fisso, quattordicesima, quindicesima, pensione sicura, poi, anche lì, del mobbing aziendale e una brutta depressione l’hanno spacciato. Sui 35 si è riciclato come web marketing, ovvero uno che ottimizza tutto quello che riguarda un sito, eventi ondine, profili facebook e altro, ma non ha funzionato. L’assunzione nel market iper arriva dietro una grossa raccomandazione. Anche in quei pochi, pochissimi momenti di respiro, il lavoro rimane quasi l’unico argomento di cui sono capaci. Ambra, sempre gentilissima, si lamenta perché il suo periodo di formazione nel supermercato non è ancora finito e sembra non voler finire mai. Inquadrata come Giancarlo e Zeno a un sesto livello, lavora lì da oltre un anno e continua a passare da una forma contrattuale a un’altra: part-time, contratto di formazione lavoro, contratti a termine, lavoro in affitto e a ripetere all’infinito.

Praticamente i primi due anni ti assumono in formazione, poi quando sono passati vieni segato, dice lei.

All’inizio la vita lavorativa di Ambra sembra in ascesa: è brava, infaticabile, sempre disponibile. Poi la situazione familiare comincia a ingolfarla, a rallentarla. Rimane incinta. Ha una bimba, prima suo marito lavorava in città, adesso è stato spostato parecchio lontano e lei deve riuscire a conciliare i suoi orari assurdi con le esigenze della bimba, ma i capi non lo vogliono capire e le chiedono a ripetizione straordinari su straordinari. Ultimamente sembrano farlo apposta: turni tutte le Domeniche, turni serali, turni spezzati improbabili che la costringono a rimanere fuori casa dalla mattina alla sera. Prima alla bimba ci pensava la nonna, ora lei è schiattata e gli asili sono troppo cari, così salta fuori una cugina più giovane, disoccupata, ma è una mezza sbandata, una che si spinella. Ambra vomita la sua rabbia e si sfoga con Zeno. Sa di poterselo permettere. Per il resto è meglio stare attenti. Lì dentro la maggior parte della gente diventa un delatore pur di compiacere il proprio capo reparto ed eliminare un eventuale concorrente all’ambito posto fisso. Giancarlo ascolta e spilucca la fettina triangolare di pizza semifredda ai peperoni. Non dice nulla, il suo viso è cereo, totalmente inespressivo come sempre, sembra quasi sotto ipnosi, non si sa di chi, gli occhi vitrei, come vuoti, poi Ambra si ferma per bere un goccio di fanta e allora Gianca rompe l’antico avorio scolpito che è la sua faccia e dice che bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno, che qui, in fin dei conti, ci guadagniamo da vivere, perché altrimenti. Non è malanimo dei dirigenti, è che non è possibile fare altrimenti. Mentre Gianca parla, Zeno nota che il collega ha cambiato il tono di voce. E’ nasale, incolore e lenta. La medesima voce che usano tutti i capi reparto. Quasi una “divisa” della voce. Ambra non fa in tempo a controbattere che i dieci minuti sono quasi passati e tocca salutarsi sbrigativi, correre ali spogliatoi e rimettersi la divisa. Per Zeno il lavoro prosegue fino alle 5 e mezza del pomeriggio. Poi si va a cambiare, passa a salutare Ambra ancora inchiodata al banco dei profumi.

Hai visto oggi Giancarlo? Non era così prima che tu arrivassi. E’ cambiato negli ultimi tempi. Credo stia cedendo. Ormai l’hanno disumanizzato. Dio, Zeno! Noi non dobbiamo finire così. Non si può mandare giù tutto per continuare ad avere un lavoro! Piuttosto vado a fare la mignotta! Zeno non mollare anche tu. Prometti?

Prometto, Ambra. Però devi capirlo Giancarlo. E’ dura per noi. E’ dura per lui. Non è cattivo.

Ancora un sorriso e via a prendere il cestello rosso e fare due acquisti veloci per la cena. Pane e salame, un pezzo di formaggio biellese, un dolce confezionato. In fila, alla cassa c’è una collega sui quarantacinque anni dall’aspetto sciupato, Giuditta. E’ lì dal primo mattino, e la cassa è il peggior luogo di tortura all’interno di un supermercato. Ormai sono dieci ore e non va in pausa da almeno sei. Ripete i medesimi movimenti meccanici ed è stravolta. Mentre Zeno aspetta il suo turno, ripensa a una cosa che gli ha detto Ambra sul conto di Giuditta, che all’inizio era una tipa tosta, bazzicava i sindacati, e loro, l’Azienda, per punirla, l’hanno messa in cassa a marcire. Per isolarla. Demolirla psicologicamente. Ora Giuditta sta per esplodere. E’ da tre ore che ha chiesto di andare in bagno per urinare (pausa fisiologica), ma non le hanno mai risposto. Lei ha riprovato, ma ancora niente. Adesso Giuditta è al limite di sopportazione. Ha male al ventre e se ne sta mezza piegata sul seggiolino mentre continua a passare un prodotto dietro l’altro sul lettore ottico. Un cliente intuisce qualcosa. La apostrofa duramente, le dice qualcosa del tipo che per lavorare così svogliatamente sono capaci tutti e Giuditta, senza fermare il movimento delle mani, si mette a piangere. Zeno scansa un paio di persone davanti a lui e si avvicina. Contemporaneamente passa di lì Giancarlo. Anche lui ha finito il turno. Si materializza pure un capo reparto.

Che succede qui?

Il cliente, ringalluzzito, indica Giuditta e rincara la dose.

Qui si batte la fiacca.

Il caporeparto prende a strillare contro Giuditta, le dà dell’incapace davanti a tutti, minaccia provvedimenti disciplinari, poi si scusa col cliente, quasi si genuflette, lo blandisce, infine spintona Giuditta giù dal seggiolino e le dice di andarsene. E’ in quel momento che tutti si accorgono che lei se l’è fatta addosso. I clienti in coda ridono tutti cattivi. Il capo reparto strilla ancora di più. Giancarlo rimane indifferente a tutto. Poi il dirigente osserva stizzito Zeno.

Lei cosa ci fa qui? Dice aggrottando le sopracciglia. Zeno è preso alla sprovvista, prova a ribattere, a dire che ha finito il suo turno, allora il dirigente lo rimbrotta dicendo che deve andarsene, di lasciare il suo posto nella coda ad un cliente che ha più diritto di lui ad essere tale. Zeno indica Giuditta e borbotta qualcosa sul fatto che non la può trattare così. Il capo reparto diventa gelido e smette di strillare. Il sorriso plastificato riaffiora alle labbra. Escono parole affilate come lamette.

Vuoi sapere cosa succede qui? Domanda il capo reparto.

Qui c’è la dittatura. E si mette lui alla cassa, affabilissimo coi clienti. Intanto Giuditta barcolla verso i bagni. Il viso le brucia dalla vergogna e il corpo è scosso da singhiozzi convulsi. Zeno la segue con gli occhi, poi, siccome nessuno gli bada più, riporta i prodotti nel reparto alimentare e esce senza comprare nulla. Fuori nell’enorme parcheggio cotto dal sole incrocia Giancarlo.

E’ pazzesco, hai visto? Hai sentito?

Giancarlo scrolla le spalle, indifferente come una statua.

Giancarlo, l’hanno tenuta inchiodata in cassa tutto il giorno. Non possiamo lasciarli fare. E’ disumano.

Giancarlo apre la sua vettura e, prima di saltarci dentro, dice che il problema è che siamo sotto col personale. Loro non hanno gente da mettere in cassa. Non è malanimo dei dirigenti. E’ così. E Zeno lo guarda fare manovra e andarsene e ancora non si capacita di quel che è successo. Ripensa alle parole di Ambra. Il lavoro va bene. Va bene essere sfruttati allo spasimo, essere sottopagati, ma non subire quelle angherie da lager. Fa per rientrare dentro l’iper. Cerca Giuditta nei bagni. La trova singhiozzante in un angolo, quasi insaccata nel muro, bisognosa di sparire dalla memoria collettiva.

Giuditta, cha cattiveria che ti hanno fatto. Ti ha umiliata davanti a tutti. Se vuoi far valere i tuoi diritti conta pure su di me.

Lei smette di piangere. Alza la testa e ha gli occhi impiastricciati, il trucco che cola da tutte le parti. Alza gli occhi e subito li riabbassa.

Vattene, sentenzia.

No Giuditta. Non preoccuparti per me. Se ti serve la mia testimonianza io ci sono. Se perdo il posto amen.

Vattene Zeno. Non ho bisogno del tuo aiuto né di quello di nessuno. E fatti i fatti tuoi.

Zeno, allibito, lascia il bagno e ritorna nel parcheggio. Prima di salire sull’auto riceve un sms da Ambra. Ha visto tutta la scenata del capo reparto. Lei è ancora dentro, inchiodata al banco profumi. Dice che è una porcata e che bisogna ribellarsi a qualunque costo. Zeno le risponde raccontandole di come Giuditta l’abbia apostrofato. Ambra risponde con delle considerazioni filosofiche. Scrive che i dirigenti vogliono toglierci la consapevolezza di poter decidere delle nostre vite. E conclude con una domanda.

Che cosa resta di umano quando non puoi più incidere sulla realtà che ti circonda e cambiarla quando la ritieni ingiusta? Tutti noi siamo in questa situazione.

Ma che cosa ci tiene qui, allora? Scrive Zeno nell’sms. La paura è l’sms di Ambra.

La paura. La paura di non avere più nemmeno questo lavoro. La paura di non poter nemmeno sopravvivere là fuori. Paura di non trovare altro. Paura di invecchiare. Chi ti riassume dopo i trenta? O a quaranta? La paura, Zeno.

(2 – continua)

Davide Rosso