VISIONE D’INFERNO

Hideshi Hino è noto in Occidente soprattutto come regista di Guinea Pig 2: Flowers Of Flesh And Blood (1989): il film, infatti, negli U.S.A. sollevò un gran polverone perché un attore che lo vide, Charlie Sheen, lo denunciò all’autorità giudiziaria in quanto credette di trovarsi di fronte a uno snuff-movie; non lo era, come constatarono gli esperti dell’FBI, ma il video ne ricevette una pubblicità involontaria (involontarietà sulla quale ho qualche dubbio: possibile che proprio un uomo di spettacolo non si rendesse conto dei trucchi utilizzati o quantomeno della possibilità che si trattasse di trucchi, per quanto sofisticati?) che lo collocò e lo colloca tuttora, a dire la verità con pieno non meno che discutibile merito, fra i massimi esempi del cinema gore per la qualità superba degli effetti speciali e per la crudeltà senza compromessi né catarsi della miserabile vicenda narrata. Guinea Pig 2 è ancora una minaccia visiva (anche in Giappone, dove, dopo averne trovato una copia in casa di uno psicopatico omicida, la vendita di certi video venne limitata ai soli maggiorenni, cosa che – per quanto possa apparire incredibile a noi occidentali – prima non accadeva per nessuno di essi) e un tour de force di sopportazione a cui lo spettatore viene sottoposto, data la sua estrema sgradevolezza.

Tuttavia, Hino è innanzitutto un fumettista ed è nel fumetto che ci ha consegnato un capolavoro indiscusso: Visione d’Inferno (1984, tradotto in italiano nel 1992). Prima di cominciare a parlarne, è però doverosa un’introduzione, sia pur brevissima, sul suo stile come disegnatore: il tratto, mai troppo ornato o viceversa troppo impreciso, è un incrocio fra verosimiglianza – data soprattutto dalle ombreggiature e da certi dettagli di oggetti – e stilizzazione, che caratterizzano in maniera espressionistica i personaggi (per esempio coi loro sproporzionati occhi, letteralmente fuori dalle orbite, in una parodia di quelli classici dei manga, forse a mostrar l’effetto mostruoso che ha su di essi il mondo altrettanto mostruoso che li circonda); un simile disegno grottesco sostiene alla perfezione la storia senza sovrastarla né esserle di semplice supporto.

Fin dal principio di Visione siamo introdotti dentro il fumetto mediante un tradizionale appello al lettore che continuerà fino alla fine: esso ci chiama in causa come quarta parete rotta – che quindi lo psicopompo protagonista percepisce – e alla quale vuole mostrare le proprie tele (mai veri e propri dipinti, ma piuttosto ricordi trasformati in fumetto). In questa prima parte ci troviamo di fronte a una serie di quadri ben lontani dal mondo di sicurezze che ci avvolge, a quanto pare motivati dal luogo da incubo in cui vive il pittore: forse anzi si tratta soltanto di proiezioni, date le sue confessioni a proposito dell’ossessione che nutre per il sangue; se però l’inizio evoca danteschi fiumi infernali e momenti storici ormai troppo lontani da noi per non esser sentiti come quasi mitologici (la rivoluzione francese richiamata dalla ghigliottina), quando si passa ai forni crematori le cose cambiano, e cominciamo a sentirci un po’ più coinvolti in prima persona, almeno a livello subliminale – ma niente paura, i cimiteri con le teste d’animali sulle croci, la collezione di mostruosità sotto formalina e l’osteria con spettri autofagi come unici avventori restituiscono noi alla nostra normalità e l’artista alla sua deformità mentale. Per la verità, il pittore possiede anche moglie e figli – folli quanto lui, com’è facile prevedere. Egli ci parla poi del nonno, ucciso per il suo incallito vizio del gioco (notevole la vignetta in cui dalla sua pancia squarciata escono migliaia e migliaia di dadi: l’uomo è materialmente fatto delle proprie ossessioni), e del padre, costretto a lasciare il Giappone per sfuggire a un’infanzia piena di difficoltà e di orrori quotidiani e insieme per cercare maggior fortuna in Manciuria (luogo dove nacque Hino nel 1946); dopo un periodo di faticosa operosità giunsero però la guerra e le bombe atomiche che colpirono Hiroshima e Nagasaki: tutto era perduto un’altra volta, e il padre del pittore cominciò a bere e a picchiarlo. Anche lui morì e al fratello dell’artista, un teppista capace però di difenderlo e d’intuirne le doti, non andò molto meglio: ridotto a un mozzicone d’uomo, ora vegeta in casa del pittore. Sua madre, al momento in cui ci vengono narrati i fatti ormai vecchia e ridotta alla pazzia, concepì il protagonista mentre un raggio periferico dell’atomica del 6 agosto 1945 la colpiva: per questo lui ci dice che fu la bomba a fecondarla, bomba che gli procurò visioni infernali fin da quando era feto. Il fungo viene definito e disegnato come “un grande imperatore” senza nulla concedere a un antropomorfismo fuori luogo, ma solo alludendo alla sua regalità blasfema – soprattutto per un giapponese – grazie a un’accentuazione appena accennata delle caratteristiche plastiche che lo caratterizzano; è interessante rilevare ancora che grazie a tale figura ambivalente Hino mostra in colpo solo chi fu la causa (l’imperatore) e quale fu l’effetto (le esplosioni nucleari) della guerra.

Da questo momento in avanti, in ogni caso, l’orgia di sangue a cui assistiamo è quella della nostra epoca, non c’è dubbio: alla fine della Seconda Guerra Mondiale, in Manciuria i russi massacrano e deportano i superstiti figli del Sol Levante in Siberia, i cinesi cominciano a vendicarsi sui giapponesi, i rifugiati nipponici – durante la marcia di ritorno in patria – muoiono di stenti o si uccidono fra loro… La “carriera” del pittore d’incubi comincia qui, rinforzata dalle continue vessazioni familiari e dalla ricerca da parte sua di una trasformazione del piacere in dolore scaricando i propri traumi su altri esseri più indifesi di lui come piccoli animali; proprio il sangue di essi, infine, andrà a consacrare, in un’ingenua messa satanica, la creta della quale è composta la sua scultura del fungo atomico, scultura di fronte alla quale il bimbo si prostrerà. Questo quadro, insieme a quello su due pagine in cui Hino ci mostra i giapponesi in fuga che si ammazzano fra loro, sormonta l’orrore in un lirismo e in una pietà che trova paragoni con difficoltà in altri autori perché alla base di tale superamento stanno una non comune capacità intellettuale e freddezza nel trovare delle precise radici e ragioni prima biografiche, sia pure di grado secondo poiché la didascalia in esergo presenta la vicenda come confessione d’un artista folle, e poi storiche al gore, senza per questo sublimarlo né giustificarlo in alcun modo.

Ma non è ancora abbastanza: utilizzando come mezzo il delirio d’onnipotenza distruttrice del pittore, che ritiene di poter causare disastri su scala nazionale, guerre all’estero (lo scontro fra argentini e inglesi per le Falkland, fatto molto vicino al pubblico del 1984) e addirittura l’apocalisse finale, Hino gli fa massacrare la propria famiglia e quindi gli permette di uscire dal proprio mondo (ben prima del superficiale Truman di Weir) e di rivolgersi in questo modo, ascia rossa di sangue in pugno, ai lettori: “Così io non morirò.” – [in quanto sono una creatura della finzione che non è mai stata viva, se non di una vita artificiale] – “Ma… Voi morirete! Tu, tu e tu morirete! Lui morirà, lei morirà… e anche Tu! Tu morirai!” È vero. Un giorno io morirò. E non si può aggiungere altro a una simile realtà di fatto, così ben preparata con un progressivo avvicinamento storico al qui e ora operato quasi senza parere e insieme con un mezzo retorico assolutamente canonico, semplice e fuori moda come l’appello continuato al lettore, o meglio a me che sto leggendo. L’effetto dell’irruzione dell’assoluta realtà al termine di Visione d’Inferno, per soprammercato, è fortissimo proprio perché attuato con un media tradizionalmente inverosimile e bidimensionale per eccellenza come il fumetto.

E così, con queste condoglianze anticipate, si torna all’inizio: mi piaccia o no, in fin dei conti il sangue, il mio sangue concreto, è la mia egoistica verità ultima. Irrelata e da bassa macelleria perché nel momento in cui morirò tutte le sinapsi salteranno e le spiegazioni – cronachistiche, storiche o metafisiche che siano – esisteranno soltanto per voi, gli altri.

Gianfranco Galliano