IL PAESE SOTTO LE COLLINE

Una nebbia spessa quanto sabbia, dilagata negli spazi immensi della campagna, come un fiume. E’ entrata anche nel paese, ha tramutato le vie in profondi letti dal corso melmoso. Una casa ad una sola aria, una ex cascina, con i muri vecchi e la muffa. Dentro uno stanzone e davanti al fuoco del camino, sdraiato su un divano, ci sono io. Sto riposando ormai da diversi giorni, sprofondato in un sonno di oblio. Questa è la casa che era dei miei nonni ed ora, dopo la loro morte, è diventata mia. Dopo cinque anni di lavoro ininterrotto nell’Azienda Totale, sono stato costretto a licenziarmi. Non reggevo più i ritmi, non digerivo gli scherzi dei colleghi in mensa, i costanti cambi di mansione a cui ero sottoposto. E’ stato puro e semplice mobbing, ma di questo mi sono accorto solo alla fine ed ora ho anche in piedi una causa, chissà se mai porterà a qualcosa. Durante questi cinque anni non ho avuto tempo di vivere nulla, nemmeno di accompagnare alla tomba i miei nonni, che abitavano in questo paese lontano, sotto le colline. Qui i cellulari non prendono, non arriva internet, non ci sono discount e centri commerciali. Solo qualche via lastricata di pavé, le case dalle ante in legno; attorno, la campagna, con campi di grano che d’estate sono alti quanto le piante, il fiume Dora e poi ancora boschi, boschi, boschi. Vorrei svegliarmi, ma non ci riesco, una forza nera mi trascina nel sonno, mi pare di non dormire da cinque anni. Sto sognando l’ultimo Natale in questa casa, quando i miei nonni facevano gli agnolotti e mio padre ed io scendevamo in treno. Mia nonna ci aspettava dal balcone, la sigaretta in mano. Mio nonno non ci salutava nemmeno e ci mettevamo tutti a tavola. Nel giro di poche battute si litigava, ma poi si andava tutti quanti a camminare per la campagna.

 

Sono passati diversi giorni (non saprei dire quanti) e ho lentamente ripreso le forze. Senza fretta ho cominciato ad uscire di casa. Nelle vie invase dalla nebbia, ci sono persone che mi guardano di sottecchi. “Chi è?” bisbiglia uno al tabaccaio; “E’ lo straniero?” farfuglia un’altra. Nella piazza si ritrovano ancora tutti come un tempo, gli uomini bevono tutti quanti assieme e le comari vanno alle veglie con il capo coperto dai veli, a piccoli passi. I bambini giocano a calcio dietro la chiesa e le campane scandiscono le ore dei pasti. Tra alcune settimane ci sarà la festa del paese e monteranno il palchetto per il ballo.

 

Ho scoperto di avere una cugina. Ero al cimitero, a pregare alla tomba dei miei nonni (li hanno sepolti nella terra, come avrei voluto io, i loro volti sorridenti nelle foto sulle piccole lapidi in pietra), quando mi si è avvicinata una vecchia claudicante, il naso lungo e gli occhi vivi.

“Tu sei il nipote del Dante. Lui era mio zio e non ti avevo mai visto. Ma sei uguale a tuo padre e quando ti ho visto ho capito perché sei qui.”

Era già l’ora in cui la nebbia si colora di nero e ci siamo rifugiati in un baretto. Davanti alla cioccolata calda e ai biscotti, la cugina Ivonne mi ha raccontato della famiglia, di come i miei bisnonni siano venuti dalla Francia, perdendo nel cammino le due figlie (una si chiamava Ivonne), e poi la guerra, il lavoro nei campi.

“I tuoi nonni mi parlavano di te, io non avevo mai visto una tua foto, ma ti avevo visto nei miei sogni”.

Ivonne mi ha detto che le sono mancato, che ora che sono tornato possiamo riunire la famiglia, perché qui, di notte, ci sono le processioni alle chiese in campagna, e si possono evocare gli spettri dei propri avi, in un cerchio di sabbia e sale. Io le ho sorriso, forse ha dei problemi di cervello.

 

Sono dovuto andare in città, per firmare le carte all’ispettorato del lavoro. L’impiegata mi ha detto che sarà dura far emergere la responsabilità di mobbing da parte dell’Azienda Totale, dato che le nuove leggi che vogliono introdurre in Parlamento intendono alleggerire le responsabilità delle aziende.

In città si respirava un’aria di piombo e di morte. I giornali riportavano di sparizioni di alcune persone. Gente che era uscita per acquistare un pacchetto di sigarette e che non è più tornata. Mentre stavo leggendo, un barelliere del Pronto Soccorso mi si è avvicinato:

“Tutte sciocchezze, queste. I suicidi, altroché. Ogni giorno si butta giù qualcuno dalla finestra. Impiegati, insegnanti, manager, baristi, pensionati, divorziati, madri, padri, ragazzi, ragazze, bambini e bambine. Tutto va bene, prima, poi vanno alla finestra e si lanciano giù. Basta un attimo.”

Per le strade, nessuno guarda in faccia nessuno. Gli orologi, i cellulari, i palmari, tutti scanditi da movimenti di un ordigno digitale superiore. Le case hanno le finestre chiuse, nessuno parla con il vicino, le automobili contengono una persona soltanto, nessun bambino gioca a pallone nelle vie.

 

Sono tornato al paese dei miei nonni. Gli abitanti non mi guardano più con sospetto, ormai sanno che sono il nipote del sarto, qualcuno mi ferma al bar, in panetteria, dal macellaio, comincia a parlarmi dei miei nonni, dei giorni passati assieme, qualcuno mi ha detto che mia nonna gli piaceva molto, quando erano giovani.

Stavo rientrando a casa ed ero sul portone, quando mi sono accorto di un’ombra alle mie spalle. Mi sono voltato, niente. Sarà stato un gatto, ho pensato. La sera, però, mentre leggevo davanti al fuoco, mi sembrò di avvertire la presenza di qualcuno, nel giardino. Come se quell’ombra che avevo intravisto prima di cena fosse entrata e al buio mi stesse spiando.

La mattina successiva, nessuno mi salutò quando entrai in pasticceria per colazione. Gli occhi dei paesani erano tutti rivolti a terra.

Il giornale locale parlava della misteriosa morte del parroco. Pareva fosse stato ucciso dopo la funzione dei vespri.

Quel giorno, una processione senza suoni accompagnò il feretro del parroco al cimitero e nessuno bevve vino, al bar della piazza.

Mi barricai in casa stando attento a chiudere bene porte e finestre. Ma quando andai nel letto, mi accorsi nitidamente che un occhio giallo mi stava spiando tra le fessure delle persiane. Cercai di alzarmi, per prendere un coltello, per difendermi. Ma le forze vennero meno e caddi in un sonno senza sogni.

Alla solita pasticceria, la mattina dopo, la gente era ancora più silenziosa, ancora più sola. Altre due persone erano state uccise nella notte, diceva il giornale. Non feci colazione e uscii immediatamente. Quando fui nella piazza, qualcosa cadde dal cielo. Una macchia venne giù da un palazzo. Le urla della gente. Ci misi alcuni istanti a realizzare che qualcuno si era buttato giù da un balcone.

 

Era già notte alta ed io non riuscivo a dormire. Non mi spiegavo l’improvvisa violenza che si era abbattuta sul paese ed avevo paura. L’ombra che aveva cominciato a seguirmi non mi mollava più: anche quella sera si era incollata alle mie orme. Faceva la sua comparsa non appena il buio calava sul paese ed ora avevo anche potuto capire che si trattava di un uomo con i guanti neri. Per un istante, ero anche riuscito a vederne il volto: sotto un cappuccio avevo visto un passamontagna bianco, con due fori minuscoli per gli occhi.

Qualcuno stava bussando fievolmente alla porta. Andai ad aprire pieno di indugi, ma fui rincuorato nel vedere il volto di Ivonne. Cosa ci faceva a quest’ora? La feci entrare e mia cugina mi disse che non c’era tempo da perdere…

“Questi morti sei tu che li hai portati. So che sei tornato in città… Dalla città viene il male. Ti sei trascinato dietro le paure, la violenza, la morte.”

Mi disse che potevamo far finire tutto questo, quella notte stessa. Mi fece infilare i vestiti e mi disse di seguirla. Mi misi dietro a lei per un sentiero stretto, che costeggiava la ferrovia. Mia cugina camminava su una gamba sola, appoggiandosi ad un muro in mattoni vivi.

“Qui i tuoi nonni hanno fatto l’amore la prima volta. Tua nonna era povera, ma così bella. E tuo nonno l’aveva notata, al ballo del paese. Poi nacque tuo padre e tuo nonno dovette andare in guerra.”

I passi incerti della vecchia cugina spingevano verso la campagna, attutiti dalla nebbia. Attraversammo come in un sogno campi e boschi, sospesi in un freddo che aveva pietrificato tutta la natura. Quando giungemmo nei pressi di una cappelletta in aperta campagna, Ivonne si fece uno strano segno sulla fronte, quindi mi invitò ad entrare nel corpo buio della struttura. Dentro vi erano gli abitanti del paese, assiepati lungo i muri della cappella come tanti gufi. Ivonne non disse parola e prese da un cesto del sale; accese una candela e disegnò con le gocce di cera una stella sul pavimento. Intanto, bisbigliava con le labbra sottili una canzone popolare, che parlava di un ragazzo che tornava al suo paese, dopo molti anni, una sera d’inverno. C’era una festa e le luci lo avevano guidato fino al palchetto dei balli. Qui c’era una ragazza, anzi era mia nonna, giovane, i ricci spessi come le mareggiate d’autunno. Mi sorrideva, mi diceva “ecco il tuo nonno, è tornato dalla guerra”. Ballavamo insieme, noi tre, anche mio nonno era giovane ed aveva tutti i capelli, quasi non potevo riconoscerlo, ma i tratti del suo viso erano sempre quelli e il naso lungo identico. I miei nonni erano felici e mentre la banda suonava una canzone con la fisarmonica e tutto il paese ruotava attorno come in un carillon, i volti dei miei nonni cambiavano, si infittivano via via le rughe sulla loro pelle. Quando la musica si spense, i miei nonni avevano l’aspetto dell’ultima volta che li avevo visti. Mia nonna mi passava la mano sulla guancia, “nusent” diceva. Mio nonno rideva tra sé.

“Non devi più sentirti in colpa perché non sei stato con noi. Noi siamo i tuoi nonni e sappiamo che ci vuoi bene. Ora vai. Noi riposiamo in pace e, quando ci vorrai ricordare, ci farà piacere. Noi siamo là.”

Con la mano mia nonna indicava il camposanto. Mi sorrisero ancora, poi si incamminarono per la via in cui si spegnevano le luci e, prima di entrare nel cimitero, si voltarono ancora diverse volte, a salutarmi con la mano.

Daniele Vacchino