LA STREGA DEL BOSCO DI PIOPPI

Nelle innumerevoli storie e leggende di streghe, ci si premura sempre di raccontarne ogni dettaglio, compreso, ovviamente, nominarne il luogo preciso in cui si ritiene ch’essa viva. In questo caso, tuttavia, sarà mia cortesia non svelarvi né il nome del luogo, né la sua esatta ubicazione, e questo, badate bene, è nel vostro stesso interesse.

Con i suoi ritmi frenetici e la continua trasformazione a cui è sottoposta, la città non si cura più di simili superstizioni, ma ugual discorso non si può fare per i piccoli centri, in cui le comunità tendono sempre un po’ a isolarsi, e a preservare la loro storia, le proprie tradizioni e le credenze locali.

Alle porte della città, a ovest rispetto ad essa, è ubicato uno di questi paeselli, in gran parte libero dalla metamorfosi che il progresso incessante impone, conservando – talvolta alimentando – voci e dicerie con estrema convinzione. Nel paesello, difatti, tutti sanno che non ci si deve avvicinare al bosco di pioppi situato non molto lontano: le madri intimano ai figli di non uscire dal paese, men che meno di dirigersi verso quella zona maledetta, mentre gli anziani, ogni qualvolta il tempo si guasti repentinamente, o si verifichi un accadimento bizzarro e inspiegabile, accusano la strega dei pioppi di esserne la causa. Nei pressi del bosco non vi passano strade, e mai vi furono tracciate, neppure in passato; ogni percorso è stato disegnato affinché girasse intorno a quel territorio, a sud come a nord, ben lontano dai suoi confini. Sebbene pochi lo affermino apertamente, il pensiero comune è, a tutt’oggi, che tale scelta sia stata compiuta per non indispettire la strega incappando nei suoi possedimenti.

Cosa sia vero di tutto ciò, e quanto sia finzione o folklore, non è ben chiaro, tuttavia fatti assai curiosi sono riportati nelle cronache del paesello; cose di poco conto, storielle talvolta banali, come il propagarsi nella notte di strani rumori, canti e fruscii. È risaputo, tuttavia, che testimonianze attestanti luci e presenze riempiono comunemente le leggende sull’argomento, senza portare particolari novità alla raccolta di fole e fanfaluche a riguardo.

Ebbene, a circa sei chilometri dal paese, dicevamo, in direzione ovest, sorge il boschetto che, per qualche altra ragione dichiaratamente più razionale, è stato risparmiato al prepotente incedere dell’edilizia e dell’urbanistica selvaggia. Il motivo, cari amici, è che, a dispetto delle leggende, vi furono tentativi di costruzione su quelle terre, ma alla fin della fiera tutti si dovettero arrendere a quella che, successivamente, fu definita come “inadeguatezza del territorio agli usi prefissi”, ossia: nessuno riusciva a farci nulla, tantomeno a capirci qualcosa.

E sì che in molti vi avevano provato, a costruirvi sopra: chi voleva farci le villette a schiera, chi al posto di quegli alberi ci voleva piazzare un ristorante rustico o un agriturismo… ma, qualsiasi fosse la destinazione immaginata per quell’appezzamento, ognuno di quei sognatori dovette arrendersi già da principio, poiché nessuno, e dico proprio nessuno, fu in grado neppur d’incominciare i lavori preliminari. Ogni qualvolta le macchine si avvicinavano per disboscare e spianare, ecco che iniziavano i guai: guasti di ogni tipo impedivano le operazioni, e perfino qualche incidente serio capitava ai più agguerriti. Un operaio, per esempio, perse una mano mentre stava cercando di avviare una motosega. L’attrezzo non ne voleva sapere di partire, alla stregua di una bestia recalcitrante sotto il vano sprone del suo cavaliere. Quando questa partì, dopo numerosi sforzi e cospicue imprecazioni, eccola sfuggire dalla presa del malcapitato, il quale si vide troncata di netto la mano sinistra.

Di incidenti simili se ne contarono numerosi, forse qualcuno fu pure inventato o ingigantito, sempre per rendere la fola più affascinante a chi la udisse; sta di fatto che quel boschetto non venne mai toccato da nessuno e le voci sulla presunta strega del bosco di pioppi si radicavano sempre più nella popolazione locale.

Nel paese vi era un uomo, giunto da fuori con intenti rivoluzionari. Era un individuo di successo, un imprenditore e un mecenate (perlomeno così amava definirsi lui stesso), che della ragione faceva la propria spada e della perseveranza il suo scudo. Era un personaggio dedito all’attivismo politico, e non perdeva occasione per dimostrare agli elettori come solamente i fatti contassero, a fronte delle numerose parole ch’egli comunque non lesinava di elargire. In particolare, l’uomo, promuoveva il progresso, la crescita della popolazione, la ricerca delle possibilità imprenditoriali, e via discorrendo. Quel piccolo borgo medievale, dunque, rappresentava una ghiotta occasione di scolpire il proprio nome nella storia e di gonfiare ulteriormente le proprie tasche.

Da individuo di logica e determinazione qual era, egli non voleva arrendersi a quell’affronto verso il progresso. Si era mai visto che l’uomo dovesse sottostare ai capricci della natura? Fu così che un pomeriggio, armato di fiducia e di un’ascia, si diresse verso il bosco, intenzionato a lanciare un messaggio a tutta la gente del paese: quel boschetto sarebbe caduto, avrebbe ceduto il passo al progresso, e alla sua ferrea volontà.

Giunto ai limiti del bosco, l’uomo si fermò un momento a scrutare il suo obiettivo, pregustando il successo e l’ulteriore celebrità che avrebbe ottenuto al termine di quell’impresa. In piedi, di fronte all’albero che sanciva l’inizio del bosco, prese a colpire il tronco con l’accetta. La corteccia saltava via, colpo dopo colpo, spargendo frammenti di legno man mano che il solco si allargava, facendo echeggiare tutt’intorno intorno i colpi severi dell’utensile. Giunto a metà del lavoro, l’uomo si fermò, incuriosito da quanto vedeva: nella ferita della pianta, in profondità, s’intravedeva la linfa che vi scorreva all’interno, un liquido scuro, denso e rossastro, non dissimile dal sangue. “Sta’ a vedere che le piante sanguinano, ora!” si disse scuotendo il capo, e riprese a colpire il fusto, il quale crollò inesorabilmente sotto pochi altri colpi, accasciandosi a terra, mortalmente ferito. Dal tronco, fiotti di linfa uscirono copiosi, irrorando il prato e coprendo di rosso il verde di quell’erba: un verde florido, lucente, mai visto altrove, la cui immacolata livrea ora veniva insozzata dal fluido vitale di quella che pareva una pianta infetta.

Terminata la sua opera, l’uomo osservò l’albero esanime al suolo, e gli parve, per un momento soltanto, ch’esso sussultasse, alla stregua di un moribondo.

Un suono lontano e sommesso prese a volteggiare lì intorno, e lentamente s’insinuava nelle orecchie dell’uomo, il quale strizzava gli occhi come a volerne mettere a fuoco origine ed entità. Talvolta gli parve quasi di udire il sinuoso canto di una fanciulla, mentre in altri momenti era chiaro che fosse il vento a parlare, che stesse levandosi con vigore e, con inaudita rabbia, s’apprestasse a urlare. L’uomo abbassò lo sguardo verso l’albero abbattuto, attirato da un crepitio inusuale, e, con suo sommo stupore, vide la pianta lentamente rattrappirsi, perdendo consistenza e colore, fino a divenire un secco ramoscello grigio, denudato delle foglie e immerso in quello che di fatto poteva somigliare a una pozza di sangue.

Sbigottito dalla scena, l’uomo si fece scappare una bestemmia, mentre il liquido cremisi pareva venir assorbito dal prato su cui si era sparso, senza lasciare più alcuna traccia. Riavutosi dallo smarrimento causato da quell’amenità, impugnò più saldamente l’ascia e si appropinquò verso la prossima pianta, pronto ad abbatterla come fatto con la precedente. Mentre faceva per alzare lo strumento nell’assestare il primo colpo, ecco che il vento fischiò nuovamente, mutando ancora in quello che, ora più nitido, era il vociare intonato e suadente di una fanciulla. Guardandosi intorno, alla ricerca della fonte di tale melodia, l’uomo chiese ad alta voce: «C’è qualcuno? Chi canta? Siamo in vena di spiritosaggini?». In tutta risposta, la voce smise per un istante soltanto di cantare, e fece andare un’aggraziata e seducente risata. L’uomo non vedeva nessuno, e quel cantilenare lo innervosiva, ancor più quelle risa che a lui parevano uno scherno e un affronto.

Deciso a infischiarsene dei suoni circostanti, riassunse con maggior decisione la posa dell’abbattitore, e per un momento, per un istante solamente, pareva quasi la statua di un eroe greco in procinto di vibrare il colpo mortale sul nemico.

A renderlo immobile in quella posa, tuttavia, era stata la visione di un’ombra lontana, confusa e nascosta dalla vegetazione. Nel silenzio di quel bosco, dove neppure gli uccelli cinguettavano, dove nemmeno gli insetti ronzavano; solo l’eco di un canto soave fluttuava nell’aria, ed ora anche il calmo fruscio di piedi sull’erba.

Dalle maglie del bosco ecco che finalmente comparve la figura di una donna: era completamente nuda, e senza alcuna vergogna o timore si avvicinava lentamente all’uomo. Aveva capelli lunghi e vaporosi, simili a ondulati viticci, di un inusuale rosso violaceo. La pelle era pallida e candida come il latte appena munto, istoriata da un lungo e complesso disegno viola, che le correva intorno a una gamba come una serpe. Si muoveva con innaturale lentezza, ondeggiando i fianchi ampi accentuati dalla vita stretta, mentre l’erba pareva spostarsi sotto i piccoli piedi scalzi. Una catenina d’argento oscillava, agganciata ad anelli che trapassavano i capezzoli rosati, emettendo un tintinnio sommesso. Il volto era immerso in un ovale delicato, appena accennato sugli zigomi e sul mento; due grandi occhi tra il viola e il rosso erano allungati in un nero di ciglia lunghe e curve. Un naso piccolo, sottile e dalla punta in su, pareva darle un’aria fanciullesca, a dispetto dell’aspetto sensuale e dall’incedere privo d’insicurezze.

L’uomo non poteva credere a quella visione, da cui non riusciva a staccare gli occhi, né a chiudere la bocca, spalancata per la sorpresa. Quando la donna fu a un paio di metri da lui, egli lasciò andare mollemente l’ascia, che cadde a terra con un tonfo sordo. La donna distolse lo sguardo dall’uomo e si fermò ad osservare l’attrezzo caduto sull’erba, poi pose nuovamente gli occhi viola e rossi sull’uomo, che aveva preso a sudare copiosamente, sia per la tensione che a causa dell’eccitazione mossa in lui dalla fanciulla.

Avrebbe voluto chiederle chi fosse, cosa facesse lì, in mezzo a un bosco disabitato, senza vesti, ma l’unica cosa che gli riusciva di fare era scrutare quella creatura, divorandone le forme con lo sguardo. Prese a far scorrere gli occhi sulle curve ampie dei seni burrosi, sull’addome morbido e pallido, dal cui ombelico un pendente si prolungava in una pietra viola, poggiata poco sopra il folto cespuglio della sua sessualità. La donna pareva quasi leggere i pensieri dell’uomo, e, allargando il sorriso con malizia, dispiegò le braccia, come a mostrarsi, ruotando lentamente su sé stessa. Altri due gioielli viola, a forma di picca, erano incastonati alla base della schiena, tra le fossette sopra i glutei tondeggianti.

L’uomo era letteralmente paralizzato da quello splendore inquietante; l’eccitazione premeva, portandogli il febbrile bisogno di prenderla, eppure era totalmente incapace di muoversi. Ogni domanda logica che avrebbe colpito chiunque in un frangente simile era stata spazzata via dalla sensuale presenza della fanciulla.

Tornata nuovamente a fissare l’uomo, la donna allungò una mano verso di lui. Le dita erano affusolate e adorne di anelli dalle fogge bizzarre. Uno di essi pareva un lungo ramo intrecciato intorno alla mano, il quale proseguiva fino ad attorcigliarsi sul polso. Con l’indice, toccò delicatamente le labbra dell’uomo, il quale sussultò per l’eccitazione, dimentico di ogni pensiero.

A quel punto, la ragazza discinta parlò, lentamente, emettendo una voce calda, venata da una sonorità ultraterrena, e che pareva echeggiare nella foresta: «Sei qui per abbattere il bosco, dunque?». L’uomo vacillò un momento, sbattendo più volte le palpebre, come se cercasse di trovare la forza per rispondere. Dopo alcuni istanti di silenzio, riuscì a replicare un unico flebile: «S-sì». Quella laconica risposta gli costò uno sforzo immane, al punto che si sentiva di colpo spossato. La donna piegò la testa di lato, dilatando le labbra carnose in un sorriso sornione appena accennato, che pareva rubato alla stessa Gioconda di Leonardo; scrutava l’uomo con aria vagamente divertita, al che emise una delicata risata: «Sembra che tu abbia già iniziato, mio caro. Hai abbattuto uno dei miei alberi. Non è un gesto gentile». In quella frase vi era una nota di rimprovero quasi bonario, alla stregua di un biasimo che un genitore avrebbe indirizzato a un bambino vivace; un bimbo che compie una marachella più per ingenua innocenza che per mera disubbidienza.

La donna si stiracchiò, allargando le braccia e protendendosi in avanti, la chioma rosso-violacea gettata indietro, emise un lungo sospiro che pareva far vibrare la vegetazione circostante; poi prese a camminare lentamente intorno all’uomo, il quale, impossibilitato a muovere un solo muscolo, cercava perlomeno di seguirla con lo sguardo.

Giunta dietro di lui, la donna si alzò sulle punte e poggiò le dita ingioiellate sulle spalle dell’uomo, accostando la bocca al suo orecchio: «Hai ucciso uno dei miei alberi. Dovrai rimediare per questo». Le parole uscirono ancora una volta con irreale lentezza, sussurrate, pervase di quel suono che pareva essere un’eco di sé stessa, un riverbero nel timbro, che si propagava attraverso l’orecchio dell’uomo, fino a penetrargli nel cervello. Detto ciò, l’anello a forma di ramo sul dito della fanciulla prese a muoversi, propagando la sua forma lungo il volto dell’uomo, biforcandosi mentre si faceva strada lungo le narici. Egli sussultò, emettendo gorgoglii che sarebbero stati senz’altro urla, se non fosse che non poteva muoversi né proferire verbo.

Lentamente, i piedi dell’uomo presero a dividersi, mutando in radici che affondavano nel verdeggiante prato, e acquisendo via via il colore della corteccia; le braccia si protesero al cielo, ripartendosi in numerose biforcazioni legnose culminanti in sottili fili di fogliame. Continuava a gorgogliare, l’uomo, fino a quando, mutatosi completamente in albero, non fu in grado neppure di emettere un suono.

A quel punto, la fanciulla dai capelli rosso-viola sfilò l’estremità dell’anello dalla corteccia dell’albero che aveva appena preso il posto di quello abbattuto.

Ammirando il nuovo ospite del suo bosco, la strega sorrise compiaciuta, tirandosi dolcemente la catena appesa ai capezzoli, e facendo saettare la lingua in segno di dileggio. Mentre si allontanava per scomparire nel buio della foresta, prese a cantare con la medesima delicatezza di prima, lasciandosi sfuggire, solo per un momento brevissimo, uno sghignazzare sinistro.

Matteo Manferdini