PARLA COI MORTI 14

TEMPI DI GUERRA

Stavamo mangiando e la polenta fumava sulla tavola, quando si fece sentire un rumore sordo, come d’un motore che si avvicinasse rapidamente. Io e mio nonno ci precipitammo nell’aia e, di colpo, con un fracasso assordante, sulle nostre teste vedemmo transitare un aereo, enorme e con due oggetti neri che volavano ai suoi fianchi.

-Ha già sganciato le bombe. – disse il vecchio – Vanno verso il ponte della Dora Baltea.

Salimmo sul muretto dell’aia, per seguire meglio il tragitto delle bombe e, di lì a pochi secondi, due schianti fecero tremare porte e finestre e mandarono i vetri in frantumi.

-Il ponte è ancora in piedi. Come mira non sono la fine del mondo.

- E se andassimo a dare un’occhiata al ponte da vicino, tanto per vedere dove son finite le bombe?

- Un giorno farai l’esploratore, ma per adesso non è il caso di curiosare troppo. Può darsi che quelli, visto che il ponte l’hanno mancato, mandino un altro bombardiere e, se ci trovano vicino al ponte, il pezzo più grosso che resta di noi è il dito mignolo.

Le argomentazioni del vecchio mi sembrarono convincenti e rimandai a tempi più tranquilli quella visita.

Gli americani tentarono più volte di abbattere il ponte ferroviario sulla Dora Baltea, prima per impedire il transito di armi e di merci dei tedeschi e, poi, per ostacolare la loro ritirata. Ma il ponte rimase in piedi e la zona circostante fu costellata da un certo numero di bombe inesplose.

Ma non sempre gli americani ricorrevano ai bombardieri; qualche volta si limitavano ai caccia. Non ho mai capito bene e nessuno in seguito mi spiegò il motivo per cui si doveva mitragliare tutta la nostra zona. Forse volevano colpire le tradotte dei tedeschi? Comunque fosse, come si sentiva da lontano il fischio lacerante dei caccia, si abbandonavano le case e cercavamo riparo sulle rive della roggia, nascosti sotto i salici. Nessuno aveva il coraggio di parlare; solo mio zio, il Furlos, mi diceva all’orecchio “Non preoccuparti, adesso vado a casa, Yvonne ed io tiriamo fuori il nostro aereo e gliela facciamo andar via a quelli lì la voglia di mitragliare”.

Dopodiché se ne andava; io aguzzavo la vista e stavo ben attento, ma non vidi mai nessun aereo alzarsi dal cortile del Furlos. Da un lato ammiravo mio zio perché era un uomo stravagante, ma sapevo anche che era un gran contastorie e che passava buona parte del tempo libero ad architettare qualche scherzo a danno degli amici.

Una volta che i caccia si erano allontanati, facevamo ritorno a casa e, per prima cosa, andavo a cercare nell’aia i bossoli di mitraglia.

Una sera, non avevamo ancor finita la cena che si sentì bussar forte alla porta. Mio nonno andò ad aprire e vidi entrare cinque o sei soldati tedeschi.

- Cerchiamo dei partigiani.

- Ci siamo solo io, mia moglie e mio nipote – disse il vecchio.

- Dobbiamo controllare.

Dopodiché entrarono in casa, deposero sulla tavola mitra e fucili e sparirono nel buio dell’aia. Noi restammo in silenzio per alcuni minuti, finché i soldati tornarono con alcune galline e, riprese le armi, se ne andarono.

La scena, nei mesi seguenti, doveva ripetersi due o tre volte, con poche varianti.

Finché ad un pescatore del paese venne l’idea di uccidere con un colpo di fucile un soldato tedesco nei pressi della stazione. Per rappresaglia il comando tedesco decise di metter fuoco al paese. Poi la minaccia non fu messa in atto e i tedeschi se ne andarono, forse perché era intervenuto qualcuno con voce in capitolo o forse perché i tedeschi stavano cominciando a ritirarsi e avevano altro a cui pensare.

Il mio desiderio di vedere le bombe da vicino fu soddisfatto poco tempo dopo, ma in modo imprevisto e meno tranquillo di quello che avrei voluto.

Era la domenica d’un pomeriggio d’estate e io, mia madre e il mio amico Clemente stavamo andando, con altre persone, verso la Dora Baltea, con l’intenzione di passare qualche ora sotto il sole. D’improvviso sentiamo il rombo d’un aereo: gli altri si allontanano dalla ferrovia correndo; mia madre, invece, terrorizzata, ci prende per mano e ci trascina verso il fiume, nella direzione del ponte. Non siamo a più di duecento metri dal ponte, quando uno schianto tremendo ci solleva da terra e ci getta contro dei cespugli distanti alcuni metri. Dall’alto piovono polvere, rami e foglie. Passati l’urto d’aria e lo spavento, ci alziamo e ci guardiamo l’un l’altro: siamo coperti di polvere, ma illesi. Non è il caso d’insistere con le spiagge della Dora Baltea e ce ne torniamo a casa, abbastanza contenti d’averla scampata.

(14 – continua)

Bruno Vacchino