PARLA COI MORTI 12

QUALCUNO CANTA SUGLI ALBERI

La settimana dopo tornammo al cimitero. Sulla ghiaia odiosa, funebre, sempiterna, il sole di novembre che invitava alla rinuncia, all’abbandono.

- Di domenica, come oggi, i nostri vecchi, finito il pranzo, andavano all’osteria; bevevano il vino delle colline del Monferrato in bottigliette di vetro a forma d’anfora. Pochi superalcolici e poche sigarette, per quanto sembri strano, oggi; l’oste poteva servire dei panini di prosciutto o di salame di Casale e, a richiesta, qualche volta dei piatti di carne di pollo o di maiale. I forestieri erano pochi e solo di passaggio e quasi inesistenti le risse. La gente andava lì per giocare a carte, discutere, bere un quartino e non per scaricare le proprie insoddisfazioni.

Mio padre si fermava e m’indicava la foto d’un uomo sulla cinquantina, con grandi baffi e un cappello nero.

- Qui dorme per sempre il Notu, uno dei frequentatori più assidui dell’osteria. Abitava nella parte bassa del paese, tra la roggia e il fiume: una manciata di case a cui avevano dato il nome di Stati Allegri. Un giorno bussò al cancello di mio zio, detto il Furlos:

“Se è possibile, avrei un piacere da chiederti, ma niente d’impegnativo, s’intende.”

“Tu prova a dirmelo.”

“È per via di quel ponte lì” e con la mano indicava il ponte sulla roggia, distante una trentina di metri.

“Ho capito, ma se ti dà proprio noia, nessun problema. Stanotte lo buttiamo giù: ho ancora una carica di dinamite che i tedeschi hanno lanciato dal treno, quando si ritiravano.”

“Ma no, piuttosto bisognerebbe ricostruirlo. E poi, come faccio a tornare a casa, se lo buttiamo giù?”

“Si dà il caso che distruggere sia più rapido che costruire e, tra l’altro, ci vorrebbe anche la licenza del Comune. Senza contare che non siamo muratori. Ma non capisco il tuo problema.”

“Se guardi il ponte, non fai fatica a notare che i due muretti ai lati sono sì robusti, ma incredibilmente bassi: non più di mezzo metro. Cosa aveva in testa il geometra che li ha fatti? Non vedeva il pericolo? Ti distrai un istante, dai una ginocchiata al muretto e in un batter d’occhio sprofondi nella roggia.”

“Questo lo vedo anch’io, ma si dà il caso che tu il ponte l’abbia attraversato migliaia di volte.”

“Certo, ma gli anni passano, i riflessi se ne vanno…”

“Dilla tutta.”

“E io non so nuotare…”

“Ecco il punto. Tu stai tra la roggia e la Dora Baltea e sei meno bravo d’un gatto; ma quante volte, quand’eravamo giovani, t’avevo detto d’imparare?”

“Adesso è troppo tardi per parlarne. E, comunque, tu mi conosci e puoi testimoniare che non ci sono molte cose che mi fanno paura… Ma con l’acqua non sono mai riuscito a prender confidenza.”

“E tutto d’un colpo ti sei posto il problema?”

“Non proprio di colpo. È piuttosto per via d’un sogno che negli ultimi tempi s’è presentato più volte. Io torno a casa di notte; non sono neppure ubriaco, eppure quando arrivo su quel diavolo d’un ponte, qualcosa mi distrae, inciampo in un sasso e finisco a testa bassa nella roggia.”

“Se stai a badare ai sogni… Si vede che invecchi. Io, per esempio, da un po’ sogno che mi mandano a riparare il campanile. Ho un bel da dire che non sono muratore, né fabbro; quelli insistono che devo andare. Ma il bello viene dopo: una volta arrivato sul campanile, mi accorgo che sono molto più in alto, su una piattaforma di legno che oscilla come una bilancia. A quel punto, per non cadere, mi stendo a pancia in giù e mi aggrappo forte a un lato della piattaforma. Tengo duro, penso che qualcuno verrà a tirarmi via, ma il paese si muove tutto sotto di me e le forze se ne vanno. Allora dico “Bene, se avete deciso che proprio devo morire come una vacca su questo pezzo di legno, non vi darò la soddisfazione di guardarmi troppo a lungo” e mi lascio andare. Ma, invece di precipitare come un sasso, vedo che l’aria mi sostiene e allora allungo le gambe, le tengo vicine come fanno le garzette delle risaie, comincio a battere le braccia e volo. Ma non atterro in paese, vado più lontano, sull’isola della Dora Baltea. Poi, quatto quatto, me ne torno a casa, senza dir niente a nessuno.”

“Ma se permetti, i sogni non mi sembrano gli stessi: tu voli e io annego.”

“Sì, adesso che ci penso, devo ammettere che non sono gli stessi. Ma qual è il piacere che mi volevi chiedere?”

“Vedi che il muro della tua cucina fa angolo con la cantina e proprio lì vorrei mettere della paglia o del fieno. Così qualche sera, quando torno dall’osteria, invece di passare il ponte al buio, mi metto a dormire tranquillo sulla paglia e me ne vado al mattino, quando son bello fresco.”

“Eh, l’idea non è delle peggiori e la prudenza non è mai troppa; ma la paglia te la dò io e, invece di dormire nell’angolo, ti lascio la chiave del cortile, appesa all’interno del muro. Così ti basta allungare una mano e sei al riparo.

“No, il tuo cane non sarebbe contento.”

“Perché, ha qualcosa contro di te?”

“Ma no, solo che si metterebbe ad abbaiare e sveglierebbe il vicinato. Credimi, mi basta la paglia e, se adesso mi offri un bicchiere di quel vino che hai preso a Cantavenna, è ancora meglio.”

“Per questo non c’è problema, ma non venire poi a dirmi che non t’ho avvisato.”

“E di cosa poi?”

“Vedi tutte queste piante di gelso che costeggiano la strada? Le hanno messe al tempo in cui allevavano i bachi da seta.”

“E allora?”

“Allora non so se le hai mai sentite di notte, quando il vento scuote queste foglie enormi. C’è un rumore, come se ci fosse un gruppo di gente che parla e si nasconde, qualcosa di strano che non ti lascia tranquillo.”

“Ma io ho un sonno di piombo e se è solo per le foglie… Il vento faccia quel che vuole.”

“Ma devo ancora aggiungerti qualcosa… Gli alberi di noci che stanno da questa parte della roggia…”

“Mi sembra che non abbiano nulla di straordinario.”

“Non per i vicini, però… Lo sai anche tu quel che dicono. Che in certe notti si sente cantare: sono donne, filano e cantano, tutte insieme. E dalla paura, nessuno esce di casa e, tantomeno, si azzarda ad andare a curiosare sotto gli alberi… Perché quelle donne, non c’è dubbio, sono nient’altro che delle streghe. E ogni tanto scendono dai noci e se ne vanno in giro e, allora, è meglio non trovarle sulla propria strada.”

“Sì, queste voci girano da un sacco di tempo… Ma tu le hai mai viste queste streghe?”

“Proprio viste no, ma a giudicare dalle voci che venivano dagli alberi… Direi che non sono una fantasticheria.”

“Diresti, ma non ne sei sicuro. Credimi: sono voci e le voci si fa presto a metterle in giro. Quanto alle streghe, se hai una buona dose di vino in circolazione, potresti anche immaginarti di vederle… Ma, a proposito di vino, vedi di offrirmi quel bicchiere e parliamo di cose più allegre.”

Passa qualche mese e il Notu ogni tanto trascorre la notte nell’angolo, sulla paglia.

Si sente tranquillo; sa che in ogni caso può disporre di quel giaciglio. La moglie, poi, se non lo vede rientrare, dica quello che vuole. Così, piano piano, ogni tanto beve qualche bicchiere in più. Certo, il ponte ce l’ha bene in mente e se rientra al buio, non si azzarda ad attraversarlo. Ma una notte, nell’angolo, proprio mentre dormiva di buona lena, fu svegliato da un rumore insolito. D’improvviso, s’era levato il vento e le foglie dei gelsi sbattevano con fracasso; sì, sembrava proprio che una cerchia di persone confabulasse dietro quegli alberi, senza poter capire quel che dicevano. Il Notu si avvicinò alle piante, cercò di vedere se c’era qualcuno, ma con quel buio non si distingueva un uomo a due passi. Ritornò sulla paglia, deciso a riprendere sonno, ma non c’era nulla da fare: continuava il vento e quello strano parlare diventava sempre più forte. Il Notu cominciò a inquietarsi e si alzò, deciso a rientrare a casa. In fin dei conti, aveva dormito qualche ora e si sentiva bene. Si stava così avvicinando al ponte, guardando bene dove metteva i piedi, quando dai noci si levò un canto minaccioso. “Streghe della malora!” disse il Notu e si girò per vedere se venivano dietro di lui. In quel momento il suo ginocchio urtò contro il muretto del ponte e il Notu ebbe appena il tempo di lanciare un urlo, prima di cadere a faccia in giù nell’acqua.

Il suo corpo fu ritrovato verso mezzogiorno, impigliato tra i rovi della riva, qualche centinaio di metri più a valle.

Al funerale mio zio camminava pensieroso.

“Cos’hai?” gli chiesi.

“Penso che in fin dei conti è morto anche per colpa mia… Non dovevo permettergli di dormire in quell’angolo.”

“Una notte o l’altra sarebbe morto lo stesso. Quel ponte lì lo aspettava.”

“Tu dici? Forse è proprio così.”

Dopodiché riprese a camminare con l’animo più sollevato.

(12 – continua)

Bruno Vacchino