X TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: II CLASSIFICATO

LA SPADA E LA ROSA

di Davide Camparsi

Sotto il cielo della notte, la neve è pettinata di ceruleo e macchiata da torbide ombre.

Il sangue, invece, spicca nero e lucido.

Il rumore dei passi di Adamo crepita ottuso sul terreno, mentre avanza impugnando la spada tesa davanti a sé. Suda, nonostante il freddo. Il respiro lo assorda nelle orecchie, il cuore gli rantola in petto. Per quanto sgrani gli occhi, la tenebra confonde e la neve intonsa abbaglia.

Non si tratta di un caso: la strega ha scelto con attenzione l’ora e il campo. Questa non è una caccia, ma un duello all’ultimo sangue.

Con il polso si deterge la fronte, cercando di non concedere la minima distrazione al proprio avversario e alle sue arti blasfeme. Circospetto, avanza verso il grumo di ombre che spicca nella radura. La luce fioca della luna trapela scomposta tra gli alberi magri e spogli, illuminando una forma ora riconoscibile.

Adamo fissa il cadavere ritorto di Abelardo deglutendo un sospiro che gli spezza in gola dolore aspro e spinoso. L’amico ha occhi sbarrati verso il nulla, il ventre squarciato e un braccio divelto di netto dalla spalla. Il moncone, che ancora impugna la crux, la lama benedetta nelle acque del Giordano, giace qualche passo più in là, come una cosa abbandonata e priva d’importanza.

L’odore ferroso del sangue mischiato al lezzo acre della magia impregna l’aria in modo rivoltante. Sottili volute di vapore si sollevano dal corpo esanime, che cede in fretta il proprio calore alla terra e ai vermi sognanti che la abitano.

Adamo si china, i sensi tesi a percepire qualsiasi indizio di un’imboscata che invece non arriva; con le dita abbassa le palpebre sul viso martoriato di Abelardo. Nel rictus della morte, le labbra paiono atteggiate a un sorriso sarcastico, un’espressione divertita che riporta indietro di mesi la memoria di Adamo, a quando la missione sacra è stata loro assegnata.

Alla locanda di cui non ricorda più il nome, al vino, alle risa.

A voti infranti.

E alla ragazza.

 

Citta-Senza-Fine.

Una delle cento taverne nei pressi del Concilio dei Santi. Odori di spezie, sudore, cibo caldo e fumo di lampade a olio. Musica e versi che strappano risate ai numerosi ospiti. Cameriere ammiccanti e giovani garzoni presi a male parole da oste e cuochi indaffarati.

Tuttavia, nonostante l’ora di punta, lo spazio intorno al loro tavolo è relativamente tranquillo. Nessuno ama sedersi troppo vicino a un mistico dei Santi. A loro tre non dispiace affatto, col tempo vi hanno fatto l’abitudine; anzi, va bene proprio così.

«Altro vino pretto, ragazza!» ordina Abelardo, scolando l’ultimo sorso dal proprio boccale.

Aulo scuote il capo.

Adamo ride. «Hai intenzione di infrangere tutti i nostri voti in una sola serata?»

Non sa ancora che, tra loro, sarà quello che si macchierà della colpa più grave. E, peggio ancora, non né proverà alcun rimorso.

«Hai davvero deciso di festeggiare in anticipo il nostro ultimo incarico?» domanda Aulo all’amico. «Di celebrare lo spoglio delle vesti e della crux anzitempo?»

La cameriera si china sul tavolo riempiendo i boccali fino all’orlo, senza curarsi di celare ciò che la scollatura esibisce con volgare generosità.

Abelardo ride.

«Il nostro ultimo incarico? Lo scioglimento dei voti? Siete entrambi più ingenui di quanto pensassi.» Mentre parla, la mano scende a carezzare il pomo della spada benedetta che gli cinge il fianco. Un gesto familiare, che fa arretrare la donna che li sta servendo, privandoli della sua procace, voluttuosa presenza.

Aulo non le bada, è abituato al timore che suscitano; appare solo perplesso dalle parole di Abelardo.

«Il Concilio ha vinto la battaglia contro il caos; l’Ordine benedetto del Carpentiere governa l’Ecumene. Abbiamo cacciato e giustiziato coloro che non hanno aderito all’Editto di Abiura per anni e, infine, abbiamo prevalso, come i Dodici avevano profetizzato. Non ci resta che occuparci delle ultime sacche di resistenza: la Vera Fede ha estirpato l’empia magia.»

Abelardo ride di nuovo, ma Adamo non scorge alcuna traccia di divertimento sul volto del compagno. La mano che stringe il pomolo solleva la guardia oltre il bordo del fodero, rivelando un palmo di lama benedetta. Il metallo vibra nell’angolo in cui siedono a desco, ricacciando indietro le ombre con il solo potere del Credo di cui è intarsiata la crux.

«Rinfodera!» grugnisce Aulo. «Vuoi scatenare il panico tra questi bifolchi?»

Abelardo obbedisce senza farsi pregare. Tracanna un altro sorso svuotando di nuovo il boccale, lasciando che il vino pretto coli in rivoli scomposti lungo la gola, inzaccherandogli le vesti.

«L’acciaio ha un solo scopo» sussurra senza guardare negli occhi nessuno di loro. «Dilaniare la carne e far scorrere il sangue. Cambierà solo ciò contro cui verremo aizzati. L’Ecumene è un gregge di pecore, e le pecore hanno bisogno di cani da guardia. I Santi non ci lasceranno rinunciare ai voti.»

«Sei ubriaco» dice Adamo, più brusco di quanto intenda.

Prova affetto per entrambi i suoi compagni, con i quali ha diviso vita, dolore, sacrificio e vittorie, ma non gli piace la piega che ha preso la conversazione. Avrebbero dovuto concedersi una serata di svago prima di impegnarsi nella missione cui il Concilio dei Santi li ha incaricati, invece si sente sempre più di malumore.

«Contro chi ci scaglieremo se abbiamo vinto tutti i nostri nemici?»

Abelardo li fissa, questa volta. La tristezza che lo divora spinge Adamo ad arretrare come se anch’egli temesse il potere intessuto nelle loro lame mistiche. Un balenio che subito scompare dietro l’espressione di nuovo irridente dell’amico, ma che le parole successive tradiscono comunque.

«Eretici, forse. Veri Fedeli contro infedeli. Cani buoni contro cani cattivi. Una spada è fatta per dividere, non per unire: persino il Carpentiere conveniva su questo, prima che la sua stessa gente lo lapidasse e bruciasse. Troveremo il modo per sbranarci a vicenda. Lo troviamo sempre. L’Ordine è una chimera per bambini e schiocchi.»

«Adamo ha ragione, hai bevuto troppo, Abelardo. Carne di venerdì, vino pretto… ti manca solo di giacere con una donna che non ti sia sposa e poi sarai davvero il prossimo sulla lista del Concilio.» Aulo ride, mentre pronuncia la sua tirata, ma senza alcuna vera allegria.

Abelardo si alza in piedi, quasi rovesciando la propria sedia. Sembra ubriaco sul serio. Sghignazza e impreca.

«Una donna? Il Concilio ci ha chiesto di cacciare una Strega; credo che basti, per quanto mi riguarda. Ho bevuto davvero troppo: non riuscirei a sfoderare nemmeno la spada che ho tra i calzoni…»

Aulo lo sorregge, impedendo che l’altro perda l’equilibrio e crolli a terra.

«Vieni, ti accompagno nella nostra stanza, prima che qualcuno degli astanti denunci al Concilio tre mistici brilli e scandalosamente incuranti dei voti.»

Adamo li osserva allontanarsi sovrappensiero, rimuginando suo malgrado sui deliri di Abelardo, così tanto che la voce lo fa sobbalzare.

«Sei rimasto solo? Desideri compagnia?»

La ragazza ha occhi limpidi, coronati da ciglia lunghe, truccate con antimonio nero e polvere di carbone. Zigomi esaltati da pigmenti di ocra rossa. Il viso è disegnato da tratti asimmetrici, strani ma affascinanti, che catturano occhio e cuore, ancor più della giovinezza che dimostra.

La sua richiesta titubante contrasta con il mestiere che pratica.

Ogni taverna, locanda o bettola che Adamo abbia mai visitato in precedenza, aveva merce di questo tipo da esibire, ma lui non ne è mai stato tentato in modo particolare, forse per pietà, forse solo per orgoglio. Questa volta è diverso, invece, senza che riesca a spiegarsene la ragione.

Annuisce, invitando la prostituta a farsi avanti.

Lei sorride, più convinta, meno intimorita dal suo ruolo di mistico, cacciatore e giustiziere dei Santi. È davvero giovane: ha ancora tutti i denti.

Lui si alza in piedi, come farebbe con una signora di ben più nobile lignaggio, ma la ragazza sembra fraintendere, scambiare il gesto per fretta.

«L’oste ha delle camere, di sopra, dove potrei intrattenervi senza che nessuno ci disturbi» sussurra, gli occhi sempre più grandi.

Adamo vorrebbe spiegarle che intendeva solo serbarle rispetto, ma in verità vi è un unico pensiero che si affanna nella sua mente: infrangere i voti. Chissà che ne penserebbe Abelardo… Scuote il capo, arrossendo nella luce tremula delle lampade a olio.

La ragazza abbassa gli occhi, come se intuisse di aver osato troppo, di non essere abbastanza per lui e forse aver offeso un uomo pericoloso.

Adamo si affretta a correggerla.

«Mostrami la strada» dice, prima di riuscire a trattenersi. Senza alcuna vera intenzione di farlo. L’unica brama che prova in quel momento è tutta per la giovane che gli sta di fronte.

Più tardi, mentre la notte tumultua nella piccola stanza che ha comprato per loro, la ragazza s’inarca offrendogli la vista di seni arroganti e rigogliosi che sussultano a ogni suo impeto di desiderio. Il viso è soffuso d’estasi, i denti mordono le labbra. Lunghi capelli neri danzano sulle spalle nude, confondendosi con le tenebre in un arabesco di luci, ombre e odori che ubriaca più del vino pretto servito al piano di sotto. Sospiri e gemiti sono il canto di un piacere che entrambi si donano a vicenda, senza vergogna, ansiosi solo di perdersi alla deriva. Abbagliati, consumati, sfrigolanti di tensione come nel cuore di un temporale.

Nel buio, l’acciaio della crux benedetta, abbandonata in un angolo, manda lampi feroci che scuotono la notte.

Entrambi soffocano un grido mordendo la carne dell’altro, abbracciandosi, stringendosi fino a che i respiri si quietano in un ritmo unisono, esausti e appagati. In pace con ogni stilla del Creato, almeno per pochi, struggenti istanti.

Quando Adamo si sveglia, al mattino, non vi è più traccia di lei. Solo il profumo della sua pelle e dei loro umori che impregnano le lenzuola, come ritrosi, seducenti fantasmi.

Neppure un nome da intessere di ricordi…

C’è una bellezza nel mondo che strappa le parole dalla gola di un uomo, le brucia e incenerisce e, di quel che resta, vi è ancora troppo per essere contenuto negli angusti confini della sua anima, riecheggiando per giorni fino a che la quotidianità non lo divora del tutto.

Eppure Adamo ha lottato per conservare almeno l’opaca memoria di quella bellezza. Ha lottato sotto la pioggia fredda, lungo il cammino del suo dovere, mentre affondava la crux nella carne empia delle ultime creature che ancora rifiutavano l’Editto di Abiura. Ha lottato contro i dubbi che le parole di Abelardo hanno insinuato nella sua stessa fede. Ha lottato fino a quando non sono giunti a stanare la strega in quella selva ostile e selvaggia che è il suo regno blasfemo.

Ha lottato, perché credeva che quella bellezza avrebbe avuto il potere di salvarlo da ogni male…

 

Ora crede di essersi sbagliato.

Forse sono stati i peccati di quella sera a condannarli.

O peggio, il fatto che Adamo non ne abbia mai provato rimorso. Il cadavere di Abelardo è un muto, implacabile testimone dei suoi timori e delle sue colpe.

L’acciaio della crux vibra attraverso le ossa, mentre spiana di nuovo la lama intarsiata come l’ago di una bussola puntato verso l’empietà. La spada canta, grida. La selva scheletrica sembra irriderlo, i rumori crepitanti del bosco lo confondono e il ricordo della ragazza è solo una fiammella che le tenebre sono sul punto di spegnere per sempre.

Adamo sospira, rivolge una preghiera da bambino al Carpentiere e poi torna a immergersi nell’intrico di rami, roccia e vegetazione rinsecchita, ammorbidita solo dalla neve che è tornata a cadere in fiocchi lenti e ipnotici.

Quando infine crede di essersi perso o di essere vittima di una delle tante malie con cui la strega ha incantato la foresta, le urla lo raggiungono, frastagliate, cariche di dolore e rabbia. Vicine.

Adamo corre, scivolando sulle foglie umide e la neve fresca; incespica, cade e si rialza, ansimando, e imprecando. Gli intarsi del Credo sfrigolano sulla lama, arroventando l’aria.

Quando sbuca nella seconda radura non scorge nulla, se non i segni scomposti di una lotta furibonda e sangue nero che trasuda dall’albero nodoso al centro dello spiazzo. I lamenti lo raggiungono qualche istante più tardi, ma gli occhi si rifiutano di cogliere la verità fino a quando la voce morente di Aulo non pronuncia parole vagamente comprensibili.

«A-iuuu-ta-iiiiii…»

L’occhio destro dell’amico sgrana attraverso la corteccia scabra e ritorta, fissandolo sconvolto. Il legno dell’albero lo stringe in un abbraccio fatale, spezzando le sue ossa, sbrecciandone la carne tesa e compressa all’inverosimile, mentre sangue, viscere e umori si confondono con la linfa resinosa del castagno in un succo rivoltante. Sorde esplosioni crepitano attraverso il legno. Ossa adunche fuoriescono dal fusto come rami candidi e tozzi. Il lezzo della magia è così aspro da far lacrimare.

«A-iuuu-ta-iiiiii…» ripete Aulo.

Schegge frastagliate gli si piantano nell’occhio azzurro e spalancato, facendolo esplodere come un frutto troppo maturo.

«Ciii-di-miiiiii…»

Le parole sono un rantolo agonizzante, penoso e terribile. Una delirante richiesta di grazia.

«Miiiiiiiii…»

Un conato di sangue, saliva e denti interrompe Aulo mentre il suo viso scompare inghiottito dalla morsa del legno.

Adamo non esita oltre, spinge la crux dove il petto del compagno ancora affiora tra nodi, nervature e rami. La magia sibila al contatto con la lama benedetta, il legno annerisce, l’amico muore. Il castagno si spacca dalle radici alla chioma, poi il silenzio torna a regnare pesante.

Per un breve istante.

Urla, Adamo. Un grido lancinante e furente che riecheggia per tutta la selva.

Sono stati i suoi peccati a dannarli, ora ne è più certo che mai.

La bellezza che per giorni, settimane, mesi, ha cercato di preservare nel duro terreno del proprio cuore, nient’altro che sciocca vanità. Eppure, della rosa che ha colto in una notte di libera vita, ancora avverte la dolorosa mancanza, l’assenza struggente.

Lacrime amare scivolano lungo le sue guance ispide, cadendo a terra, tra foglie, fango e neve.

Forse è maledetto: ha condannato tutti loro e ancora il rimorso tarda a venire.

Maledetto… eppure ancora con un compito da portare a termine.

Con fatica rialza il capo, estrae la crux dalla fenditura del castagno, brandendola di nuovo. L’acciaio sacro spande lampi corridori nella notte che si va consumando.

Oltre la radura sconvolta, tra la neve ancora candida, spiccano piccoli cespi di vivide rose spinose. Adamo fisse le pozze di rosso riconoscendole dopo qualche istante per quello che sono. Una magia residua, che trasforma il sangue versato in quello spettacolo affascinante, seducente. La strega è ferita, Aulo deve averle arrecato danno con la propria spada, forse colpendola a morte. Oppure si tratta di un ennesimo trucco, un incantamento per trarlo in inganno e finire l’ultimo degli sciocchi che il Concilio le ha messo alle calcagna.

Scuote il capo, non gli importa più molto di nulla.

Stringe la spada, recita l’ennesima preghiera, si sforza di dimenticare il volto della ragazza nella locanda. Anche quando si accorge di non riuscirvi, invece di esitare, s’incammina lungo il tortuoso sentiero indicato dal roseto.

Dritto verso il cuore oscuro del bosco.

 

Lei lo attende al centro della terza radura, avvolta in un mantello povero e scabro, celata dalle frastagliate ombre del panneggio. Siede su una roccia sporcata di muschio, appena spolverata dalla neve. Si comprime il fianco con la mano, come se davvero fosse sofferente. Rose rosse le fioriscono tutt’intorno, rigogliose, dai petali carnosi e pesanti. Dal terreno, arrampicano lungo le gambe nude, fino al suo grembo. Il profumo che spandono inebria, provoca vertigini.

Adamo alza la crux, la cui lama, ora, arroventa la notte che si disfa in crepuscolo.

La strega scoppia a ridere.

«Finalmente soli» lo provoca, ma vi è anche altro nella voce, qualcosa che Adamo fatica a interpretare. Magia, forse, ma di un tipo che gli sfugge. E dolore… Forse non è un trucco, forse Aulo l’ha davvero ferita, a morte, magari. Tuttavia deve restare cauto: anche una vipera agonizzante può mordere due volte. E lo farà, se le viene concessa l’occasione: è nella natura della serpe, farlo.

Ignorando la provocazione, brandisce la spada davanti a sé, muovendo un passo verso la donna, calpestando le rose che li dividono.

La strega sospira. Delusa. O affranta.

«Tutta questa fretta di uccidere, sterminare ciò che non comprendete» lo accusa. «Non ve ne stancate mai?»

Adamo impreca, la collera lo rende furente. E forse è proprio questo che la strega desidera.

«I cadaveri dei miei compagni condannano le tue stesse parole, strega!»

La donna scoppia in una nuova risata, carica di disprezzo e dileggio, questa volta.

«Accusi forse la volpe di volersi difendere dai cacciatori?»

«Vi è stata offerta l’abiura, e avete rifiutato.»

«Ah, e tu avresti accettato catene in cambio della libertà, invece!»

«Catene? Vi sarebbe bastato rinnegare l’empietà della magia e sareste stati risparmiati.»

«E tu rinunceresti al Credo come qualcosa di cui spogliarsi quando più ti fa comodo?»

Adamo scuote il capo. «Non ti salverai con la filosofia o con una lingua tagliente, strega. Il Concilio ti ha già giudicata. E condannata.»

La donna annuisce dentro il cappuccio.

«Il Concilio, sì, in cui riponi una fiducia più cieca che nel Carpentiere. Gli stessi che ti hanno imposto i voti di cui così tanto ti sei rammaricato questa notte.»

Adamo avvampa, poi alza di nuovo la crux di fronte a sé, costringendo la donna a schermarsi il viso con entrambe le braccia. «I tuoi sortilegi non mi danneranno più di quanto già non lo sia, strega. E non ti salveranno dall’acciaio benedetto.»

«Fede contro magia, ordine in favore del caos. È questo che ti hanno insegnato i tuoi Santi, mistico? E tu vi hai creduto, nonostante la verità di ogni giorno ti mostrasse il contrario? Non puoi separare la zizzania dal grano senza sprecare il raccolto: non sono queste le parole del tuo Carpentiere? Non puoi dividere il dolore dalla bellezza, senza rinunciare a entrambi. Forse potresti sopravvivere a una vita priva di sofferenza, ma non a un’esistenza spoglia di bellezza. Così stanno le cose, e non saranno la mia magia o la tua fede a cambiarle.»

Adamo scuote il capo di nuovo, sempre più confuso. La donna, però, non gli concede tregua.

«Fede, magia… è solo una lotta di potere, e chiunque la combatta, del potere si fa servo. Se devi impugnare la spada, almeno non farlo da cieco…»

La voce della strega si spezza su quest’ultimo ammonimento, come se le mancasse il respiro o qualcosa le stringesse la gola. Torna a comprimersi il fianco con la destra, poi alza la mano mancina, la mano dell’Ingannatore, verso Adamo, le dita tese nella sua direzione. È allora che il mantello le scivola all’indietro, lungo le spalle, spogliando il viso da ombre grottesche e contorte.

Prima che la magia lo investa, Adamo scatta in avanti, guidato dal semplice, limpido istinto del cacciatore. La crux vibra e sfrigola nel crepuscolo, ricacciando indietro la tenebra, evocando la luce chiara del giorno in soccorso.

Accade tutto in fretta. Troppo in fretta perché l’esitazione, l’incertezza, abbiano la meglio sui duri anni d’addestramento. Così veloce che nemmeno la rivelazione giunge in tempo a frenare la corsa della spada. Nessuna magia erompe dalle dita della strega ad arrestare l’acciaio, che penetra carne e ossa senza incontrare resistenza, affondandovi.

E lei, nonostante tutto, la strega, sorride.

«No…» dice Adamo, e poi lo ripete. «No, no, no…»

La ragazza ha occhi limpidi, coronati da ciglia lunghe, ma senza trucco, questa volta. Gli zigomi spiccano affilati contro il viso esangue, le labbra sono livide. Il viso è sempre disegnato da tratti asimmetrici, strani e affascinanti, che catturano occhio e cuore. Che fanno gridare Adamo come se la spada avesse sbrecciato la sua, di carne, fino all’anima.

«Non ti crucciare della morte che mi hai dato, io l’ho chiesta e tu hai solo posto fine alle mie sofferenze. I tuoi compagni avevano già fatto gran parte del lavoro» tenta di consolarlo lei, in un sussurro soffocato.

Lui riesce solo a ripetere quel no-no-no che è insieme preghiera e disperazione.

La ragazza bisbiglia ancora. Il groviglio di rose ai piedi della roccia si apre, rivelando un neonato avvolto in fasce, che li fissa con occhi ancor più grandi.

«L’ho sognata prima che nascesse. L’ho amata prima che nascesse» dice la giovane strega, come se questo spiegasse tutto. «Ho amato anche te, quella notte, nonostante quel che ci divide. Ma perché lei vivesse, avrei dovuto sacrificare me stessa, consegnarla a qualcuno che la proteggesse da chi le avrebbe dato la caccia…»

Un colpo di tosse e sangue le strangola in gola le ultime parole.

«Ti prenderai cura di nostra figlia?»

Adamo non ha nemmeno il tempo di risponderle. La guarda solo morire tra le proprie braccia.

In quel momento si sente tradito da ogni cosa, soprattutto da se stesso, e vorrebbe rimanere così per sempre, farsi pietra e cenere, ma la bambina inizia a piangere, scuotendo l’intera selva con i propri acuti strilli.

Allora lascia la donna che ha amato per una sola notte e il resto della vita, e si china a raccogliere la neonata dal suo giaciglio di rose.

La stringe al petto e, piangendo, le sussurra parole dimenticate, una nenia che la calmi fino a che non troverà del latte con cui sfamarla. Mentre la bambina si quieta, le mani strette in piccoli pugni caparbi, sua figlia sorride a occhi chiusi.

La crux torna ad ardere alle loro spalle, una magia innocente divampa entusiasta nella selva.

Gli alberi nudi si ricoprono di gemme.

Ciclamini, primule e bucaneve vincono il manto incolore della neve a migliaia.

Ovunque si spande un intenso profumo di rinnovata primavera.