PARLA COI MORTI 07

BRUNO

Avevamo superato il pesante cancello d’ingresso e mio padre mi conduceva lungo il muro di cinta, in cui erano infissi i loculi. Si fermò davanti ad uno che recava la foto di un giovane.

- L’ha perso il numero 3. Vedi, nella religione cristiana, in quella buddista e quella indù, il 3 rappresenta la perfezione e tre sono le lettere di Aum, il più potente mantra indiano che indica la manifestazione del divino. Ma, secondo me, quel numero può rappresentare anche qualcos’altro. La perfezione non può che essere immobile, fuori dal divenire, esente dallo spazio e, quindi, il 3 deve rappresentare anche la morte.

- Ma in che rapporto il nostro uomo era col 3?

- Aveva tre fidanzate.

- Beato lui!

- Non proprio, se poi sono la causa della tua morte.

- Una morte dolce.

- Ma non a 24anni.

- E come avvenne il disastro?

-Bruno, questo era il suo nome, aveva una prima fidanzata in paese: l’avresti detta una spagnola o una messicana a causa dei lunghi capelli neri e del colorito scuro. Ma erano le sue movenze, il suo modo di guardarti e di sorridere che ti affascinavano. Ma il mio omonimo sembrava non tenerla in gran conto e, di rado, lo si vedeva con lei. In realtà, una fanciulla così poteva bastarti per tutta la vita.

- Non mi pare che tu abbia messo in pratica un tal principio.

- Parlavo per gli altri, naturalmente.

- E la seconda?

- Viveva in un paese vicino. Bella, ma con gli occhiali e con sguardo e atteggiamenti che la facevano invecchiare, tale da sembrare piuttosto a una professoressa di matematica. Non credo che avesse molto fuoco nelle vene, ma potrei anche sbagliarmi; magari, poi, al momento buono, ti consumava. La terza era di Torino e non le avresti dato un soldo, talmente era piccola, insignificante nel muoversi e nel parlare; il sorriso, poi, non sovrastava quello di una comare di mezza età. Ma qui sta lo strano della faccenda: era proprio quella che lui preferiva. Una spiegazione ci potrebbe essere: da figlio di contadini, dava grande importanza allo studio e quella faceva proprio l’università. Ma questo è un modo troppo elementare d’interpretare la situazione, così si sta sempre in superficie, su quel che si vede e si tocca. Ci doveva essere dell’altro, ne sono sempre stato convinto.

- Vuoi vedere che, a forza di scavare, finiamo all’inferno?

- Infatti, è proprio lì che ti voglio portare. In effetti, fu proprio la terza a causare la sua morte ma, a guardar bene, molte cose erano già predisposte.

- Più ti sento e più mi confermo che hai sbagliato carriera. Col tuo talento dovevi fare l’indovino, magari a posteriori.

- Tu prendi tutto alla leggera, ma, se scruti il fondo delle cose, magari ne esce un significato. Guarda, per esempio: Bruno, coi primi soldi che gli dà il suo vecchio, si compera un’automobile. Fin lì, niente di male. Ma, se tu, a 24 anni, ti prendi una 500, accanto ai documenti necessari, ti consegnano un altro foglio.

- Quale, se è lecito?

- Quello per l’ospedale e, in caso forzato, quello per il cimitero. A lui, com’è evidente, hanno consegnato il secondo. Non c’è bisogno di stupirsi: guarda la 500. Non è più grande d’un canile e ha il motore dietro. Davanti, a ripararti, non hai che qualche lamiera e, in caso d’urto, non solo non puoi difenderti, ma il motore ti spezza la schiena. Con un’auto così, puoi fare qualche gita in campagna, su terreni che non ti permettano di superare i trenta chilometri all’ora. Ma quando gli dei ti vogliono perdere, allora cominciano a confonderti le idee; e così avvenne. Bruno, ogni sabato sera, invece di starsene con le belle che aveva a portata di mano, se ne andava fino a Torino a trovare la sbiadita. Tu dici che non c’era niente di predisposto? Invece, è proprio il contrario: tutto era già stabilito e da tempo. Quel sabato sera, verso le due di notte, Bruno era sulla via del ritorno: aveva già superato Chivasso e procedeva su una strada ampia e di nuova costruzione. Ormai mancavano pochi chilometri all’arrivo e avresti potuto dirlo in salvo. Ma non doveva andare in quel modo, perché, in direzione opposta, comparve un’automobile di grossa cilindrata; giunta a poca distanza, all’improvviso invase la corsia di Bruno. Il nostro giovane, a quel punto, aveva una sola chance: virare violentemente a destra e gettarsi fuori strada, costi quel che costi. Prese, invece, la decisione sbagliata e si limitò a spostarsi sulla pista ciclabile; i riflessi dovevano essere offuscati dall’ora tarda e dalle energie disperse nella serata. L’urto fu tremendo e disfece la 500. Si seppe, poi, che il conducente dell’altra auto non era nuovo a queste imprese: sempre in stato d’ubriachezza, aveva già provocato un altro disastro. Bruno, in qualche modo, fu portato all’ospedale più vicino, quello di Chivasso, e per lui fu una seconda condanna a morte. Infatti, con un’emorragia intestinale, occorrerebbe almeno un buon chirurgo, dotato d’esperienza in quel settore, e degli assistenti all’altezza. Ma, in quell’ospedale, quarantacinque anni fa, il chirurgo al sabato sera doveva essere in riviera e gli assistenti in qualche sala da ballo. Rimaneva il medico di guardia; dopo aver dato un’occhiata al ferito, convenne che la prudenza non era mai troppa e che il paziente ce la poteva fare fino al mattino: gli mise, dunque, qualche cerotto sulle escoriazioni più evidenti. La notte stava finendo e fu avvisato anche il padre di Bruno. Contrariamente al figlio, era di costituzione robusta, col viso scavato nella pietra e con una quantità di capelli che potevano servire per due. La moglie morì quando Bruno aveva solo due anni e il buon contadino non volle dare al figlio una matrigna e non si risposò più. Allevò il figlio da solo, pur dovendo badare alla campagna e alla stalla. Certo, quando andavo a mangiare da loro, piatti e bicchieri non erano splendenti al sole, né il ragazzo era troppo curato nell’abbigliamento. Ma il vecchio andò al sodo e, dopo aver preso le dovute informazioni dagli insegnanti, si mise una volta per tutte dell’idea che suo figlio avrebbe continuato gli studi fino alla laurea. Era lì che si dovevano spendere i soldi. E, quando lo incontravo, l’argomento era quello. Finché un giorno mi venne incontro, sorrise e mi disse “Lo sai che Bruno ieri si è laureato?”. Io gli appoggiai la mano sulla guancia “Pà, e come vuoi che non lo sappia?”. Io son dell’idea che tanto impegno, tanta dedizione, se c’è una giustizia, andrebbero ricompensati. E quell’uomo straordinario ebbe la sua ricompensa: portato all’ospedale fece appena in tempo a veder morire suo figlio. Al funerale partecipò tutto il paese e le tre fanciulle ebbero modo di prender coscienza della loro situazione. Due non la presero bene e non si fecero più vedere; la terza, quella di Torino, fu vista anche la domenica dopo al cimitero. Pensai che la faccenda non sarebbe andata per le lunghe; ma la fanciulla, la relazione con Bruno l’aveva presa tremendamente sul serio e, per più di due anni, ogni domenica gli faceva visita al camposanto. In poco tempo, i suoi capelli imbiancarono e, anni dopo, qualcuno mi disse che s’era sposata. Poi, non ne seppi più nulla.

- Eravate molto amici, tu e Bruno?

- Vedi, lui aveva cinque anni in meno e io lo consideravo un po’ il mio allievo, anche se poi devo dire che non gli ho insegnato un granché. Il fatto è che avevamo caratteri troppo differenti e, poi, è normale che l’allievo non abbia nessuna riconoscenza verso il maestro, soprattutto se questo si è prodigato per lui. Più gli sei debitore, più metti in pratica i suoi insegnamenti e meno sei disposto a riconoscere la tua dipendenza. E anche quando quello muore, tu continui a pensare che t’abbia insegnato ben poco e che, comunque, a quel poco ci saresti arrivato anche da solo. Ma, a un certo punto, avvenne un fatto che mise in ombra la nostra amicizia. Stavamo giocando a ping-pong e, per l’attribuzione di un punto, cominciammo ad alzare la voce. Io mi avvicinai a lui, con l’intenzione di discutere, ma Bruno, all’improvviso e senza una motivazione apparente, mi sferrò un pugno sul viso. Barcollai per un istante, poi mi ripresi e per lui sarebbe finita male, se non m’avessero trattenuto gli amici. Da quel momento l’amicizia non finì, ma ci frequentammo di meno.

A questo punto, il mio vecchio si volse alla foto di Bruno, ci pensò un istante, poi, di colpo mi domandò:

- Che dici? Lo vedi anche tu che mi guarda male o no? Bene, digli che se vuole fare il furbo e se stanotte pensa di venirmi a tirare per i piedi, io quel pugno a tradimento non l’ho dimenticato! Ho rispetto per i morti, ma digli di stare in campana! – e il mio vecchio accompagnò le parole con un gesto minaccioso nell’aria.

Faceva un po’ di teatro o faceva sul serio? Qualche volta non lo capivo neppure io.

(7 – continua)

Bruno Vacchino