PARLA COI MORTI 02

LO ZINGARO

Intanto, mio padre s’era fermato davanti a una porticina tagliata nella pietra.

- Qui, una volta, c’era la cella campanaria, angusta e molto alta. Da un foro nel soffitto pendeva una grossa corda con un nodo all’estremità inferiore, l’altro estremo era legato alle campane; l’addetto si appendeva alla corda, col suo peso la trascinava in basso, poi la lasciava risalire verso il foro, in modo alternato. Così facendo, smuoveva le campane. Ci fu un periodo in cui il campanaro era un forestiero; lo chiamavano “lo zingaro”, forse per il colorito scuro o per quel cappello a larghe tese che non toglieva neppure quando c’era la neve o forse perché non parlava con nessuno. A mio parere, dal suo accento, con gli zingari aveva nulla da spartire e doveva venire dalle colline del Monferrato. Comunque, di soldi non doveva averne e nella misera casetta ai bordi del paese, di buono, oltre al letto e a un tavolo, aveva solo un pianoforte di qualità, acquistato chissà dove. Io non lo sentii mai suonare e i suoi vicini erano troppo ignoranti per dirmi come suonava.

Quando lo incontravo, lo guardavo fisso in volto: avrei voluto salutarlo e parlare con lui, ma lo zingaro mi guardava con aria tranquilla, mi pare che accennasse un mezzo sorriso e andava oltre.

- Perché poi lo volevi conoscere?

- Perché avrebbe potuto insegnarmi alcune cose.

- E da cosa lo deducevi?

- Vedi, senza vanterie, ma io per certe persone ho un sesto senso e, dopo un po’ che lo vedevo, intuii che doveva saperla lunga, no, dico di più: lui doveva avere dei legami speciali coi gufi e i barbagianni.

- Ma guarda dove andiamo a finire.

- La faccenda è cominciata una sera, quando, passando vicino alle chiese, di luce allora ce n’era poca, alzai gli occhi e, improvvisamente, in alto vidi librarsi dal campanile un uccello dalle ali enormi. Io non voglio insistere e ognuno ha i suoi gusti, ma se non hai mai visto in azione nella notte un gufo reale, allora hai visto poco. Un leone, un elefante, checché si dica, sono poca cosa: animali belli fin che si vuole, ma con scarso significato.

- E i gufi e gli allocchi, invece?

- Ma quelli vivono nel profondo, nella notte, e seguono tutt’altre leggi. Io sono sempre stato convinto che siano emissari del mondo sotterraneo.

- Vuoi dire dell’inferno.

- Qualcosa che gli assomiglia, ma senza diavoli e torture varie. Vedi, un gufo reale non accetterebbe mai di essere comandato, neppure da un diavolo, e, se lo imprigioni, preferisce morire. Questa io la chiamo dignità. Ma per capire il loro fascino, bisogna essere portati, avere inclinazione per certi domini. Cosa sa la gente di loro? Che nel giro di molte centinaia di metri dal campanile, spariscono gatti, topi e lucertole. Ma questo non è niente.

- Ma, scusa, ci sono pure dei libri sui rapaci notturni.

-Tu fingi di non capire. Sapere come mangiano o come dormono, non significa nulla. Così non vai nel profondo delle cose, non penetri il loro significato.

- E il tuo zingaro t’avrebbe aiutato?

- Questa era la mia intuizione, che lui m’avrebbe introdotto in quel mondo nascosto, estraneo alla luce del giorno. Comunque, la faccenda non ebbe seguito e, poco tempo dopo, il campanaro, com’era venuto, così se ne andò.

Mio padre guardò ancora la porticina.

- Questo posto ha anche un altro significato per me. Tanti anni fa, dovevo avere non più di dodici anni, passavo di qui ed entrai nella cella. Lo zingaro doveva essersi assentato per qualche motivo improvviso, lasciando la porta socchiusa. A causa dell’interesse che avevo per quell’uomo, ormai m’ero messo in testa che, da grande, avrei fatto il campanaro. Così, tanto per cominciare, diedi un’occhiata all’ambiente e fui dell’idea che, per suonare le campane, un’occasione come quella non mi sarebbe più capitata. Mi appesi alla corda con due mani e all’istante fui risucchiato verso il soffitto. Coi riflessi che mi ritrovo adesso, non sarei più qui a contartela; invece, allora, una frazione di secondo prima di sfasciarmi la testa contro la volta, abbandonai la presa e caddi pesantemente sul pavimento. Le campane avevano cominciato a suonare, lo zingaro rientrò trafelato e, senza rimproverarmi, mi sollevò come una piuma, mi fece un mezzo sorriso come quando mi incontrava per strada e mi accompagnò fuori.

- Ma, a parte i gufi, come mai ammiravi il forestiero?

- Son sicuro che tu non hai mai sentito suonare le campane.

- E come no?

- Ma non nel modo in cui le suonava lui. Se c’era un funerale, lui, come si conviene, avvisava la gente un’ora prima. Ma era durante il funerale che le cose cambiavano. Si poteva portare al cimitero anche uno di poco conto, anche una donnetta vissuta settant’anni nell’ombra, ma tu, mentre seguivi, ti sentivi venire addosso un’ondata di suoni scuri. No, quello non era un compianto funebre; era una grandiosa, pessimistica meditazione sulla sorte degli uomini.

Il vecchio alzò gli occhi verso il campanile, poi riguardò la porticina.

- Quella della corda, comunque, fu la seconda volta in cui ebbi la possibilità di non approdare alla vecchiaia.

- A soli dodici anni, avevi già corso altri rischi?

- Ma certo e, come me, tutti i miei compagni. E non tutti l’hanno scampata. Questione di fortuna; oppure da tempo era già stato deciso in questo modo. Dovevo avere non più di quattro anni e mia madre e mia nonna per qualche motivo fecero visita alla vicina e io con loro. Sai bene come passano il tempo le donne, quando sono più d’una. Io, non essendo particolarmente attratto dal loro conversare, misi l’occhio su un gruppo d’oche che, dal giardino, si muovevano in una direzione a me sconosciuta. Sarà fiato sprecato dirti che le due sventate non si accorsero minimamente che il fanciullo aveva lasciato il cortile. Le oche, di buon umore, andavano verso la roggia che lambiva l’orto della vicina. Ora, il corso d’acqua non misurava più di quattro metri di larghezza e non era profondo più d’un metro e mezzo, ma la corrente lo rendeva insidioso, di modo che più d’uno aveva chiuso lì la sua esistenza. Le oche entrarono in acqua ed io, per non essere da meno, le seguii, ma, senza ancora che avessi toccato l’acqua, scivolai sulla fanghiglia e precipitai nella roggia. Ora, proprio in quel punto erano infissi dei pali di legno su cui le donne appoggiavano il loro asse per lavare i panni. Mi aggrappai a uno di quei pali e cominciai a gridare; dovevo avere una buona voce, perché le donne mi udirono dal cortile e, urlando più forte di me, mi trassero dall’acqua. Dopodiché mi rimproverarono a dovere. Fu da allora che cominciai a perdere fiducia nelle donne e mi feci dell’idea che se c’era qualcuno a cui non affidare la salute o l’educazione di un bambino, ebbene, quella è proprio una donna.

- Se ho ben capito, le donne van bene solo in cucina?

- Ma anche lì è tutto da vedere. Se tu vai in un grande ristorante, che ne so, a Venezia, Parigi o San Pietroburgo, cosa ti aspetti, che i grandi chefs siano donne? O che a fare grande la cucina italiana, francese o cinese siano state le donne? Vanno bene a casa nostra, ci mancherebbe altro. Ma una volta che han imparato quei quattro piatti, il menu non cambia più. Sarà anche buono, ma è sempre quello. Da mia madre ho mangiato per quarant’anni e gli spaghetti erano sempre alla bolognese, la bistecca alla milanese e lo spezzatino con le patate. Con tua madre la musica non è cambiata un granché. Il fatto è che la grande cucina richiede un’esperienza del mondo e le donne non ce l’hanno.

- Si salvano in qualche campo?

- In molti. Io, per esempio, sono un grande estimatore delle donne.

- A vederti così, non si direbbe, ma aspetto con ansia di essere illuminato.

- Ma senza andare lontano, proprio qui, a pochi metri, feci uno dei più grandi incontri della mia vita.

(2 – continua)

Bruno Vacchino