III TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: III CLASSIFICATO

… ET PER SILENTIUM, PAX

di LUDICI SCRIPTORES

«Non andate», disse l’oste. «Il crepuscolo arriva presto in queste terre. Restate qui per la notte. Potete dormire nella stalla se non volete pagare una camera»

Paura e curiosità nella sua voce. Non passavano molti viaggiatori in quelle terre desolate, lontane dai percorsi del commercio e della fede. Ed ora, quei due: un uomo di età indecifrabile, magro e scavato, dagli occhi che bruciavano di una strana febbre. In principio l’oste l’aveva preso per un Inquisitore di Polaris, ma poi a osservarlo meglio si era accorto che non portava le sacre insegne. Lei una ragazza piuttosto giovane, lo sguardo fisso, quasi inebetito, distante dal mondo.

«È ancora giorno…», osservò l’uomo sellando il cavallo.

«Ma arriverete là al tramonto», obbiettò con una smorfia l’oste. «Nessuno va tra le Colline del Silenzio quando scende la sera, signore. Ogni collina un tumulo, ogni tumulo una tomba»

«E quindi che pericoli corriamo?», ribatté freddo il viandante mentre faceva segno alla ragazza di montare in sella. «Se sono già tutti morti…»

L’oste scosse la testa e rientrò nella locanda. Peggio per loro, li aveva avvertiti.

«Silenzio, sì… silenzio» ansimò la ragazza, guardando con desiderio misto a ansia l’orizzonte verso il quale si stavano avviando.

Paura. Respiro. Paura. Respiro.

Le emozioni di Clelia si dilatavano; diventavano immense, quasi insopportabili.

Le sue notti erano fatte di sogni che si tramutavano in incubi, di ricordi che non le appartenevano, di apparenze che diventavano reali, di aliti notturni sul suo viso pallido: di fatto non era mai stata sola. Non era una riflessione che la consolava, quella, anzi, era la fonte di ogni suo tormento.

La notte la accoglieva piena di quei sussurri che le erano così familiari da essere quasi una vena di follia nata con lei. Li conosceva tutti, uno ad uno, anche se erano dei perfetti sconosciuti. Quelle voci, quella perpetua molestia dell’anima, quell’inspiegabile scia di notturna tenebra che si portava dentro come una maledizione, era la perenne afflizione cui era condannata, fastidio che a volte si faceva irrisolvibile.

Eccole. Le voci.

Clelia rabbrividì e quasi perse la presa sulle redini quando accadde. Puntuali come sempre al calare del sole, una litania di voci che reclamava sangue e vendetta.

Il Vecchio e i Giovani, come li aveva soprannominati, le riempivano la testa di odio, dolore e follia, mai in parti uguali. Quella sera erano eccitati, come comprendessero che la meta era finalmente vicina.

Ad Yngvar non sfuggì il sussulto della ragazza e sul suo volto si dipinse un’espressione di disgusto. Da tempo aveva perso ogni pietà per quell’empia creatura. Aveva deciso di non denunciarla agli Inquisitori non per risparmiarle il rogo, ma solo perché voleva scacciare egli stesso gli spettri immondi che le rodevano il cervello dannandole l’anima. L’avrebbe redenta, a costo di versarne fino all’ultima goccia di sangue.

Esaltato da questa visione di purificazione, si accorse di aver raggiunto le Colline del Silenzio. Tirò le redini, voltandosi verso la giovane che cavalcava mesta al suo fianco.

«Avanti, fatti dire qual è la strada, Clelia», l’apostrofò secco.

Eppure non proferì parola, la ragazza, non più di uno sguardo stralunato lambì il tetro accompagnatore, che pure vi lesse una scintilla di volontà imperante quale mai aveva visto albergare negli occhi di lei. Una determinazione sconosciuta alla giovane sventurata, una forza magnetica capace di risvegliare un’improvvisa frenesia, che la spinse a spronare al galoppo la quieta giumenta verso il buio, fra spinosi arbusti ed enormi massi, e contorti olivi che miseramente ornavano le anonime masse dei colli.

Nessuno spazio per l’esitazione. L’uomo imprecando lanciò il destriero sulla scia di Clelia, per evitare di perdere il contatto visivo nella notte vegliata soltanto da fredde stelle. Ovunque la luna si celasse, rifiutava di assistere col suo sguardo argenteo alla redenzione della fanciulla posseduta.

Non era differente da numerose altre la collina che, infine fu chiaro, al termine della galoppata Clelia aveva scelto come propria meta. Scivolando da cavallo più che arrestandosi si portò dinanzi a ad una tozza struttura, una sorta di cappella in blocchi di basalto che emergeva dal terreno brullo. L’uomo studiò con attenzione il circondario, come se attendesse minacce incombenti, senza degnare d’aiuto la fanciulla che si rialzava gemendo.

«Siamo dunque al confronto, finalmente»

Furono parole indirizzate più a sé stesso che a quel macabro nulla che li circondava e li affogava. Immobile, ora Yngvar fissava Clelia.

L’uomo voleva sapere molto più di quanto la stessa ragazza riuscisse ad immaginare di tutta quella vicenda. Se mai qualcosa, poi, ella effettivamente comprendesse. D’altra parte erano stati condotti sin lì non dal raziocinio di lei, ma dalle immonde ombre che avevano deciso di vivere in Clelia. Anzi, vivere di Clelia.

Confronto? Quale era il confronto – o forse lo scontro? – che egli stava cercando in quel luogo?

Egli avrebbe potuto uccidere, avrebbe potuto far bruciare, avrebbe potuto seviziare, avrebbe potuto lenire ogni dolore, avrebbe potuto semplicemente far vivere. Invece? Invece aveva deciso di veleggiare in un’esistenza che ormai non era né morte e né vita.

Quando aveva incontrato Clelia si erano scatenati dentro di sé dei pensieri  mai conosciuti in precedenza. Non gli era bastato il giusto dovere di liberarla da quella possessione, scacciare gli spiriti che con empia magia si erano impossessati di lei, come ogni Inquisitore del suo Ordine avrebbe fatto. Aveva desiderato di più. Aveva voluto conoscere la causa di quella immonda condanna, capirne il motivo, i mezzi. Non aveva voluto fermarsi sulla soglia della purificazione, aveva voluto la conoscenza, la verità, anche sapendo che non c’è verità che non si acquisiti pagando un alto prezzo. 

Perché proprio quella ragazza? Perché lui? Si era convinto che quell’incontro non era stato voluto dal caso. C’era un disegno per lui che univa le voci, la notte, il rogo, il dolore ed ancora la notte, gli incubi, la verità, la verità, la verità.

L’uomo distolse lo sguardo dalla ragazza, strappandosi alla fascinazione che ella suo malgrado gli ispirava e la trascinò con poca grazia dinanzi a quella che sembrava l’entrata del tumulo. Trasse poi da sotto le vesti un pezzetto di pergamena ripiegato più volte e lo aprì. Simboli magici che i suoi occhi non avrebbero neppure dovuto guardare, poiché la magia arcana era empia nel suo mondo e lui era, o era stato, uno dei custodi preposti a sorvegliarla, un Inquisitore dell’Ordine del Guanto Bianco.

Poteva fidarsi? Quante volte se l’era chiesto. E se il mago a cui aveva strappato con la tortura quella conoscenza avesse mentito? Il sangue che macchiava quei segni tremanti e incerti gridava ancora con muta rabbia dalla superficie sporca della pergamena.

Non si lasciò trasportare da quei pensieri e con uno stiletto d’argento riprodusse invece accuratamente i segni sul terreno attorno a sé e alla ragazza. Quando il pentacolo fu ultimato, attirò brutalmente a sé Clelia e la colpì. Un lampo di paura accese gli occhi della fanciulla, poi il mugolio di dolore, ed il sangue di lei, colando dalla ferita appena aperta nel palmo, fluì in fretta, come risucchiato dal nero terreno che l’assorbì tutto.

Un fremito affamato e ferocemente gioioso si diffuse nell’aria scura. Voci, indefinibili moltitudini di spiriti urlavano il proprio dolore di non essere potute divenire cenere. Tra quelle voci pian piano cominciarono a distinguersi sette urla strazianti.

Clelia aprì gli occhi di scatto.

«Vengono»

Lo sguardo di Yngvar si accese, una febbre che per chiunque altro non sarebbe poi stata tanto diversa dalla pazzia che egli dava per certa e incontrollabile in gente come Clelia. Forse in quel momento per la prima volta si rese conto che il legame con lei andava oltre loro stessi, oltre i corpi, oltre i sentimenti, oltre le sembianze in cui erano rinchiusi. Lui voleva vedere, sapere, toccare con mano e quella femmina impura, contaminata da quel male inspiegabile, era la via. Poi c’era la Fede. Lui aveva camminato dentro la Fede, con lo spirito disadorno di qualunque raziocinio, senza conoscere altra verità se non quella proclamata. Non aveva mai fatto niente, in vita sua, per mettere in dubbio che quella fosse la strada giusta, un destino di giustizia, quella di Belissius. Gente come Cl elia non aveva che uno scopo nell’esistere: essere l’ombra che poteva dare forma alla luce.

«Le voci sono forti, forse… la notte è troppo fitta. L’oste non aveva torto, io, ora…»

Clelia alzò gli occhi, cercando il volto di lui, trovando il nulla. Seguì una scia di sensazioni senza nome e ritrovò Yngvar nonostante il buio. Clelia la conosceva bene quella figura severa,  inginocchiata a scrutare quell’orda famelica che con voce assordante divorava il silenzio. Non era distante, accostato all’ingresso, corpo teso, movimento trattenuto nelle gambe piegate, una sfera azzurrina tra le mani. Lui era là, falena che nella follia del volo, sperimentava ogni direzione dei danzanti bagliori, attrazione intensa e inspiegabile. Sembrava volesse entrare, ignorando in quel momento che fosse lei il centro del mistero.

Si mosse: rumore di foglie secche, odore d’umida putredine, ma forse era solo la sua immaginazione. Si fermò accanto a lui, dilatando i sensi per essere pronta a tutto.

E finalmente li vide. Sette spettri per sette voci che le avevano riempito la mente per anni. Con sorpresa e consuetudine li incontrava per la prima volta e per l’ennesima.

Tese le mani davanti a sé, nel duplice gesto di chi si prepara a difendersi o invita ad un abbraccio.

***

Polaris, la Magnificente.

La più venerata tra le grandi capitali non era luogo dove si potesse profanare il sacro senza ricevere condanne. Le strade affollate della città non erano però così pulite e innocenti quanto la consueta propaganda dei chierici voleva dare ad intendere, del resto l’uso delle parole era da sempre un modo come un altro per controllare la mente, l’agire, il sentire di coloro che su camminavano  su selciati e vie considerate inviolabili. A volte i consacrati si fermavano al dire, altre volte, valicavano di parecchio le minacce, andando a maledire quello che la vita aveva concesso e in genere erano inquisitori, severi, ardenti devoti o semplici persecutori cui la legge dava agio e modo di agire sen za quasi porre veto, ma c’era anche chi il lavoro di inquisitore lo faceva con l’intento di redimere anime peccatrici.

Yngvar e Clelia avevano attraversato in fretta quelle strade pavimentate di purezza, quasi le stesse pietre bruciassero come promessa di rogo per le loro anime perdute.

Ciò che era accaduto poche notti prima al cospetto dei sette spettri evocati con l’empio rito si era inciso, con una violenza inaudita, nella memoria di entrambi. Ma, loro malgrado, quel che doveva esser una fine si era trasformato in un inizio ben peggiore.

Le parole degli spettri erano state sì rivelatrici del mistero delle voci nella testa di Clelia, ma anche condanna, perché la strada per la salvezza poteva esser raggiunta soltanto con le mani sporche di sangue.

Non v’era altro pensiero, per i due dannati. Clelia era divenuta un essere colmo di un’inarrestabile follia omicida. Yngvar si era scoperto burattino di sé stesso. Egli, dall’esterno, si osservava agire e pensare, senza poter fermare le sue azioni e senza poter cambiare i suoi desideri. Chi era tra i due il più folle?

Ora, in possesso dell’arcana sfera di cristallo in cui erano confluiti i sette spettri vendicatori, si trovavano nascosti nell’ombra, in attesa di compiere ciò che nessuno in tutto il Pentacolo si sarebbe mai permesso di fare: uccidere, nel dolore, uno dei più importanti Inquisitori di Polaris.

Ed oltre quel sangue v’era la maledizione che il magico artefatto portava con sé.

Macchie di sole sulle foglie nell’intrico di rami che osava aggrapparsi alle steli dell’antico colonnato. I passi di Araan, Sommo Giudice Inquisitore del Guanto Bianco, entravano nel silenzio. I suoi occhi chiari, feriti da un impavido raggio di sole, si chiusero un istante, mentre si fermava davanti ad uno degli ingressi che dal chiostro conducevano agli appartamenti dei funzionari di più alto rango.

Non d’età, ma nemmeno giovane, di spalle ampie, ma non imponente, sguardo gelido, ma non arrogante. Chi ne incontrava l’ombra già salutava, perché v’era rispetto per lui. Aveva salvato  anime; aveva condannato anime. Non temeva la vendetta, almeno, non quella dei viventi. Faide non se ne potevano accendere contro uno come lui perché rappresentava la legge, perché difendeva la sacralità dell’antica fede.

Alzò la testa, osservando la scalinata che saliva ormai da anni per raggiungere il suo angusto studio. La porta era socchiusa. Non vi fece caso, probabilmente uno dei servi aveva sistemato le piante, raccolto le foglie secche, lustrato gli scaffali. Appoggiò la mano al legno della porta, l’anello con il sigillo simbolo della sua carica scintillò in una sottile lama di luce.

Era fiero della porpora del suo mantello e di quell’anello. Ogni volta che tornava in quel posto l’orgoglio e l’emozione lo accarezzavano, quasi non potesse davvero mai abituarsi all’idea di essere un Sommo Giudice Inquisitore.

Clelia ne riconobbe il passo ancor prima che egli aprisse la porta. Non si stupì di riconoscere un uomo che non aveva mai visto. Non era noto a lei, ma familiare a coloro che avevano abitato la sua mente da tanti anni. Più che familiare, intimo. Intimo come può esserlo chi conosce il tuo sangue per averlo versato a tradimento, a cui sei legato dal più intenso dei sentimenti, l’odio.

Non si sorprese neppure di provare ella stessa il medesimo odio. Ora conosceva il legame tra lei e le voci: lei, frutto di un amplesso fugace e servile, plebea sorella e figlia di nobili; lei, una serva, ultima nella linea di quel sangue nobile e antico. Ora capiva le voci, le richieste incessanti di quegli anni disperati. Vendetta, figlia! Vendetta, sorella!

Sorrise, nascosta nell’ombra della stanza quieta. Sì, vendetta sarebbe venuta attraverso di lei. Avrebbe pagato il prezzo del sangue, sanato il debito. Toccava a lei, era il dovere di una figlia. E poi sarebbero stati pace e silenzio.

Sorrideva anche Yngvar. Anche lui stava per avere la vendetta desiderata. Vendetta per i lunghi anni passati nell’ombra del Giudice, per il rango strappato ingiustamente. Quante volte in quello stesso studio avevano discusso: Araan rimproverandogli il legame ambiguo con quella fanciulla, Yngvar, anch’egli Inquisitore ma di minor rango, difendendosi e giustificandosi con la Fede, con il dovere di liberarla dagli spettri che la possedevano.

Poi, tutto era precipitato. Il Giudice aveva comandato il rogo, Yngvar aveva rifiutato di porvi la fanciulla. Perché, non avrebbe ancora saputo dirlo. E il Giudice aveva disposto la sua espulsione dall’Ordine, la fustigazione pubblica, l’esilio.

Ma ora avrebbe pagato caro. Avrebbe pagato tutto.

La porta si aprì e Araan entrò deciso nello studio, chiudendola rumorosamente con una spinta.

Immerso nel ripasso delle incombenze giornaliere, non si accorse subito della giovane donna in piedi di fronte alla scrivania, che lo attendeva con sguardo spiritato. Quando si rese conto di non essere solo, era già troppo tardi.

«Chi siete? Come avete fatto ad entrare?»

Clelia balzò verso di lui impugnando un lungo pugnale. Certo lei non aveva esperienza di combattimento, ma era giovane e veloce ed il suo movimento fu guidato da chi, in vita, aveva affrontato più di uno scontro corpo a corpo.

Araan si rese conto della minaccia e ruotò sul fianco destro, lasciando scivolare via innocuo  l’affondo delle ragazza. Al contempo cercò di bloccarle il braccio che impugnava la lama, ma Clelia fu lesta a scansarlo e, scartando di lato, andò a segno conficcandogli la lama nel fianco scoperto.

Il Giudice ansimò all’impatto della lama contro il corpetto di cuoio che lo salvò dal letale affondo. Non si raggiungono i vertici del comando senza farsi nemici per strada, e Araan non era mai stato uno sciocco imprudente. Approfittando dell’arma momentaneamente bloccata, fece scattare il braccio verso il basso con violenza cozzando contro l’avambraccio di Clelia, che perse la presa sul pugnale. Prese fiato per chiamare le guardie, ma non poté farlo perché proprio in quel momento qualcosa di duro lo colpì dolorosamente in testa mandandolo a terra con un gemito.

Yngvar lo guardò cadere soddisfatto, la mano stretta su un pesante candelabro d’argento. Clelia spostava lo sguardo da uno all’altro, come incapace di comprendere appieno ciò che era appena successo.

«Brava, l’hai distratto a dovere!», si chinò sul corpo esanime del giudice e gli posò due dita sul collo, cercando di evitare il contatto col sangue che colava appiccicoso tra i capelli.

«È morto? », singhiozzò la ragazza con uno strano tono disperato.

«No, dannazione! E’ ancora vivo. Dobbiamo finirlo oppure …», la sua voce assunse un tono teso. «Lo sai…»

Posò il candelabro e tirò fuori la sfera dalla sacca che portava a tracolla.

Il volto di Clelia si piegò in un contorto sorriso misto di sollievo e ferocia. Si precipitò accanto al Giudice esanime spingendo via Yngvar con forza inaspettata, mentre la sfera cominciava a tremare di energia a stento trattenuta e pulsare di una luce scura e arcana. Yngvar dovette stringerla con entrambe le mani per impedire che gli sfuggisse, reprimendo il disgusto per quell’oggetto empio, ricettacolo di spettri, che un uomo di fede non avrebbe mai dovuto neppure sfiorare.

La mano di Clelia si mosse in modo innaturale, come quella di un burattino appeso a un filo. Raggiunse il pugnale che giaceva poco lontano, lo impugnò con forza, lo sollevò sopra la testa.

«Per lo scempio di questa famiglia, perpetrato per brama di potere e ammantato di false accuse di tradimento…». Le parole fluivano dalla bocca di Clelia, ma la voce non era la sua. Era quella di un triste coro funebre, una litania di sette voci risonanti nella comune nota di una rabbia antica. «Per queste vite innocenti, spezzate in cambio di terre, ricchezze, possessi che non ti spettavano…». La ragazza impugnò il coltello con entrambe le mani per esercitare più forza nel colpo finale. «Offrirai il prezzo del sangue a chi deve esigerlo, e con esso saranno pagati pace e silenzio»

La ragazza abbatté il pugnale sulla gola scoperta del Giudice.

Il colpo inferto da Clelia fu l’ultimo atto cui i tre poterono assistere in quella loro vita, pura nella sua incosciente follia, ma segnata da un atroce filo comune.

E’ forse possibile che un gesto, uno, uno soltanto, compiuto da una singola persona possa, in un istante, mettere contemporaneamente fine a tre vite? E’ mai possibile che quel medesimo gesto sia al contempo la genesi di una nuova esistenza?

La sfera tra le mani di Yngvar aveva accompagnato il movimento assassino del braccio di Clelia aumentando in maniera smisurata il vigore della sua vibrazione tra le mani dell’uomo. Quando la lama aveva trafitto l’odiata figura dell’Inquisitore il potere e la maledizione serbati nella sfera si erano scatenati in una silenziosa esplosione che si era spenta risucchiando ogni sospiro ed ogni carne.

Clelia, ancora scossa dall’onda d’urto che l’aveva schiacciata a terra si risollevò faticosamente e aprì gli occhi giusto in tempo per vedere una nube biancastra fuoriuscire dalla sfera rotolata sul pavimento. Per un attimo le sembrò di scorgere in essa dei volti, familiari eppure estranei. Una sensazione di pace si diffuse in lei, insieme alla consapevolezza che finalmente giustizia era fatta e che i suoi parenti, trucidati a causa della cupidigia di Araan, potevano finalmente riposare in pace.

La giovane si chinò per raccogliere la sfera, un anello che non aveva mai posseduto scintillò sulla sua mano. Lanciò un urlo di terrore e cadde in ginocchio.

Anche Yngvar si rialzò faticosamente da terra e vide la nube biancastra uscire dalla sfera e disperdersi nell’aria. Si stupì un poco che ciò lo facesse sentire così bene, finalmente sereno come non lo era più stato da anni. Provò l’impulso di raccogliere la sfera da terra, un anello che aveva sempre desiderato scintillò sulla sua mano. In quell’istante sentì la sua bocca aprirsi per lasciar uscire un grido di puro orrore e cadde in ginocchio.

Araan urlò con quanto fiato aveva in gola mentre, senza volerlo, protendeva verso la sfera la mano su cui l’anello scintillava ancora orgogliosamente. Cadde in ginocchio e tentò di raccogliere pensieri, che gli sembravano al contempo suoi e non suoi.

«Perché ho le mani di un uomo?»

«Indosso l’anello, sono il Sommo Giudice Inquisitore del Guanto Bianco!»

«Mi hanno pugnalato. Sono morto. Allora come è possibile…?»

«Cosa sta succedendo?»

«Benedetto Anar, fa che sia solo un terribile incubo!»

«Di chi sono queste voci nella mia testa?»

Maledetto è chi non riesce a discernere il bene dal male, maledetto sarà chi nell’innocenza diviene carnefice.

Nella stanza di Araan rimase il solo corpo del Giudice, vivo ed integro. Ma nel suo spirito e nei suoi pensieri avrebbero convissuto per sempre anche le due anime di Clelia e di Yngvar.

Vuota, una sfera trasparente rotolò silenziosa sul pavimento nell’angusta penombra dello studio ed infine si fermò, in pace. 

I Ludici Scriptores sono: Barbara Boella, Daniele Benaglia, Francesca Garello, Vania Russo ed Emiliano Vitelli