LA RAGAZZA SUL MAGGIOLONE GIALLO 01

Strella è una frazione di un centinaio di anime, che galleggia come un isolotto tra le risaie della Pianura Padana. I paesi che, di notte, le ruotano attorno come malinconiche meduse, non sono altro che luci lontane, inarrivabili.

Un giorno, fa il suo ingresso a Strella una ragazza su un maggiolone giallo. Portando con sé il profumo di una vita al di fuori della piccola realtà, la forestiera incrinerà gli equilibri delle vite di coloro che vivono nel piccolo paese.

Poco dopo l’arrivo della ragazza, il paese intero viene brutalizzato da un terribile avvenimento: l’atroce delitto di una prostituta. E’ il vento del mondo che è tornato a soffiare su Strella, con tutte le sue mostruosità portate da lontano, o tra i campi allagati si aggira un maniaco allevato in seno alla piccola comunità?

Qualunque sia la natura del male, resta il fatto che tutto è cominciato ad accadere da quando ha fatto la sua comparsa in paese quella ragazza venuta da fuori, la ragazza sul maggiolone giallo.

Giugno 2011

Il sole si sta appiattendo sotto le risaie, trascinando con sé un carrozzone polveroso di nubi. Un corteo compare lungo le vie del centro. I vestiti neri delle persone lasciano presagire si tratti di un corteo funebre. Silenzioso e traballante, pare seguire un movimento ondulatorio. Nonostante l’andatura incerta, il corteo attraversa le vie e si inoltra su un sentiero in terra battuta, fino a raggiungere un tempietto in aperta campagna.

Nel feretro al capo del corteo c’è il corpo di Silvia Giacomina. Novantenne, sarta del paese, si era fatta qualche soldo cucendo le camicie dei compaesani, all’epoca in cui il paese era ancora pieno di vita e di abitanti. Morta per un colpo apoplettico, a Silvia Giacomina non si imputavano lazzi, né vizi: le piaceva andare in chiesa (seppure le comari del paese non le riconoscessero particolare devozione nei confronti degli uffici religiosi), per dare qualche soldo ai poveri e accendere una candela per il figlio, il quale lavorava a Milano da molti anni e da parecchio tempo non passava più a trovare la madre.

Il ronzio della liturgia funebre si allarga per i campi come olio bollente. Le comari, il capo coperto dal velo nero, biascicano preghiere con le bocche secche e ricurve. Di tanto, qualche vecchia sussurra all’orecchio dell’amica: “Eh, la Silvia, anche lei…”, oppure “Siamo rimaste solo più in due, della nostra leva”. Qualcuna, magari accartocciata sul fondo, leggermente in disparte rispetto al gruppetto delle donne in preghiera, conta le lapidi nel piccolo cimitero di campagna, situato dietro il tempietto (un tempietto eretto in nome della Madonna del Raccolto, negli anni in cui l’agricoltura era ancora una questione collegata direttamente con le divinità del cielo).

Il prete che sovrintende l’ufficio recita i salmi, poi si lascia andare a considerazioni sulla rettitudine dimostrata in vita da Silvia Giacomina, alla devozione della novantenne nei confronti della Chiesa e della liturgia, al suo zelante lavoro in favore della comunità. Quindi il parroco invoca le preghiere dei familiari, i quali, però, non sono presenti al funerale (“Eh, l’avevo detto io, che quel diavolo di un figlio non voleva più vederla” la bocca di una vecchia megera si scuce per alcuni istanti. Un’altra sussurra “Da quel litigio… Le voleva portare via tutto, tutto!”), quindi chiede alla comunità di stringersi in un abbraccio caloroso, nel nome del ricordo della buonanima. Infine concede l’ultima benedizione e lascia che il corpo di Silvia Giacomina venga interrato dai becchini che attendevano pazienti, la sigaretta in bocca e le pale appoggiate sulle spalle, con assoluta noncuranza.

Quando anche l’ultimo brandello di bara scompare nella terra porosa come le guance delle vecchie comari, le persone che hanno partecipato al rito funebre defluiscono lungo il sentiero che riporta al paese, come una fila di formiche che rientra nel tumulo di sabbia.

In men che non si dica, il buio sale dai fossati e piano piano comincia a inghiottire ogni cosa, partendo dai vuoti campi della campagna. Restano i campi allagati, un silenzio metallico come a trovarsi in mezzo al mare, solo acqua e acqua.

Dopo diverse ore vuote, di buio e di silenzio, manco ci si trovasse per i canali deserti di Venezia nelle ore più cupe della notte, una sagoma incappucciata percorre il sentiero dal paese al cimitero, a passo spedito. La sagoma, che è frenetica e furtiva, le spalle agitate da una forza scattosa e a stento controllata, arriva fino al cimitero e scavalca il muro con disinvoltura, quindi si avvicina alla tomba di Silvia Giacomina e traffica per un po’ attorno al tumulo di terra. Di colpo la campagna attorno si riempie di una luce fioca e claudicante: la sagoma ha appena acceso una candela e l’ha riposta sulla tomba della vecchia appena sepolta. Nella notte solida e compatta, si leva una litania cantilenante, come una ninna nanna.

(1 – continua)

Daniele Vacchino