PAESAGGIO VERCELLESE CON ZOMBI 06

6.

DOMENICA 22 AGOSTO 1993, NOTTE

1.

La Y 10 lo lasciò davanti al monumento di Cavour e ripartì verso il Corso. Piero controllò l’ora sulla torre. Era da capo.

 Degli strilli vennero da dietro al monumento. Tre ragazzi ubriachi giocavano a spintonarsi. Uno dei tre, magro con dei capelli lisci fin sulle spalle, si slacciò i pantaloni e defecò sull’acciottolato della piazza. I compari sghignazzarono giulivi. Uno dei due vide Piero e lo apostrofò malamente. Il ragazzo che aveva defecato raccolse in una mano l’escremento e iniziò ad arrampicarsi sul monumento. Rischiando di cadere, arrivò in cima e depose lo stronzo sulla mano pietrificata dello statista. Piero lasciò la Piazza, diretto al Chat Noir. Era l’unico posto ancora aperto. La sua ultima possibilità di trovare qualcuno disposto ad accompagnarlo a Santagata.

2.

La Lancia Dedra sfilava nella notte uniforme. Il terzo fratello Inzirillo al volante; il secondo di fianco coi suoi fumetti; dietro il primo sonnecchiava beato. Dopo un tempo indefinito sbucarono delle case.  Santagata. Il terzo fratello arrestò la vettura e controllò la cartina.

- Siamo arrivati, – disse.

- Sì, – disse il secondo controllando il tamburo della pistola.

Il primo continuò a dormire. Il terzo ingranò la retro ed uscì dal paese. Tornò indietro di un paio di chilometri e parcheggiò in uno scanso erboso. Era ancora presto.

3.

Micol e Rubino sorseggiavano l’ennesima birra. Avevano finito il fumo ed erano giù di corda. Sandro si grattava gli avambracci tumefatti dalle punture delle zanzare. In bocca teneva l’ultima Merit di sua madre. L’eccitazione per la corsa nei campi era passata. L’irrequietezza e il senso di rabbia contro tutto e tutti aveva ripresero a tormentarlo. Si sentiva come se gli avessero spiaccicato il cranio sotto una ruota. Voleva prendere a pugni qualcuno. Ripensò ai due Carabinieri che aveva steso e si sentì meglio. Controllò l’ora sopra la credenza con le patatine. Erano le due e un quarto. Non aveva sonno. Non voleva tornarsene a casa. Il Chat Noir era quasi deserto. Marco, il proprietario, accese tutte le luci, segno dell’imminente chiusura. Ordinò un ultimo coka e rum. Micol si sfilò un anfibio e si massaggiò un piede nudo e impolverato.

- Che facciamo? – domandò annoiata.

Rubino emise un rutto colossale. Marco lo guardò storto.

- Potremmo andare all’Ecstasi, – propose Sandro.

Rubino scrollò la testa.

- Non ho più un soldo.

Micol si massaggiò le dita del piede e si rimise l’anfibio.

Sembrava ispirata.

- Andiamo a Carisio dalla Noemi. Magari ci anticipa dell’altro fumo. Loro ne hanno sempre tanta di roba.

Rubino scrollo la testa.

- Sono degli spilorci e mi stanno sul cazzo.

Sandro intrecciò le dita dietro la nuca e scivolò sulla sedia.

Erano arrivati al capolinea.

- Perché non venite con me?

Qualcuno s’era materializzato accanto al loro tavolino.

Sandro alzò gli occhi e incontrò un viso sconosciuto. Indecifrabile.

- Che vuoi? – ruggì Micol.

- Scusate, ma vi ho sentito parlare.

- Oddio, a quest’ora non li sopporto, – sbuffò Micol digrignando i denti.

- Smamma amico o ti gonfio, – tagliò corto Rubino.

Il tipo non si mosse. In lui non c’era traccia di ostilità. Sandro cercò di concentrarsi sul suo viso, ma doveva aver bevuto troppo perché continuava a vedere una macchia rosa senza lineamenti. Senza una ruga. Poteva avere trenta come cinquant’anni. Il tipo indicò la sedia vuota al loro tavolo.

- Posso sedermi?

- No che non puoi. Ti ho detto di filare, – Rubino alzò la voce.

Da dietro il bancone, Marco li tenne d’occhio, pronto ad intervenire.

Il volto di Rubino divenne scuro e ostile, con gli occhi piccoli come punte di coltello. Sandro lo vide serrare i pugni e temette il peggio. Rubino, da ubriaco, era pericoloso e quella sera aveva bevuto parecchio; ma lo sconosciuto non indietreggiò di un passo, ne cambiò l’atteggiamento rilassato.

- Non voglio darvi fastidio. Vi chiedo un minuto. Se non vi interessa me ne vado.

Rubino scattò in piedi. Piantò la faccia ad un palmo da quella del tipo e gli alitò contro. Sandro lo afferrò per un braccio e Rubino si liberò con uno scrollane.

- E dai calmati, sentiamo cosa vuole, tanto non abbiamo niente da perdere.

Rubino continuò a fiutare lo sconosciuto, poi si girò verso Sandro e si rimise a sedere.

- Spicciati, – sibilò.

L’altro sedette al loro tavolino.

- Grazie. Il mio nome è Piero Cannata. Sarò breve: ho bisogno di un passaggio fino a Santagata. Naturalmente pagherei la benzina e il disturbo.

Rubino roteò gli occhi.

- Per chi ci hai preso, un taxi?

Micol appoggiò i gomiti sul tavolo.

- Non è il posto dove è schiattata tutta quella gente?

- Quanto pagheresti? – chiese Sandro.

- Ditemelo voi.

Micol e Sandro si scambiarono dei cenni d’intesa.

- Cento carte!

Piero non ci pensò sopra nemmeno un istante.

- Va bene.

- Facci vedere i soldi, – intervenne Rubino ancora sulla difensiva.

Piero prese un portafoglio di tela tutto strappato e mostrò la banconota da cento.

- Benzina esclusa, – rilanciò Micol.

- Dov’è il trucco stronzo, – Rubino saltò di nuovo in piedi e agitò un pugno davanti al naso di Piero.

Questi lo fissò tranquillo.

A Sandro sembrò che si stesse divertendo un mondo.

- Nessun trucco. Ho bisogno di questo passaggio e voi siete gli unici a cui posso chiederlo. Devo essere là per l’alba.

Rubino tornò a sedersi.

- E se te ne chiedessimo duecento?

- Va bene.

- Un momento. Duecento per portarti fin là e basta? – domandò Sandro.

- No. Per le verità mi serve che uno di voi faccia delle riprese con una videocamera.

- Noi non abbiamo una videocamera.

- Lo sapevo, è un maniaco del cazzo, vuole girare un porno snuff con noi tre, ma io ti rompo, – borbottò Rubino animandosi ancora.

- Lascialo finire, – disse Sandro cominciando a incuriosirsi.

- La videocamera ce l’ho io. E’ una sony handycam, facile da usare. Basta pigiare un tasto.

Rubino batté le mani sbalordito.

- Cosa sei sordo oltre che tonto? Non ti ho chiesto la fottuta marca del cazzo, ma cosa devi riprendere, cosa ci devi fare?

Piero li guardò tutti e tre.

Poi il suo viso si allargò in un accenno di sorriso.

- Un macht!

Rubino lo fissò a bocca aperta. Non ebbe le forze per ribattere.

A quel punto Sandro capì che il tipo lo aveva vinto.

- Di notte? – chiese Micol vispa come a inizio giornata.

- Sì.

- Di boxe?

- No. Backyard Wrestling. Wrestling da cortile. Amatoriale, ecco.

I ragazzi lo scrutarono senza battere ciglio. Da dietro il bancone, Marco cominciò a contare l’incasso della giornata. Non c’era più nessuno.

Piero aspettò altre domande, ma i tre rimasero ammutoliti. Allora fece un piccolo sospiro e spiegò loro che il Wrestling da cortile non centrava niente con quello che davano alla tivù. Il Wrestling da cortile viveva fuori dalle arene, lontano dal pubblico pagante. I lottatori da cortile non volevano pubblicità. Non avevano sponsor. Non avevano manager. Non avevano valori da comunicare. Non lo facevano per soldi. I lottatori da cortile si sfidavano sul retro di villette suburbane, in paesi disabitati, nelle fabbriche abbandonate o in aperta campagna e si picchiavano sul serio. Le loro non erano coreografie tanto per tenere aperta la bocca dei gonzi. Calci, pugni, testate. Era tutto vero. Carne, sangue, nasi spappolati. Il loro era un mondo primario, selvaggio, colorato. La loro madre era la lotta greco-romana. Il loro padre la boxe; ma la boxe era troppo controllata. Si basava sulla supremazia di qualcuno su qualcun altro. Nella boxe c’era sempre un inizio e una fine. Un cominciare e un finire. Un vincitore e un vinto.

Il Wrestling amatoriale non portava a niente. Non era il coronamento di alcun risultato. Non era altro che caos e assurdità. Caos e assurdità della vita. I lottatori erano come i personaggi di un’antica commedia, una pantomima sempre uguale che affondava le sue radici nello Spettacolo e nel Rito. Per questo l’abbigliamento era fondamentale. Ogni lottatore si mascherava con quello che trovava, si cuciva da solo il costume, lo rammendava. Ogni incontro veniva filmato e la cassetta rimaneva al vincitore. Tutto lì.

Il primo a riprendersi fu Sandro. Spiò i due dark. Tenevano gli occhi spalancato come palloni.

- Con chi ti devi battere?

- Baron Corvo. E’ il nome del personaggio, – sorrise Piero.

- Lo conosci?

- Mai visto.

- Come farai a riconoscerlo? – chiese Micol.

- Saremo gli unici in costume.

- Giusto.

Micol abbassò gli occhi e arrossì. Era la prima volta che Sandro la vedeva imbarazzata. Quel tipo doveva essere pazzo, ma aveva qualcosa di speciale. Lo potevano annusare anche loro.

Sandro si alzò dal tavolino.

- Dacci metà soldi subito e per me si può fare.

Anche Micol saltò su eccitata. Rubino prese tempo. Finì la birra e rimuginò ancora un po’.

- Sandro ha ragione. Cento subito giusto per veder che non spari cazzate e noi ti portiamo là.

Piero appoggiò la banconota sul tavolo. Poi Marco li sbatté fuori e chiuse la serranda. Erano quasi le tre. In giro non c’era più nessuno.

Rubino arrotolò la banconota e la infilò nei pantaloni di pelle nera.

- Dunque il riassunto è che ti devi picchiare con uno che non hai mai visto e lo devi fare verso l’alba, giusto?

- Prima dobbiamo passare da me. Devo prendere il costume e la videocamera.

Micol saltellò sulle punte degli anfibi. Sembrava una bambina in gita.

- Non ci siamo presentati, io mi chiamo Sandro.

- Micol.

Un mugugno.

- Mpf, Rubino.

- Ciao.

4.

Rubino li aspettò in macchina. Micol e Sandro seguirono Piero dentro un palazzone scheletrico, inanimato, silenzioso. Salirono tre rampe di scale. L’appartamento era buio. Piero prese una torcia elettrica da una credenza accanto all’ingresso. Illuminò il corridoio e una serie di maschere in gomma si materializzarono lungo i muri. Erano appese con dei chiodi e ce n’erano un numero indefinito. Micol e Sandro le osservarono senza commenti. Le maschere avevano dimensioni differenti ma erano tutte piuttosto terrificanti. Ce n’erano di semplici stile Halloween, con teschi ghignanti, demoni, vampiri, mostri della laguna. Altre erano più originali e complicate. Micol carezzò una maschera ovale a forma di lupo con delle lunghe trecce nere dietro le orecchie.

- Sono molto belle, – sussurrò.

- E ben fatte, – disse Sandro accostandosi ad una maschera da locusta.

Piero assentì soddisfatto.

- Per gli attori dell’antica Grecia la maschera era associata alla testa di un decapitato. Mascherarsi esigeva un sacrificio.

Arrivarono alla fine del corridoio, in una camera rischiarata da delle lucine intermittenti tipo albero di natale. Le lucine addobbavano una teca di vetro simile ad una bara trasparente. Dentro la teca c’era un body giallo con degli stivaletti di pelle rosso mattone e stringhe nere. Ai piedi dell’abito c’era una testa di polistirolo con sopra una maschera color carne di stoffa con grossi ciuffi di capelli marrone scuro. La maschera non aveva lineamenti, come i manichini di DeChirico. Solo dei buchi ovali per gli occhi e un machete di plastica conficcato tra i capelli. Rivoli dipinti di sangue colavano lungo le guance e attorno alla bocca spalancata in un urlo gommoso.

Sandro e Micol la trovarono stupenda.

Sui muri della camera erano incollate vecchie reclame di incontri con Andrè the Giant, Fred Blassie e lottatori messicani dai nomi pittoreschi. Negli angoli, pile di riviste tipo Wrestiling Apartment e Detective.

- Questo è il mio mondo, – fece il lottatore.

Poi aprì la teca.

5.

Luci lontane. Nella notte. Brillavano. Nel buio. Forme indistinte. Alberi. Stelle opaline. Case nere. Stradine sterrate. La macchina correva in avanti. I fari tagliavano la notte come bisturi luccicanti. Micol collassava sul sedile posteriore. Nelle mani stringeva una copia arrotolata di Apartment Wrestling. Rubino guidava e faceva fatica a rimanere sveglio, tanto che Sandro doveva raddrizzare il volante ogni volta che la macchina scivolava oltre la linea tratteggiata.

Piero guardava le luci. Puntini gialli nel manto della notte. Ogni tanto Sandro si girava a spiarlo. Invidiava quel volto serafico, imperturbabile. Lo stavano portando ad una rissa in maschera, in un posto dove la gente crepava come mosche. Dove probabilmente non ci sarebbe stato nessuno. Per quel che sapeva, Baron Corvo o come diavolo si chiamava, non esisteva nemmeno. Forse aveva ragione Rubino, era tutta una pagliacciata, una solenne presa per i fondelli e loro c’erano cascati. Ma cos’altro avrebbero potuto fare per passare il tempo. Cos’altro avrebbero potuto fare oltre a devastarsi di corpo e mente con alcol e azioni squisitamente folli. Sandro lo sapeva meglio di chiunque altro; in tutti loro c’era la medesima esigenza di caos e casini solo per sfuggire a un futuro fatto di villetta in periferia, mutuo alla macchina, bambini, cani, dentisti e mogli nevrotiche. Micol aveva ragione. Prima o poi anche loro avrebbero smesso di girare a vuoto, di sprecare giornate, di perdere tempo. Avrebbero trovato un lavoro e nessuno si sarebbe più ricordato di loro. Sarebbero scomparsi come tutti gli altri prima di loro. Senza eccezioni. Sandro si sentì improvvisamente triste e infelice. Forse non esistevano trampoli abbastanza grandi per scappare.  Spiò ancora il volto del lottatore. Sereno, rilassato. Comunicava quasi un’assenza di dolore. Era lui il clown, il domatore di bestie, l’assassino che l’avrebbe portato via? Era finalmente arrivato? Aveva quell’aspetto? Quella faccia che non riusciva a restargli in mente?

Guardò le luci lontane. In fondo a quelle strade lo aspettava il suo futuro. L’alba gli avrebbe portato delle risposte.

Sandro raddrizzò il volante dell’auto.

Non era più sicuro di volerle conoscere.

(6 – continua)

Davide Rosso