PAESAGGIO VERCELLESE CON ZOMBI 05

5.

“DURASAGRA” Vercelli Uber Alles

(pomeriggio)

1.

I raggi del sole cadevano a picco dal cielo, sciogliendo l’asfalto. Sandro sentiva il calore salire dalla gomma consumata delle scarpe. Rasentando gli edifici in cerca di sprazzi d’ombra, arrivò in Marcello Prestinari, all’incrocio davanti alla Croce di Malta.

Le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Sandro camminò fino all’edicola ma anche quella era chiusa per ferie. All’automatico comprò un pacchetto di Pall Mall blu. Ne fumò una sotto al telone d’ingresso della pizzeria DeRiggi. Mentre i cirri di fumo lo avvolgevano, scrutò il Corso silenzioso. Da quando era lì non era passata nemmeno un’auto. A quell’ora, i pochi rimasti in città se ne stavano tappati in casa. Anche lui avrebbe preferito restarsene con le palle a mollo nella vasca, ma con sua madre in piena crisi mistica non era discorso. Piuttosto si sarebbe fatto legare all’asfalto rovente. Poi voleva trovare qualcuno a cui raccontare del provino. Voleva sentirsi considerato, invidiato. Far schiattare d’invidia il prossimo l’avrebbe aiutato a sentirsi meno inutile. Infilò le mani nei jeans e ne tirò fuori un pezzo di carta col numero di telefono della tipa del treno. Contò le monete che aveva in tasca.

Le cabine stavano all’inizio di Corso Prestinari, proprio davanti alla Croce di Malta. Due marocchini in canottiera lo puntarono cattivi. Sandro avanzò con la tipica andatura molleggiata da esibizionista ed entrò in una cabina. Il cavo era tagliato e mancava la cornetta. Entrò nella seconda. I marocchini si scambiarono un’occhiata di intesa e sogghignarono. Nella cabina la cornetta era a posto ma c’era del vomito spugnoso per terra. Qualcuno aveva avuto cura di spalmarlo su tutto l’apparecchio. Grosse poltiglie gialle gocciolavano dal cavo. Sandro uscì disgustato. Prese fiato. I due marocchini si avvicinarono. Avevano delle facce lunghe come arpioni e la pelle scura del viso assorbiva tutta la luce del giorno.

Sandro telò via. Riprese a camminare, scendendo verso il passaggio a livello. Quando fu davanti alla Coop, una Ford Escort marrone gli tagliò la strada, saltando sul marciapiede.

Pensando ai marocchini,  fece per scappare, ma una voce lo chiamò per nome. Dalla Ford Escort scese una ragazza con gli occhi listati di nero e un pesante trucco bianco da cadavere sulla faccia.

Sandro la riconobbe subito. Era la Micol.

- Sandro, Sandrino, cos’è ti eri preso paura?

Micol lo abbracciò e lo baciò sulla bocca. Aveva i capelli rosa shocking a cascata sul viso. Una schiuma bianchiccia le colava dalle tempie.

- Sandro, che bello vederti. Mi sa che siamo rimasti i soli in questo posto di merda.

Dalla parte del guidatore scese un ragazzo coi capelli dritti come spilli, bianchi, decolorati. Portava un giubbino di pelle nera e dei pantaloni attillati con borchie e catene penzoloni. Era Rubino, il moroso della Micol. Sandro li conosceva entrambi. Con la Micol aveva fatto i primi due anni di liceo, poi lei era stata stangata ed era passata all’I.T.I.S. Anche Rubino faceva l’I.t.i.s. ma era un po’ più grande di loro. Rubino teneva una sigaretta inchiodata alle labbra e salutò con un cenno del mento.

- Sali. Ci facciamo un giro.

- Dove andate?

- All’Isola. C’è un roller derby con le Pice del fuego. Prima però passiamo al Continente e facciamo spesa.

Sandro pensò all’aria condizionata del supermercato e salì sulla Escort.

Non fecero in tempo a partire che Hanging Garden dei Cure uscì sparata dalle casse laterali dell’auto.

2.

Il Chat Noir aprì verso le tre e mezza. La saletta era rettangolare e buia. I tavolini di marmo erano disposti lungo i muri. Vicino all’ingresso c’era un pianoforte con leggio e spartito.

Piero si sedette ad uno dei tavolini. Marco, il proprietario, era sulla cinquantina. Aveva i capelli ossigenati, i baffi scuri. Indossava un gilè rosso con la camicia bianca e le bretelle blu e dei jeans della Energie.

Piero prese una Menabrea in bottiglia e la sorseggiò piano. Da dietro il bancone, Marco sfogliò una copia della Stampa.

Bill Clinton compie 47 anni. Lo staff della Casa Bianca gli organizza una festa a sorpresa sull’Air Force One, c’era scritto sulla prima pagina.

Un tizio col cranio rasato, kefia rossa al collo e giubbino verde militare scuro, entrò nel locale. Fuori c’erano quaranta gradi all’ombra ma il tizio sembrava fresco come una rosa, perfettamente a suo agio. Ordinò un tè freddo corretto col rum. Marco lo servì, poi si inumidì il pollice e girò pagina.

Milano. Due baby teppisti picchiano barbone, c’era scritto sulla seconda.

Il tizio con la kefia sorseggiò il tè corretto.

Si chiamava Lollo e faceva il proiezionista al Cinema Astra, un cinema di seconda categoria, specializzato in film vietati ai minori. Piero lo conosceva di vista. Andava spesso all’Astra. Gli piacevano i popcorn al caramello che facevano lì.

- Cosa date oggi? – chiese Piero.

- Cicciolina e Moana ai mondiali.

Marco alzò gli occhi dalla Stampa.

Claudia Schiffer querela per 16 miliardi il settimanale NOI per il nudo rubatole su uno yatch a Maiorca, c’era scritto sulla terza pagina.

- Com’è?

Lollo storse la bocca.

- Non si capisce niente. E’ doppiato col culo.

Lollo ingurgitò il bicchiere di tè e lo posò sul bancone.

- Prima o poi mi vendico, – disse, agitandosi senza motivo.

Gli occhi gli si accesero come dei falò giganteschi. Li ruotò un paio di volte, schioccò il palato e ordinò un altro tè al rum. Marco abbandonò il giornale e preparò l’intruglio.

Napoli: preso Gennarino, piccolo ras di Santa Maria Capua Vetere. Aveva 14 anni, c’era scritto sulla quarta pagina.

Lollo aspettò la bevanda ghiacciata, la buttò giù in due lunghi sorsi e si slacciò la kefia dal collo.

- Prima o poi lo faccio.

Gli occhi di Lollo divennero incandescenti.

- Voglio proiettare un fotogramma porno in una sala domenicale piena di famigliole del cazzo e bambini. Ce l’ho già. L’ho ritagliato da uno dei film che proietto. Un fotogramma soltanto. Uno con un bel cazzo duro. E una Bernarda spanata. Così, – e schioccò le dita, – una frazione di secondo. Lo vedi ma non te ne accorgi. Prima o poi Givogre mi sposta all’Italia o al Principe e lo faccio. Giuro.

- L’hanno già fatto, – disse Marco senza alzare lo sguardo dal giornale.

Lollo scrollò la testa più volte.

- Puttanate.

- Bunuel e i suoi amici surrealisti correvano nelle sale parrocchiali e proiettavano a sorpresa Suor Vaseline, menage-à-trois tra una suora, un contadino e un prete.

Lollo picchiò il bicchiere vuoto sul bancone.

- Non è vero. Mi pigli per scemo?

- L’hanno dato pure su Fuori Orario. Una vera chicca.

- Me ne sbatto di Fuori Orario. Voglio farlo io. Diocristo! Mi sono pippato merda per anni. Potrò restituirla con gli interessi?

Marco alzò le spalle, disinteressato.

- Sono laureato in Storia e Critica del Cinema. Tesi su Pasolini. P-A-S-O-L-I-N-I, capito? E a cosa mi è servita? A cosa?

- Pasolini è il frocio morto ammazzato, giusto? – chiese Marco con un sorriso da faina.

Lollo lo guardò duro. Aveva gli occhi piccoli piccoli. Gocce di sudore gli spuntarono sulla sommità del cranio pelato.

Marco girò indifferente un’altra pagina della Stampa.

Palazzolo: rinvenuti in un cortile resti umani, c’era scritto nella cronaca.

Lollo gettò la moneta sul banco e si riannodò la kefia.

- Devo andare.

Fece per uscire.

- Aspetta. Vengo con te.

Piero pagò la birra e salutò il proprietario.

- Quello non capisce un cazzo, – fece Lollo, appena usciti dal bar.

Attorno a loro anche le case stavano sudando di brutto.

3.

Micol e Rubino erano due dark. Vestivano sempre di nero. Perché il nero donava. Il nero slanciava. Il nero rendeva riconoscibili. Allontanava le vecchie dalle panchine. Catalizzava gli sguardi. Rendeva speciali. Unici. Glamour. O così gli aveva spiegato Micol. Fin dalla prima superiore l’aveva vista arrivare con calzamaglia, stivali e cappotto con maniche a sbuffo. Tutto nero. Durante le lezioni ascoltava in cuffia Cure e Joy Division a raffica e se qualcuno la riprendeva lei se ne usciva dall’aula mandando tutti affanculo. A Sandro era piaciuta subito. Micol era un animale selvaggio e come lui aveva genitori separati. Come lui cercava di distinguersi dagli altri. Di essere qualcuno. Nella loro classe non era certo difficile: tutti fighetti figli di papà con la puzza sotto al naso e il portafoglio pieno. Tutti futuri dottori, avvocati, dentisti, notai, questori, presidenti. Sandro e Micol li odiavano. Assieme s’erano coalizzati mettendo a ferro e fuoco l’intero liceo, stabilendo un dominio non solo psicologico. Così quando Micol era passata all’I.t.i.s, lui c’era restato parecchio male. Comunque erano rimasti amici.

- Sandrino, hai finito! Beato te che ti sei liberato. Io ne ho le palle piene della scuola. Adesso cosa fai?

- Faccio il provino per entrare alla Paolo Grassi. Se mi prendono è tutto gratis.

- Figo! Vedrai che ti pigliano. Hai sempre avuto la fissa. E con tua madre?

Sandro guardò fuori dal finestrino.

- Ti ho fatto una domanda stupida, scusa.

- No, figurati. E’ solo che non ce la faccio più. E’ completamente andata.

Rubino girò la testa di tre quarti. Le punte dei capelli bianchi raschiarono contro il tettuccio.

- Se è per questo mia madre è convinta di essere in contatto con l’aldilà.

Micol rollò una bandiera e la passò a Sandro. L’odore del cioccolato gli impastò la bocca.

Parcheggiarono nello spiazzo immenso dell’ipermercato. A parte le auto dei dipendenti, il parcheggio era deserto. In cielo il sole era una palla rossa, infuocata.

Scesero dall’auto e la schiuma bianca era scesa lungo il collo di Micol fino a bagnare la maglietta nera dei Chrisma.

- Cos’è questo schifo?

- E’ il caldo, Sandrino. Mi scioglie tutto il sapone e i capelli si smollano subito.

Micol prese con due dita una ciocca rosa shocking e la allontanò disgustata. Sembrava che le avessero versato un mestolo di spaghetti scotti sulla testa.

Prima che anche i loro cervelli friggessero come uova al tegame, entrarono nel mall. Un’aria gelida li investì oltre la porta a vetri dell’ingresso.

Il supermercato era vuoto. Micol prese un carrello e ci si infilò dentro, urlando a squarciagola. Rubino prese a spingerla. Sandro li seguì tra le corsie colorate. Dei vecchi e dei bambini obesi si aggiravano indifferenti tra i prodotti illuminati da una luce al neon bianchissima. A Sandro pareva di stare su un set televisivo. Micol riempì il carrello di snack: marx, twix, kitkat, lions, bounty eccetera. Poi passò alle patatine. San Carlo, Dixie. Un barattolo di salsa piccante. Uno di senape. Sandro prese una scatola di tonno. Aveva fame. A casa non era riuscito a mangiare nemmeno un boccone.

Un vigilante in camicia bianca e pantaloni blu con la piega nel mezzo li seguì a distanza fino alla cassa, dove li aspettava una cassiera sui trent’anni con degli stivaletti traslucidi in gomma, da amazzone metropolitana. La cassiera batté il codice a barre degli articoli, diede il resto e li guardò come merde di cane rinsecchite.

Superata la cassa, Micol mostrò il dito medio al vigilante e Rubino lanciò il carrello contro la vetrina di una boutique. La vetrina venne giù con tutti gli addobbi e un paio di manichini rotolarono sul pavimento luccicante del mall. Il vigilante bestemmiò e provò ad inseguirli. Sandro, Rubino e Micol volarono alla Escort con i sacchetti della spesa. Partirono in volata. Rubino fece un paio di testacoda, giusto per far scena e uscì dal parcheggio.

- Fuck, – disse Micol.

- PorcaTroia, – disse Sandro.

- Boiafaus, – disse Rubino.

Poi scoppiarono a ridere come matti.

4.

Uno dei fratelli Inzirillo sedeva su una sedia di legno laccata oro e sorseggiava un Ramazzotti. Le gambe della sedia non erano ben pareggiate: infatti, a seconda di come si spostava col sedere, la sedia oscillava come un metronomo.

Il secondo fratello era affacciato alla finestra e annaffiava un vaso di gerani sul davanzale. Di tanto in tanto, un tic nervoso alla guancia sinistra gli alterava i lineamenti come un quadro di Picasso.

Il terzo fratello camminava lungo la stanza e fumava.

La camera era una camera d’albergo.

Moquette color tabacco e pareti grigio depressione.

Indossavano dei completi Carapaci, identici, da due milioni di lire.

Il terzo fratello era nervoso. Lo innervosiva l’inattività forzata e la calma apparente degli altri fratelli. Così camminava e pensava ai bei tempi andati, quando avevano di meglio da fare che gingillarsi in un albergo come tre pensionati. Nei bei tempi andati non passava giorno senza che ammazzassero un cristiano. Nei bei tempi andati le rapine, i ricatti, le estorsioni, lo spaccio, eccetera erano sacrosanti come il giorno e la notte. Nei bei tempi andati, la loro vita era stata dolce come il miele, intensa, bella, bellissima. Adesso però la musica stava cambiando. Un nuovo patto stava per essere siglato tra il mondo a cui appartenevano e quell’altro, quello Ufficiale. Un patto lungo. Decennale. La guerra sarebbe presto finita. Dall’altra parte, ai piani alti, ci sarebbe stato un cambio. Facce nuove. Nuovi referenti. Altra orchestra. Nuova musica. Gli uomini come loro sarebbero tornati nell’ombra. A ognuno sarebbe toccata la sua fetta di torta. Il suo business. Il suo prestigio. E le armi sarebbero tornate sotto terra, almeno fino a nuovi scenari.

Tutti loro avrebbero dovuto ubbidire, nessuno escluso. La mattanza era finita. Ma la fortuna non aveva smesso di girare di colpo. Qualcuno al comando aveva pensato a loro per un ultimo lavoretto. Qualcosa da sbrigare col loro stile.

5oo chili di esplosivo, per intenderci.

Agli Inzirillo la cosa era subito piaciuta.

Squillò il telefono.

Il primo fratello posò il Ramazzotti.

Il secondo aumentò la frequenza dei tic.

Entrambi fissarono il terzo fratello afferrare la cornetta.

- Pronto, – disse.

Ed era pronto per davvero.

5.

Il sobborgo Isola era il paria dei sobborghi. Tutto casupole grigie, condomini screpolati, case popolari, giardinetti pieni d’erbacce, siringhe.

Il Palazzetto dello Sport stava su un piazzale arroventato dal sole.

Il Palazzetto era un cubo di cemento color rosso vino.

Davanti all’ingresso c’era un pullman della Fontaneto con nessuno attorno.

Al centro del piazzale, un baracchino giallo, chiuso. Sopra c’erano due scritte fatte con lo spray. Una era W IL DUCE, l’altra W L’ITALIA.

La Ford Escort marrone se ne stava parcheggiata dietro al baracchino. Dentro, Sandro, Micol e Rubino pescavano gli snack liquefatti dal sacchetto di plastica. Rubino strappava la carta del Mars e una pappetta di cioccolato e caramello gli schizzava sulle dita e sul giubbotto di pelle. Dei Twix e dei Kit Kat rimaneva solo la cialda e Micol la tuffava nel barattolo di senape bollente. Sandro masticava le patatine e cercava di sollevare la linguetta della scatoletta di tonno senza inzupparsi d’olio. Nella macchina il caldo era insopportabile. Sembrava di stare all’equatore.

Dalle casse dell’autoradio, Ian Curtis gridava le parole di Warsav.

Sazi, rollarono un castello, poi si avviarono ciondolanti verso il Palazzetto.

( fuoridaltempodue )

Da qualche parte tra cielo e terra, il Bibliofilo chiamò l’Editore.

BIBLIOFILO – Pronto?

EDITORE – Ué, allora?

B – Si, si è tutto a posto.

E – Li hai contattati?

B – Si, si. Saranno già partiti.

E – Dove alloggiavano?

B – Al Duca di Milano. Tempo due ore sono lì.

E – Ma che gli hai detto?

B – Eh, che potevo dirgli? Fidati, che adesso la cosa importante è agire. Perché poi se salta la mosca al naso di qualcuno. Ancora no, però in serata sta cosa qua dev’essere  levata, ecco.

E – Speriamo. Di quegli altri più niente?

B – No. Eh, va beh, questo è il meno. Non li reclama nessuno.

E – Guarda che chi frigge qua sono io.

B – E’ logico. Ma c’è mezza Italia appesa a te. Tutti noi.

E – Comunque io fermo non ci riesco a stare. Magari prendo l’elicottero e vado là. Che dici?

B – Perbacco. No. No eh? Guarda che così ti esponi bla bla bla. Se è per la scatola posso richiamarli e…

E – No. Quello era prima. Hai ragione, la cosa importante è cancellare tutto, anche se poi ci toccherà ricominciare e il tempo è poco.

B – Eh, si, si, ma posso stare tranquillo che non ti muovi?

E – Dici di no?

B – No. No. Senti, facciamo una cosa, ci telefoniamo non appena hanno fatto. Va bene?

E – Bene. Ciao.

B – Grazie. Ti abbraccio. Ciao.

6.

Dentro al Palazzetto furono aggrediti da E.M.I. dei Sex Pistols. Sulla pista ovale, una decina di ragazze pattinavano in senso antiorario e se le davano di santa ragione. Cinque ragazze portavano una maglietta aderente, bianca a strisce verdi, gonnellina e collant neri bucati. Le altre cinque dei reggiseno gialli, boxer maschili e calze a rete rosse. Tutte avevano tatuaggi, piercing e capelli decolorati.

Sandro le guardò rapito. Non era mai stato ad un roller derby.

- Quelle bianche e verdi sono le nostre, – gli urlò nell’orecchio Micol per farsi sentire.

Le ragazze sulla pista volavano sugli skettini a quattro ruote orizzontali coi loro scarponcini di pelle e freni anteriori.

Micol, Rubino e Sandro si sedettero sugli spalti. Oltre a loro c’erano una decina di persone. Tutti maschi. E allupati. Seduto davanti, un tizio in mutande Dolce&Gabbana e piercing sulla lingua continuava ad agitarsi come un epilettico.

Sandro accese una pall mall e tirò un paio di boccate.

Micol e Rubino rollarono un carciofo. Micol attaccò ad urlare a squarciagola per aizzare le ragazze.

Partì My Way di Syd Vicious. Le pattinatrici, galvanizzate, presero a pestarsi per bene. Qualcuna aveva il bastone ricurvo da hockey e lo calava sulla schiena delle avversarie.

Sandro non ci capiva niente. Le tipe si spaccavano i nasi, si tagliavano le braccia, si fratturavano le ginocchia, si strappavano i capelli e continuavano a girare in senso antiorario. Non c’era un punteggio. Non c’era dischetto. Non c’erano porte. Niente di niente. Tutto sembrava ridotto alle botte e agli insulti. Anche Micol si fece prendere dal full-contact e scattò in piedi agitando le braccia e sputando. Rubino continuò a fumare lo spino.

Dietro di loro, due ragazzini sui 15 anni sgranocchiavano delle Rodeo e facevano commenti sul culo della Micol. Sandro li punto cattivo ma i pischelli non rimasero impressionati. Uno aveva la faccia pallida e piena di brufoli, il corpo magro e raggrinzito. All’altro mancavano dei denti sul davanti. I restanti erano color giallo-merda.

Il grissino insisteva sul sedere della Micol. Faceva le bave come un mongoloide e gli occhi erano luminosi come uno schermo televisivo appena acceso.

Sulla pista, intanto, le ragazze s’erano ammucchiate in una marmellata di cosce, chiappe e pugni. Una pattinatrice col viso sfregiato uscì dalla bolgia e collassò a terra come un bue sgozzato. Altre due ne approfittarono per finirla a calci e colpi di mazza.

My Way finì in un latrato d’agonia.

Search and Destroy degli Stooges fomentò ulteriormente la rabbia delle gladiatrici. Le ragazze ancora in piedi ripresero a pattinare, cercando di atterrare le avversarie.

Micol saltava isterica. Anche il tizio in mutande Dolce&Gabbana e piercing sulla lingua cominciò a saltare. Il grissino, invece, sputò un pezzo di Rodeo tra i capelli della Micol. Lei si girò. Occhi da tigre della Malesia. Labbra come sciabole. Il grissino rispose abbassandosi la zip dei calzoni e mostrando l’uccello scheletrico. Micol non ci vide più. Si sfilò la maglietta dei Chrisma. Tette al vento, scavalcò la ringhiera ed atterrò a piedi uniti sulle caviglie del grissino. Le caviglie si spezzarono. L’urlo del grissino si mescolò a quello di Iggy Pop.

Il grissino finì a terra. Micol prese a pestargli il capo con gli anfibi.

- Vaffanculo bocchinaro, – urlava.

Sandro provò a fermarla, ma lo sdentato gli fu subito addosso. Con la coda dell’occhio vide le pattinatrici saltare le protezioni a bordo pista e buttarsi sugli spalti, cercando di raggiungerli. Gridavano e roteavano le mazze gocciolanti sangue. Il tizio in mutande Dolce&Gabbana si strappò il piercing e prese a testate i gradini di marmo. Sandro lanciò un’occhiata verso Rubino che continuava a fumarsi la canna con un sorriso skizo. Poi lo sdentato lo colpì in mezzo alla fronte e non vide più niente. Sentì solo la sfilza di bestemmie mescolate alla musica e al rollare dei pattini che si avvicinavano. Sentì la saliva dello sdentato finirgli sulle labbra. Lo sentì avvicinare la faccia alla sua e alitargli contro. Poi qualcuno dovette toglierglielo di dosso e farlo ruzzolare giù dalle gradinate.

Quando riaprì gli occhi, una ragazza bionda, con gli occhi azzurri e due spalle robuste, lo guardava sorridendo.

- Sandrino, da quando ti interessi allo sport?

Dietro la ragazza il finimondo.

7.

All’inizio di corso Libertà, Lollo entrò nell’edicola.

Kefia rossa, giubbotto militare. Impermeabile al caldo.

Comprò tre buste offerta estate per cinquemilaecinquecento lire.

Le buste offerta estate erano ben cellophanate.

Su ogni busta c’era il simbolino dello squalo.

Dentro le buste offerta estate c’erano:

un OLTRETOMBA RACCOLTA

un ATTUALITA’ NERA

un FRANKENSTEIN

un SUKIA

uno ZORA

un CIMITERIA

un WALLENSTEIN

un MAFIA

e un LANDO con le prime due pagine mancanti.

Lollo sfogliò vorace i fumetti, poi li imboscò in una delle mille tasche del giubbotto.

Arrivarono in Piazza Cesare Battisti. Dalla parte opposta, un insegna rossa con la scritta FILM PER ADULTI V.M.18 addobbava l’ingresso del cinema Astra.

- Hai  degli impegni per questa sera? – chiese Piero.

- Perché?

- Mi serve uno con la telecamera.

- Io non ho una telecamera.

- C’è l’ho io. Dovresti solo fare delle riprese.

Lollo lo guardò sospettoso.

- Che genere di riprese?

Piero sorrise tranquillo. Accese una marlboro e ne offrì una al proiezionista.

- Non preoccuparti. E’ per un match.

- Boxe?

- No. Backyard Wrestling.

- Che?

- Wrestling da cortile.

- Ah! E tu saresti un lottatore, giusto?

Lollo squadrò Piero da cima a fondo. Ne ricavò solo  un’impressione di  magrezza bestiale. Mentre finivano le marlboro, ci pensò su.

- Ho una mezza punta con una. Niente di serio. Almeno per lei. Io me la chiaverei vestita. Beh, se mi dà buca sono dalla tua. Comunque dovrai aspettare che finisca qui.

- D’accordo.

- Non ti prometto nulla.

- D’accordo.

Lollo allentò la kefia rossa. Ghignava.

- Così saresti un lottatore?

Entrarono nel cinema.

8.

Nello spogliatoio c’era  odore di piedi e calzini spugnosi.

Sandro era fermo sulla porta. Le pattinatrici si spogliavano senza pudore. Avevano cerotti, contusioni e tagli dappertutto. Erano coperte di sudore e sangue, ma sorridevano come se niente fosse. La rissa era già una cosa lontana. La partita, se partita c’era stata, finita.

Sandro accese una pall mall.

Una ragazza, mutande e reggiseno, era in piedi davanti a lui.

Era alta, slanciata, con un collo da cavalla e dei piedi immensi.

Sandro ne rimirava le falangi storte, spezzate, fasciate dai cerotti.

- Sono contenta di averti visto, – disse Cinzia.

Sandro tirò una boccata dalla sigaretta ed evitò di incrociare gli occhi di lei.

- Anch’io.

Cinzia si dondolò sui talloni. Rimasero in silenzio. Ancora una volta avevano esaurito le parole.

S’erano conosciuti al Due di Cigliano, una sera di due estati prima. Sandro ballava scatenato nella pista piena di corpi sudati. Quella sera era uno splendore. Giacchetta di lycra e jeans strappati. Anfibi doc. Saltava e pogava, facendosi largo a spintoni. La luce strobo della disco faceva sembrare la pista una vasca di anguille appena pescate. Quella sera tutti erano belli e strani. Poi il dj aveva tolto GigiDag e Black Sun dei Soundgarden aveva travolto la pista come un’onda. Allora una ragazza l’aveva urtato mandandolo quasi al tappeto. Lui l’aveva guardata e lei gli aveva sussurrato qualcosa all’orecchio. Sandro la trovò subito di uno stupendo pazzesco. Cinzia indossava una maglietta Fruit of the Loom e degli stivali da cowgirl. Aveva un’aria giudiziosa e spregiudicata allo stesso tempo. Quella sera uscirono dalla pista e già sulle scale cominciarono a chiacchierare. Ad ogni frase si piacquero sempre di più. Avevano la stessa età. Gli stessi gusti musicali. Le stesse paturnie. Per i loro diciassette anni poteva bastare. Si presero una bella cotta e passarono il resto della serata a baciarsi contro i vetri a specchio del corridoio d’ingresso. Continuarono a vedersi. Per due mesi le cose filarono per bene, poi Cinzia ci buttò dentro qualcosa di più. Qualcosa di serio. Ci scappò la parola amore e Sandro si irrigidì come una mummia. Conosceva già quella sensazione. Da quando aveva scopato per la prima volta. Ogni volta che una relazione si spingeva oltre certi limiti, si bloccava come se qualcuno gli mettesse un lucchetto di ghisa sul cuore e buttasse la chiave. Un senso di soffocamento gli prendeva la gola e gliela strizzava ben bene. Subito il fantasma di sua madre gli galleggiava davanti  come una cicatrice. Come il lato nero di un ricordo sgradito, indelebile. Allora la sensazione di soffocamento aumentava. E con quella l’infelicità. A quel punto decideva sempre la stessa cosa: fuggire, mollare, darsi alla macchia per un po’.

Cinzia era stata più tosta delle altre. Lei lo aveva capito sul serio. Non aveva ceduto tanto facilmente. Non lo aveva soffocato. Aveva provato a dargli tempo, a non caricarlo di responsabilità, a non pressarlo.

Sandro ne approfittò per togliersela di dosso. Prese ad uscire con un mucchio di ragazze contemporaneamente. Anche amiche di lei. Alla fine, Cinzia mollò la presa e sparì. A Sandro rimase un bellissimo ricordo lungo un’estate e un rimorso in più.

Ora però Cinzia era davanti a lui. Mezza nuda. E desiderabile.

Cinzia si dondolava sui talloni. Fu la prima a parlare.

- Come stai?

- Bene. Tu?

- E’ ok.

Di nuovo silenzio.

Cinzia avanzò di un passo.

- La matura?

- Andata. La tua?

- Pure.

Altro silenzio.

Il tizio in mutande Dolce&Gabbana fece capolino negli spogliatoi. Un filo rosso gli usciva dalla bocca, giù giù fino all’ombelico. Il tizio li guardò allucinato e andò via.

Cinzia avanzò di un altro passo.

- Adesso cosa farai?

Per un attimo Sandro fu tentato di raccontarle tutto. Del film, dell’Accademia, di loro due, di tutte le cose sceme che avevano fatto, del perché l’aveva lasciata, della sua frustrazione, della voglia di combinare qualcosa nella vita; ma non sarebbe stato facile spiegarle, tradurre in parole, frasi, quel guazzabuglio di emozioni e immagini che aveva dentro la testa.

- Non lo so ancora, – disse solo. E gli sembrò di sbagliare ancora.

Cinzia dovette accorgersene e socchiuse gli occhi. A Sandro ricordò sua madre ogni volta che lo riprendeva per qualcosa. Cioè sempre.

- E tua madre?

Appunto.

Lui girò la testa verso il corridoio (Micol e Rubino se ne stavano fumati marci contro il muro verde chiaro), poi buttò il mozzicone della sigaretta e non alzò lo sguardo.

Silenzio. Altro silenzio. Un muro di silenzio.

- Vieni anche tu alla festa?

Cinzia si passò una mano tra i capelli. Dietro di lei le altre ragazze vociavano chiassose, entrando ed uscendo dallo spogliatoio per farsi la doccia.

- Quale festa?

- Credevo foste venuti apposta. Stasera diamo un party abusivo al tempietto di Saletta. Aspettiamo che faccia buio e facciamo casino. Alla Micol l’ho già detto.

- Non durerà molto. Da quelle parti chiamano subito la pula.

Cinzia sfilò il reggiseno e lo puntò cattiva.

Sandro sostenne lo sguardo. Erano molto vicini. Troppo vicini.

Un odore muschiato e selvaggio salì dalla pelle di lei.

Qualche ragazza nello spogliatoio li indicò ridendo.

Gli occhi di Cinzia divennero freddi come biglie.

- E’questo il punto Sandrino.

9.

Alla cassa c’era un uomo grasso, calvo con gli occhi color mogano.

Lollo era sparito nella cabina di proiezione.

Piero pagò il biglietto e una porzione gigante di popcorn col caramello. L’atrio del cinema era desolato. Entrò nella sala e il buio lo avvolse. Un ragazzo sulla ventina e un uomo sulla quarantina, barbuto, stavano appoggiati al muro. Piero cercò un posto nella penultima fila. Nel buio, un nugolo di ombre si materializzarono attorno a lui. Erano i soliti guardoni, coi loro sguardi fissi, implacabili. Piero non si scompose. Continuò a sgranocchiare i popcorn.

Sullo schermo scorrevano dei titoli di testa bianchi su fondo rosso.

CICCIOLINA E MOANA AI MONDIALI.

Partì la prima scena. Un uomo passeggiava nervoso dentro una stanza. Fumava una sigaretta e controllava l’orologio al polso. Le immagini erano fioche, stinte, traballanti. L’audio era basso e disturbato. Anche Piero si accese una marlboro rossa. Il fumo si dileguò inosservato verso la galleria scura come una caverna. Piero cercò di concentrarsi sul film ma l’audio era davvero troppo basso. Il proiettore girava come una motoretta a benzina. Nel buio le ombre si aggiravano lungo le pareti della platea come anime in pena. Ogni tanto si sedevano poi riprendevano a girare con le mani in tasca e la testa incassata tra le spalle. Parlottii e sospiri. Brusio costante. Rumore di scoregge. Coppie senza età svanivano tra i rebighi e gli anfratti dietro lo schermo. Piero buttò il fumo dal naso e sgranocchiò altri popcorn. I guardoni lo abbandonarono. Doveva essere entrato qualcun altro. Una coppia regolare, sui trent’anni, andò a sedersi nella terzultima fila. Piero li sentì parlottare fitto. Alla ragazza scappò un risolino nervoso.

Sullo schermo, un sosia obeso di Maradona palleggiava in una specie di boschetto. Cicciolina e Moana entrarono nell’immagine. Una da destra. L’altra da sinistra. Avevano addosso delle pellicce scure. Nient’altro. Il sosia di Maradona smise di palleggiare.

- Ci faresti un autografo?

Un pensionato dalla faccia triste, in quarta fila, si agitò sul sedile di legno. Sbirciava il film con un giornale sulle gambe.

- E dove lo vorreste l’autografo?

- Sul culetto!

Il respiro del pensionato divenne un rantolo affamato.

Un ragazzo vagamente paninaro e un maturo signore con pizzetto e bastone da passeggio sparirono su per la scalinata che conduceva alla galleria.

La coppietta perbene attaccò a limonare.

I guardoni attaccarono a muovere le mani nelle tasche.

Il ragazzo di vent’anni e l’uomo barbuto attaccarono a strusciarsi.

Cicciolina, Moana e il sosia di Maradona attaccarono con le prestazioni acrobatiche.

Parlottii e sospiri. Un brusio costante. Rumore di scoregge. Poi l’audio saltò del tutto. Le pornoeroine tremolarono come silouette anni ’20.

Nella sala, nessuno fischiò. Nessuno protestò.

Solo Piero guardava lo schermo.

10.

La Ford Escort marrone correva sulla strada grigia e molle come una caramella mou. Attorno il liquame dei campi, il verde giallo della borracina, qualche cascinale. La macchina correva in avanti. Un airone solitario, disperso nella quiete dei campi, si alzò in volo. La macchina macinò altri chilometri. Superò lo svincolo per Ronsecco. Rubino guidava. Aveva la faccia pallida e gli occhi lucidi. Accanto a lui, Sandro, finestrino abbassato, testa in fuori. Il vento caldo tra i capelli. Gli insetti che gli pungevano le guance come schegge di legno. Seduta dietro, Micol sbrinzava dell’altro cioccolato su cartine Rolls. Alzò la testa. Delle case dipinte di giallo sfrecciarono fuori dal finestrino.

La Ford Escort girò per Lucedio. Superò la tenuta Darola, un piccolo viale alberato e proseguì fino a Madonna delle Vigne. Lì fermarono la macchina e scesero. La brughiera era arida di sterpi ed erbacce giallognole. Rubino fece una pisciata contro una grossa quercia.

In un bozzo del tronco era incastrata una piccola grata di ferro. Dietro la grata si scorgevano i resti bruciacchiati di un grosso alveare.

Micol e Sandro andarono a sedersi sui gradini di un piccolo cimitero. Il cimitero era circolare, circondato da un muretto bianco. Il cancello era chiuso da un grosso lucchetto. Rubino finì di pisciare, aprì una delle portiere della macchina e sintonizzò le frequenze su Radio Radicale.

- Se Hitler avesse vinto la guerra saremmo stati in crisi energetica perché avrebbe usato tutto il gas per sterminare i terroni

- Le sinistre hanno rovinato l’Italia. Votate le destre che danno più fiducia. Si vede dalle facce dei loro candidati. Viva l’Italia, il Re e DiPietro che ama l’Italia e si vede che è benestante, ma anche lui è stanco di questa tirannia centrista e vuole dare a cesare quello che è di cesare e a dio quello che è di dio, cioè, si, votate o non votate…ma…andate a cagare. Porcod

- I ballerini sono tutti froci…

- Pronto? pronto?…senti niente?…

- Ehi nigger! Lavatevi bastardi che la lega vi bastona adesso.

Brutti terroni che ci rubate il lavoro. Vi chiaviamo il cervello…

- Pronto?Pronto? Mi sa che ho sbagliato ancora…

- Ciao Ale, ti amo un sacco…

- Sapete cosa ho fatto ieri?Ho sborrato in bocca a mia zia 48enne. Dopo l’ho sodomizzata. Leccatemi l’orifizio frociiiiiiiiiiiiiiiiiii!

Sandro strappò un dente di leone dall’erba.

- Ho paura, Micol.

- Di cosa?

Sandro soffiò sopra il globo piumoso argenteo, disperdendone i semi.

- Di quello che ci aspetta.

Micol gli passò un flauto.

- Anch’io.

- Che facciamo?

Rubino venne a sedersi e mollò un peto. Scoppiarono a ridere.

- Porcozzio! Andiamo a quella festa del cazzo, – disse Rubino.

- Ciao. Mi chiamo Sabina voto Msi e vorrei sapere se c’è qualcuno disposto a leccarmi la figa. Grazie…

- Porca puttana troia vacca merda mi è andato male il compito di mate. Vi sputtano tutti, professori di merda, culatoni, figli di puttanaVacca con la figa aperta. Vi conosco uno a uno. Vi faccio il culo. Mi scopo vostra figlia. Glielo riempio di sborra. Chiaro? Stronzi…

- Volevo solo dire che Gesù vi ama, vi vuole liberare. Accettatolo nel vostro cuore…

- C’è l’ho grosso. Telefonatemi allo 02 34 56 63

- Per paura di essere infelici restiamo infelici per sempre, vero Lucia?…

- Su questa sono d’accordo, – fece Rubino mollando un’altra loffa.

11.

Il film terminò. Le luci non si accesero nemmeno.

Dalla cabina di proiezione vennero strani mugolii.

Il proiettore gracchiò come un ubriaco. Partì un’altra pellicola.

Nelle prime immagini, un uomo e una donna attraversavano il corridoio di uno squallido appartamento. Suppellettili vudù  e ragnatele arredavano la mobilia. L’uomo ne indicò una e ammiccò alla tipa.

- Il tipo di casa che fa pensare a Bela Lugosi, – disse l’uomo.

Lungo i muri della platea, le carovane di persone ripresero a girare frenetiche. Piero finì i pop-corn e andò al cesso. Sulla porta, due tizi attempati, con stivaletti di plastica verde, si palpavano l’inguine. Piero entrò nel cesso. I tizi gli sorrisero comprensivi. Nel cesso le piastrelle erano azzurrine. Gli orinatoi a muro erano intasati di merda secca e nera. Dietro ad un muro sbreccato, c’erano due figure. Una, in ginocchio, con la testa affondata nei pantaloni di quello in piedi. Erano due uomini. Quello in ginocchio sollevò un attimo la testa: aveva la faccia truccata e gli occhi stanchi. Quello in piedi aveva le mani grosse, le braccia grosse, il cazzo grosso.

Piero li superò senza scomporsi. I due gli sorrisero comprensivi e tornarono al lavoro. Piero andò agli orinatoi. La parete era piena di scritte, intasata di parole, di voci confuse incise con la forza, sputate con rabbia. Sulla parete, le parole crescevano, si arrampicavano, salivano, si intrecciavano, rotolavano, scendevano, si allargavano, si stringevano, si accavallavano come un tumore maligno.

Affascinato, Piero esaminò le grafie febbrili. C’era di tutto. Dalle tenerezze, agli amori frustrati, dagli sfoghi, alle speranze disilluse, dagli insulti, alle bestemmie surreali, dalle tragedie personali, alle invettive politiche. Voci e pensieri. Fantasmi dell’anonimato. Solitudini in stampatello.

12.

Alla fine decisero di andare alla festa. Si diedero appuntamento verso le dieci. Sandro scese in  Piazza ————–. Aveva ancora voglia di camminare. Fece via Pirandello e girò in via Guicciardini.

Nel suo palazzo, il cancello color panna era spalancato. Per le scale incrociò il vicino col cane yorkshire. Il cane abbaiò furioso. Il vicino non lo richiamò nemmeno. Muto e indifferente fumava una Kim e reggeva un sacchetto dell’immondizia. Il cane puntò le zampe e sbarrò il passo, continuando ad abbaiare. Il latrato amplificato riempì le scale. Sandro alzò una gamba e cercò di scavalcare il cane. L’animale tentò di mordergli una caviglia ma lo mancò. Il vicino scese le scale indifferente. Si passò una mano tra i capelli: erano così unti che poteva tirarci a lucido l’intero stabile. Sandro salì di corsa. Il latrato lo seguì fin sullo zerbino. Quando entrò in casa, il suo stato d’animo era tornato identico a quand’era uscito. Il corridoio era sgombro. In cucina l’unica luce veniva dal Panasonic acceso su una replica del Ferdinando Show sui furti dei nani da giardino. In punta di piedi, sgusciò nella cucina. Sulla cornice dello schermo erano stati incollati dei nuovi santini. Accanto alla tv, sopra la teca di vetro che riparava il videoregistratore Hitachi, c’erano altri santini. Andò al lavello. Prese un piatto semipulito, due banane, dei cracker. Dentro il cesto della frutta vide un mucchietto di santini. Aprì piano il frigo. Sua madre se ne stava riversa davanti alla Tv come un dinosauro moribondo. Russava. Sandro cercò il tubetto di maionese. Tra le confezioni di budini e un barattolo famiglia di Nutella c’era una gigantografia di San Gaetano da Tiene (1480-1547). Chiuse il frigo e scivolò nella sua camera. Chiuse a chiave. Si buttò sul letto. Il letto era cosparso di santini. Per non urlare, fumò l’ennesima pall mall. Il sorriso della Golia gli sembrò lontano anni luce. Poi spalmò la maionese sui cracker e li trangugiò assieme ad una banana. Cercò il telecomando e accese il Grundig accanto alla finestra.

Su Rai uno c’era la santa messa.

Su Rai due una replica del Gesù di Nazareth.

Su Rai tre il papa era ospite di un talk show.

Disgustato passò alle private.

Sul Canale n.5 c’era la replica del Ferdinando show.

Su Italia Network passavano un vecchio filmato su Jim Jones nella foresta della Guyana.

Su Rete n.4 Emilio Fido parlava della chiesa di satana.

Sandro schiacciò il tasto rosso del telecomando e le immagini implosero fino a diventare un puntino bianco.

Chiuse gli occhi. Un senso di nausea gli salì dallo stomaco.

Dalla camera di sua nonna venne una litania bassa e costante. Cori di voci recitavano il padre nostro, l’ave maria, il credo, l’atto di dolore, il GesùGiuseppeMaria, eccetera, e di nuovo il padre nostro. La moltitudine di voci penetrava i muri come burro. Una specie di jingle musicale interruppe un secondo le voci e Sandro riconobbe lo speaker di Radio Maria. Allora immaginò sua nonna stesa sul copriletto, con le mani giunte sul grembo, il rosario tra le nocche e gli occhi socchiusi, pronta per il trapasso. L’immagine lo fece rabbrividire. Non voleva invecchiare. Mai. Avrebbe preferito la morte più atroce a quella lenta agonia. No, a lui non sarebbe toccata. Era troppo bello, troppo energico per ridursi in quello stato. Probabilmente sua madre e sua nonna erano vecchie da sempre. La loro vita era stata una vita di merda. Priva di emozioni, di sogni, di qualunque cosa a parte l’invidia per gli altri. Non avevano coltivato niente, non avevano raccolto niente. Per quello s’erano ridotte a dei morti viventi. No, a lui non sarebbe toccata. Se ne sarebbe andato da quella casa, lontano dalla loro influenza, prima che potessero guastarlo. Fin da bambino aveva avuto paura di assomigliare a quelle due. Fin da bambino le aveva percepite come una minaccia, un pericolo costante.  Fin da bambino aveva giurato di regalarsi un’altra vita. Come in una fiaba, sognava spesso l’arrivo di qualcuno con un paio di trampoli che lo portasse via da quello squallore. Un clown, un domatore di leoni, un assassino, chiunque. Non venne mai nessuno.  Con vergogna aveva nascosto la sua famiglia agli amici e alle ragazze con cui era uscito. Solo Micol e Cinzia avevano conosciuto sua madre e se n’era sempre pentito. Una volta Micol gli aveva detto che tutti loro sarebbero finiti come i loro genitori, ne avrebbero ereditato le tare, i complessi, le manie e i fallimenti. Ognuno di loro, per quanto ribelle o sbandato, sarebbe rientrato all’ovile, perché in fin dei conti erano fatti con la stessa pasta. Erano cosa loro. Sandro non le aveva creduto. Con odio aveva giurato a se stesso di uccidersi piuttosto che diventare come sua madre. Tutta la sua adolescenza era andata in quella direzione. L’affrancamento era stato il suo  unico credo. S’era applicato in mille cose differenti, aveva provato di tutto, con foga onnivora aveva cercato di emergere in ogni attività. Ma solo il teatro gli aveva dato una nuova dimensione in cui sfogarsi e liberarsi del vecchio Sandro. Recitare l’aveva aiutato a dimenticare il suo passato. Su un palco, camuffato da qualcun altro  il suo destino non avrebbe potuto riconoscerlo. Si sarebbe fabbricato da solo i trampoli con cui saltare via da quella casa di morti, da quella città morta.  Solo uno spicchio di estate lo separava dal salto definitivo. Da solo. Avrebbe fatto tutto da solo. Come sempre.

Sandro guardò l’orologio a muro. Mancavano più di due ore all’appuntamento. Sbucciò la seconda banana. Le voci di Radio Maria ripresero a salmodiare trapanandogli il cervello. Si tappò le orecchie. Le voci lo raggiunsero comunque. Gli sembrava di avercele dentro la testa. Rimbombavano simili al latrato dello yorkshire stronzo.

Sandro saltò giù dal letto. Tirò le coperte, le raggomitolò con dentro tutti i santini e le buttò in un angolo della stanza. Strappò altri santini dai muri. Dall’armadio. Dai vestiti. Dalle pareti. Dal soffitto. Dal lampadario. Dal comodino. Dalle tende. E gridò. Picchiò sui muri. Tirò calci alla porta. Rotolò per terra come un epilettico. Poi accese lo stereo. Girò la manopola. Massimo volume. La cassetta con Cowboy from Hell dei Pantera stritolò le preghiere di Radio Maria. Phil, Rex, Diamone, Vinnie pigliarono a calci nel culo il clan di fedeli.

Sandro iniziò a pogare contro l’aria viziata della stanza. Si levò la maglietta dei Ramones. Saltò sul cornicione della finestra. Il vicino coi capelli unti passò sotto. Sandro gli sputò in testa. Il cane se ne accorse per primo e riattaccò il concerto, ancor più incarognito. Sandro sputò ancora. Si abbassò i pantaloni e pisciò sul cane. L’animale, impazzito, cominciò a correre in cerchio ed azzannarsi da solo. Il vicino, colto di sorpresa, provò a calmarlo e si beccò una morsicata alla mano e del piscio in testa. Alzò la testa verso l’alto e altri schizzi gli bruciarono gli occhi, cancellandogli l’espressione di indifferenza.

Poi la voce di Phil Anselmo rallentò il ritmo e anche Rex, Vinnie e Diamone lo seguirono. I suoni metallici e taglienti della canzone si impastarono tra loro, gorgogliando come demoni spompati. Lo stereo si inceppò. Sandro volò sul desk e il nastro magnetico saltò fuori in un gomitolo luccicante. Sandro imprecò tra i denti e sfilò piano la cassetta  per non rovinare il nastro. Tra le testine vide un grosso pezzo di carta piegato. Non ebbe bisogno di aprirlo per riconoscere San Venceslao (martire duca di Boemia, 907-929).

Chiuse gli occhi. Spossato. Il viso di gesso. Calde lacrime gli allagarono le guance. Dalla camera di sua nonna Radio Maria regnava  incontrastata.

Forse non esistevano trampoli abbastanza alti per sfuggire da quella casa. Da quell’orrore.

E gli occhi della Golia erano lontani trilioni di anni luce…

13.

Non era ancora sera. Non era più giorno.

Il cielo era giallo. Il sole arancione andava smorzandosi.

La Lancia Dedra verde metallizzato procedeva sulla statale.

Il tachimetro fisso sui novanta chilometri l’ora.

All’interno, il primo fratello Inzirillo teneva la fronte appiccicata al finestrino posteriore. Il fiato appannava il vetro e lui giocava a disegnarci sopra dei paesaggi stilizzati.

Il secondo fratello Inzirillo sedeva accanto al guidatore e leggeva un fumetto su un tizio che faceva il frenatore a Dresdo. Al secondo fratello sarebbe piaciuto molto fare il frenatore a Dresdo.

Il terzo fratello stringeva il volante e pensava. Pensava alla telefonata del Bibliofilo. Pensava a quello che gli aveva detto e si chiedeva come avrebbero fatto quelli dei piani alti a mettere tutto a tacere. Cinquecento chili di plastico non erano uno scherzo. Ci avrebbero aperto un cratere lunare, ma a lui importava poco. Non era pagato per pensare. Andava bene così.

Accese la radio. Ragazzi d’Italia di Ron. Verso la fine il dj tranciò la musica per annunciare trafelato i nuovi arresti della giornata.

Quattro imprenditori (di cui due molto noti), un alto ufficiale della guardia di finanza, un paio di politici di mezza tacca. Il paese era sconvolto, alla stremo, sull’orlo del baratro. Il dj parlava, blaterava, tracciava scenari inquietanti.

Il terzo fratello girò la manopola e ammutolì la radio.

Fuori il cielo era diventato rosso. Faceva sempre caldo.

Tutto andava a meraviglia. In superficie.

14.

Lollo e Piero uscirono dall’Astra. Una sera blu elettrica li accolse. Stormi di zanzare si azzannavano tra le chiome degli alberi e i primi lampioni illuminati. I due accesero le sigarette. Un attimo dopo, una Y10 amaranto si fermò davanti a loro. Dal lato passeggero, scese un tipo con dei dread e una maglietta del Brasile. Dread abbracciò Lollo.

- Ciao faccia di cazzo!

Lollo indicò Piero.

- Viene anche lui.

Dread si girò verso Piero.

- Ciao, io sono Walter.

- Ciao, Piero.

- Okay, montate. Siamo già in ritardo.

Walter sollevò il sedile. Lollo e Piero salirono dietro. Il guidatore si voltò di ¾. Era vestito come il pupazzo di McDonald, Ronald. Aveva la bocca rossa, una parrucca rossa piena di riccioli e la faccia cosparsa di cerone. Puzzava di fritto.

- Questo è Ivan, lavora al McDonald di Caresanablot, – spiegò Lollo.

Piero lo salutò. Ivan no. Walter si fiondò nella vettura e chiuse la portiera. Si agitava tutto, schiaffeggiandosi in continuazione le braccia e il collo.

- Puttanamadonna! Parti che ci sbranano!

Un pugno di zanzare entrò nell’auto.

Ivan fece fischiare le gomme e l’auto balzò via. Lasciarono Piazza Cesare Battisti, risalendo verso il viale Garibaldi. Su viale non c’era  nessuno. Era ancora presto. Sopra di loro la luna cominciava ad essere visibile. Piero controllò l’ora. Aveva tempo. Forse aveva trovato la gente giusta.

15.

Il Colonnello strisciò dietro una Duna. La strada era sgombra. Non sembrava esserci nessuno. A parte quel maledetto rumore di risucchio che lo seguiva dappertutto. Il Colonnello tastò lo squarcio sulla gamba. Il tessuto arrotolato aveva fermato il sangue, ma presto la ferita si sarebbe infettata. Quei cosi lo avevano morso. Erano come bestie rabbiose. Anzi, peggio. Erano morti! Dei fottuti morti con denti da caimano! Nonostante la lentezza, quelle cose avevano trucidato la sua squadra, l’avevano messa fuori gioco con facilità. Lui stesso aveva visto alcuni dei suoi ragazzi accerchiati da quegli esseri. Avevano sparato degli interi caricatori ma quei maledetti non erano morti. Solo quando li centravi in testa si accasciavano al suolo per rimanerci. Quello era l’unico modo. L’unico che conosceva.

Il risucchio si avvicinava…

Chi l’aveva spedito in quel paese non gli aveva detto tutto. Avevano mentito. Per la prima volta, il Colonnello si sentì usato. Dopo tutti quegli anni di “lavoro sporco” l’avevano trattato come uno straccio da buttare. Prima o poi doveva succedere. Sapeva troppe cose. Aveva visto troppo cose. Conosceva i loro segreti. Se anche fosse riuscito a salvarsi, avrebbero fatto in modo di congedarlo per sempre. Era troppo realista per prendersi in giro. Alimentarsi con false speranze. Da lì non sarebbe uscito sulle sue gambe. Tanto valeva vendere cara la pelle. Di sicuro avrebbero mandato qualcun altro a recuperare la scatola e quei cosi l’avrebbero mangiato come avevano fatto con la sua squadra. Per lui la missione, tutte le missioni, erano terminate. Da quel momento sarebbe contato solo sopravvivere il più a lungo possibile. Basta.

Il risucchio, liquido, gorgogliante si avvicinava…

Il Colonnello annodò la fasciatura sulla gamba e strinse i denti per non gridare. Poi ricaricò la broken butterfly e continuò a strisciare lungo le auto. I risucchi cessarono. Delle nuvole filiformi attraversarono la falce della luna come rasoi.

Da qualche parte in fondo alla strada, la morte lo stava aspettando acquattata nel buio.

16.

In via Trento c’era una palazzina grigia a due piani. Accanto la scuola elementare. La palazzina aveva le tapparelle abbassate ma il cancello era spalancato. Nel vialetto interno c’erano delle vetture. Lollo, Walter e Ivan lasciarono la macchina sul marciapiede ed entrarono. Piero li seguì. Nelle scale incrociarono un ragazzo con una felpa grigia e scarpe da tennis. Il ragazzo passava il mocio.

- Hanno già cominciato? – chiese Walter.

Il ragazzo fece di no con la testa e tornò ad agitare il mocio. Allora ripresero a salire fino ad un ballatoio con porta spalancata. Oltre la porta c’era della gente. Piero guardò Lollo. Il proiezionista era silenzioso e visibilmente agitato. Le vene del collo gli pulsavano come fili elettrici e continuava a deglutire. Oltre la porta, una donna grassa coi capelli meshati, sulla cinquantina, venne loro incontro. Era infilata dentro un vestitino succinto color pompelmo. Niente collant. La donna sorrideva come un barbagianni. Lollo si rimpicciolì dentro al suo giubbotto militare.

- Stasera è un pienone, – esordì la donna, – mettetevi a sedere finché c’è posto.

Walter la ringraziò e sparì nella calca. Lollo rimase pietrificato davanti alla tipa. Tremava e deglutiva, come se stesse per vomitare.

Dietro di loro altra gente stava salendo i gradini, accalcandosi sul ballatoio. Ivan spinse in avanti il proiezionista. Anche Piero si mosse, sempre più incuriosito.

Nel corridoio un numero di facce si girarono a salutarli. Sembravano conoscersi tutti. Piero salutò comunque ma nessuno lo considerò. Entrarono in una stanza a metà corridoio. La stanza era abbastanza grande, senza arredamento, a parte delle sedie disposte lungo i quattro muri. Piero cercò un posto. In meno di un minuto i posti a sedere finirono e un mucchio di gente rimase in piedi. Piero cercò con lo sguardo i suoi compagni. Ivan, ancora camuffato da Ronald il clown, era alla sua destra e fumava apatico. Walter stava vicino alla porta della stanza e si lisciava i dread. Lollo, invece, era sparito. Nella stanza, tutti vociavano eccitati in attesa di qualcosa. Piero accese una marlboro e aspettò. Seduto accanto, un signore in abiti antichi da primo Novecento si sporse verso di lui.

- E’ la prima volta?

- Prego?

- E’ la prima volta che viene qui?

- Si.

- Capisco. Sa, io conosco tutti qui e lei non l’ho mai vista. E’ un giornalista?

- No.

- Lavora per la tv?

- Nemmeno.

- Capisco.

Deluso, abiti antichi smise di parlare e si raddrizzò sulla sedia.

La cicciona cinquantenne entrò nella stanza e il vociare smise di colpo.

- Dio, sei bellissima, – disse qualcuno tradito dall’improvviso silenzio.

Piero riconobbe la voce del proiezionista. Se ne stava addossato alla porta della stanza e fumava intristito. La cicciona sfregò le mani sudate sul vestito color pompelmo e non lo filò nemmeno.

- Ci siamo tutti? – chiese, – C’è qualcuno nuovo?

Abiti antichi saltò in piedi e sbracciò verso Piero.

- Lui è una spia del governo, – urlò.

Subito il brusio riprese, accendendo gli animi come paglia.

- Un momento signori, un momento, vi prego, – disse la cicciona, faticando per riportare la calma.

- E’ un direttore dell’Ospedale psichiatrico, – rincarò abiti antichi.

- Lasciamolo parlare, – sentenziò la cicciona.

- Sei bellissima, – borbottò Lollo sempre più triste.

Piero sentì gli sguardi dei presenti spogliarlo e analizzarlo pezzo per pezzo. Sorrise a tutti. Si stava divertendo un mondo.

- E’ con noi, – fece Walter, – E’okay.

- Ha qualcosa da raccontare? – chiese la cicciona, infastidita da quel contrattempo.

- Non credo. E’ qui solo per ascoltare.

-Bene, – e il brusio si smorzò una seconda volta.

Abiti antichi mugugnò qualcosa sotto voce, poi si chetò del tutto.

- Nessun altro? – la cicciona squadrò la stanza.

Non ci furono altre obiezioni.

- Bene. Chi comincia?

17.

In cucina, Silvana e la nonna. Stavano a capo chino sui piatti di minestra fredda. La luce della tv irradiava il tavolo e le posate di una luce azzurrina. Bellissima. C’era una replica del Maurizio Ferdinando Show   su della gente con la testa a punta. Il volume era alto, simile a un rollio. Sandro entrò in cucina. Andò al lavello. I piatti sporchi erano aumentati. Cercò un bicchiere pulito. Non ne trovò nessuno. Aprì il rubinetto e avvicinò la bocca al getto. L’acqua sapeva di formaggio ed era bollente. La temperatura nella cucina era altissima. Sandro si strofinò la bocca con il dorso della mano. Le due al tavolo balbettarono qualcosa. Dalle finestre spalancate, zanzare simili a uccelli neri sbattevano contro le zanzariere. La nonna alzò gli occhi dalla minestra. Occhi rossi, semiliquidi, da cadavere vivente. Sandro sentì dei crampi allo stomaco. Fece per andarsene, ma la voce schifosa della vecchia lo raggelò sulla soglia.

Le gambe, bloccate, non risposero più ai comandi.

- La mamma s’è pisciata addosso un’altra volta, – mormorò la nonna.

Il volume della tivù si alzò ancora di più. Il rollio aumentò. Sandro si voltò a fatica verso il tavolo. Stava sudando. Indossava dei jeans chiari e una maglietta degli Atlanta Braves. Gli occhi iniettati della nonna lo cercarono. Nella stanza si diffuse una gran puzza di piscio. Sandro guardò sua madre. Silvana sedeva ingobbita sul piatto. Aveva la solita vestaglia. Su una spalla, la lunga treccia nera di capelli le faceva la guardia come una lontra imbalsamata. Silvana portava il cucchiaio alla bocca con regolarità, producendo un disgustoso risucchio. Accanto al piatto delle scatole vuote di Valium, Xanax, Halcion.

La nonna sorrise maligna. Un rictus le alterò le labbra simili a vesciche. Silvana alzò la testa dal piatto. Dai piccoli occhi neri sprizzava scintille di odio e vergogna. Il volume della tivù aumentò in modo bestiale. Il rollio fece vibrare i muri e la tavola. La luce azzurrina del teleschermo ingoiò la cucina, mandando un odore di carne bruciata. Sandro socchiuse le palpebre. C’era davvero troppa luce. La nonna continuò a sorridere. Gli occhi somigliavano a bottoni neri.

- Sandrino, la mamma s’è pisciata addosso, ed è colpa tua, vero? L’hai fatta arrabbiare e lei non è riuscita a controllare la piscia, vero? Ora dovrai recitare le preghiere Sandrino…tutte le preghiere, perché hai peccato e sarai punito, si?

Sandro sentì il mal di pancia impossessarsi di tutti i suoi organi.

La luce formicolante gli bruciò gli occhi.

Per favore nonna…, – piagnucolò.

La nonna non lo ascoltò e affondò le mani ossute nelle tasche della gonna. Una serie di santini colorati come caramelle caddero in fuori, ricoprendo il pavimento della cucina. Le tasche della nonna continuarono a vomitare le figurine. I santini uscivano come un fiume in piena, inarrestabile. L’odore di piscio e formaggio aumentò. I santini si sciolsero sulle piastrelle, formando una bava lucida piena di bolle.

- Per favore nonna…

La nonna si alzò dal tavolo e si avvicinò minacciosa con le sue mani simili a grossi ragni neri. Rideva. Un fiato putrido le usciva dalle labbra. Allora Sandro respirò forte. Schiodò le gambe e afferrò un grosso forchettone ricurvo. Lo affondò nel petto della nonna. Quella iniziò a urlare e dimenarsi. Anche Silvana urlava e si tirava la treccia di capelli. Sandro ignorò le grida. Cercò di concentrarsi. Continuò a colpire. Sul petto. Sulla pancia. Sulle mani. Sul viso. Sul collo. La nonna crollò a terra piena di buchi. Geyser di sangue le uscirono dalle ferite allagando la cucina. Il sangue rancido imbrattò le pareti. Schizzò con violenza sul teleschermo, sulla credenza, sulla tavola. Brandendo il forchettone, Sandro si buttò su sua madre. La tagliò, la fece a pezzi, la disintegrò, la… Poi la tivù esplose.

- Sandro, Sandrino, ti senti bene?

La nonna lo guardava apprensiva. Sandro era ancora al lavello. L’odore di piscio era scomparso. Quello di formaggio no. Alla tele c’era una replica del Maurizio Ferdinando Show sulla Rinotracheite bovina. Il volume era ok.

- Sandrino, sei pallido, vuoi del brodo caldo?

La nonna, petulante, lo cercava coi suoi occhi malati.

Sandro sbatté le palpebre un paio di volte per capire se era sveglio. Controllò i vestiti e le mani. Non erano sporchi di sangue. Dall’altra parte del muro un bambino piangeva forte. Sandro sentì i crampi tornare all’attacco. Cercò il forchettone ricurvo. Era al suo posto ma non sapeva per quanto ancora. Doveva uscire da quella casa. Non resisteva più.

- Io esco, – bofonchiò lasciando la cucina.

- Tuo padre è Gesù, – disse Silvana inzuppando la treccia di capelli nella minestra.

Per fortuna Sandro non la sentì. In corridoio aprì la borsetta, rubò altre dieci carte e un pacchetto intonso di Merit. Poi si spruzzò dell’Autan sulle braccia e sul collo. Sul pianerottolo, il bambino aveva smesso di piangere. Non c’erano altri suoni a parte quelli della televisione. Accostò la porta e non gli venne da piangere. Scese le scale lentamente. Sperava che quella notte succedesse qualcosa.

Qualunque cosa.

18.

Uno si chiamava Luca Imerone. Era sceso in cucina per bere, allorché udì dei passi nel cortile di casa. Accese la luce e vide il suo pastore maremmano immobile col pelo dritto. Imerone avvertì un odore intenso di bruciato. Allora corse a prendere la torcia elettrica e vide un uomo in tuta aderente, lucida, color argento: l’essere lo fissava con occhi da gatto e non parlava. Dopo un po’ l’essere si librò in aria come una libellula e sparì dietro delle piante di acacia. Nei giorni successivi, Luca Imerone dovette sopportare alcuni disturbi intestinali.

 

Uno si chiamava Silvano Visentin e faceva l’agente di borsa. La notte del 31 Agosto del 1987 transitava lungo la provinciale per Mottalciata con la sua fidanzata, quando videro un globo luminoso provenire da un bosco nelle vicinanze. Fermarono la macchina e raggiunsero le luci multicolori. Dalle luci uscì una figura umanoide con la testa a forma di incudine e due luci intermittenti rosse al posto degli occhi. L’essere era nudo, senza genitali, come un bambolotto Big Jim e aveva i piedi invisibili. L’umanoide li indicò.

- Lei chi è? Io non la conosco, – disse con una voce da scheda elettronica.

Silvano, che all’epoca era mostacciuto e massiccio, prese la fidanzata e filò via.

 

Uno si chiamava Daniele Marchetti e faceva il barbiere a PonteStura.

La sera del 17 settembre 1988 uscì dalla casa in cui abitava e salì sull’auto (una Fiat 127 gialla). La macchina però non partì. Il Marchetti allora aprì il cofano spazientito. Dentro c’era un nano con tuta verde e un grande casco trasparente. Il nano aveva la faccia scarna con gli zigomi sporgenti alla Massimo Ranieri e le labbra sottili. In cima al casco c’erano delle antenne radio.

- Non ci sono più le mezze stagioni, – disse il nano.

Poi uscì dal motore, girò intorno alla 127 e decollò velocemente in cielo senza voltarsi indietro.

 

Una era Daniela Tripolini. Faceva la veterinaria e viveva al Canadà ( non lo stato ma il quartiere di Vercelli). La notte del 23 Dicembre 1991 stava rientrando a casa da una visita a dei parenti. Imboccata la provinciale, vide una Fiat 1100 ferma di traverso sulla carreggiata. La Tripolini accostò l’auto e , prudente, si avvicinò alla vettura. Vide due donne sui sedili posteriori zitte a leggere l’Eusebiano. Le donne indossavano delle tute di plastica brillante. Erano bellissime. Una delle due alzò gli occhi dal giornale e chiese alla Tripolini cinquantamilalire in prestito. Poi un disco volante cilindrico planò sulla 1100. Ci fu una fiammata e le donne svanirono come Houdinì.

 

Uno era Giovanni Codogno e faceva l’agricoltore a Rovasenda. La mattina del 9 luglio 1990 si trovava su uno dei suoi terreni, quando vide un umanoide alto 3 metri con il corpo di metallo grigio e gli occhi a raggi laser. L’essere emetteva un ronzio sinistro. Il Codogno, spaventato, gli intimò di andarsene.

- Voglio rinascere ebreo, ricco e leghista, – disse l’alieno prima di alzarsi in verticale e scappare tra le nuvole.

 

Uno era Bruno Vacchino e faceva il dongiovanni tutte le volte che poteva. Viveva a Saluggia con i genitori anziani e d’estate andava a Varazze a rimorchiare le turiste tedesche. Una notte del 7 giugno 1988 stava effettuando un normale giro di controllo sul lungomare quando incrociò una figura con un ampio mantello azzurro che la copriva dalla testa ai piedi. Il Vacchino pensò subito ad una zingara e rincorse la figura; questa si girò sparandogli contro una specie di flash. Vacchino si sentì sballottato per aria e vide la terra allontanarsi come da un oblò. Nella testa una voce continuava a ripetere, a che piano scendi? a che piano scendi?…

 

Uno aveva incontrato un alieno con tuta da astronauta e squame da pesce sulla testa.

- Non mi sono mai divertito tanto, – aveva detto l’alieno.

 

Uno era stato rapito da cinque esseri alti come un bambino di otto anni. Gli esseri avevano detto di chiamarsi Ziofà.

 

Uno aveva visto un disco volante spostarsi nell’aria, velocissimo.

Una voce era uscita dall’ufo.

- Minchia, senti come sgommo!

 

Uno, al passare della cometa di Halley, bussò all’osservatorio astronomico  per dire che dentro c’era il mostro di Firenze.

 

Uno…

19.

Sandro camminò fino all’Oscar Wilde. Lì aspettò che si facessero le dieci. Consumò due medie e un Irish Coffie e fumò metà pacchetto di Merit. Verso le dieci attaccarono a suonare i Dammercide, un gruppo metal della zona. Sandro si piazzò davanti alla pedana rialzata e le prime note di Crimson Spring lo colpirono come un maglio. Dopo mezzora il locale era pieno di fumo e gente. La band s’era scaldata al punto giusto. Il cantante, a torace nudo, ciondolava sulla pedana come uno scarafaggio sbudellato. Strillava nel microfono. Gli occhi rossi come brace. Alle sue spalle il bassista, capelli lunghi, biondi, assomigliava vagamente a Kurt Cobain.

Micol e Rubino arrivarono alle dieci e mezza. Vestiti di nero. Entrambi con una maglietta dei Chrisma. Rubino s’era tagliato i capelli. Non li portava più a spina, ma esibiva una cresta da moicano con le ciocche bianche raggrumate e dritte come i raggi di una ruota. Una grossa spilla da balia gli perforava in verticale una guancia. Anche Micol aveva aggiustato i capelli. Le ciocche rosa shocking partivano come missili da tutta la testa, sfidando la legge di gravità. Mezzo locale si fermò a guardarli con ammirazione. Anche i Dammercide rallentarono il ritmo per adocchiarli. I due dark ascoltarono mezza canzone, poi storsero la bocca e andarono al bancone. Sandro li raggiunse. Dopo un paio di birre uscirono tutti e tre. La Ford Escort era parcheggiata davanti al Ristorante S.Giovanni. Fecero un salto da Cecco.

Lì, tre ragazzi obesi con bomber rosa se ne stavano impalati davanti al megaschermo a muro. Sandro riconobbe subito la replica del Maurizio Ferdinando Show sul morbo coitale maligno della mosca e pensò a sua madre e sua nonna imbalsamate alla tivù. Prese un coka e rum per dimenticare. Siccome non riusciva a partire ne ordinò un altro. Poi attaccò con la birra e le sigarette. Micol e Rubino si buttarono su uno dei sofà vicino ai bagni. Accanto a loro, un tipo con una tuta Adidas bianca con le strisce bianche lungo le braccia e le gambe e scarpe superga parlava forte ad un cellulare grosso come una casa.

- In quando l’ho imparato? – diceva strofinandosi le gengive, – in un battibaleno! La verità è che chiunque può imparare qualunque lingua nel sonno. Basta mettere un registratore sotto il cuscino. Lo avvii di notte e assorbi inconsciamente la lingua che vuoi. E’ così che ho capito il giapponese.

Micol e Rubino squadrarono il tipo e storsero la bocca. Sandro finì le Merit. Micol le marlboro light. Rubino le camel. Lasciarono Cecco e se ne andarono al Roxy Bar. Comprarono sigarette e cartine. Erano le undici passate. Micol mise su la cassetta di Three Immaginary Boys. La Ford Escort prese la strada per Asigliano. Superarono il bivio di Costanzana. I fari illuminarono un cartello pieno di ruggine e buchi. Saletta. Erano arrivati.

20.

Parlarono tutti. Ognuno del suo incontro ravvicinato. Del suo rapimento. E del ritorno sulla terra. La cicciona regolò gli interventi, disciplinando le domande. Piero ascoltò rapito tutti i racconti. Tutti i presenti avevano gli occhi grandi come fanali ed erano infervorati. Nonostante l’aria condizionata, sudavano e c’era chi balbettava per l’emozione. Ma nessuno ebbe paura a raccontare la propria storia. Dentro quella stanza, in quel minuscolo pezzo di mondo, quelle persone erano come protette, ascoltate, credute. Nessuno li avrebbe giudicati dei pazzi. Nessuno li avrebbe internati in un manicomio. Imbottiti di pillole. Isolati. Non lì. Non in quella stanza. Chiunque fossero, qualunque fosse la loro storia, la cicciona li avrebbe difesi. Piero provò una naturale simpatia per quella gente. Non dubitò di nessun racconto e si dispiacque di non averne uno suo.

La riunione finì e la gente lasciò la stanza continuando a parlottare. Anche Piero lasciò la sedia. In corridoio, Walter e Ivan fumavano tranquilli.

- Allora ti è piaciuta? – chiese Walter.

- Molto. Non credevo esistesse una cosa del genere.

- Andiamocene. Voglio levarmi questa merda, – disse Ivan pizzicandosi il costume da Ronald il clown.

Walter allungò il collo verso il fondo del corridoio.

- Dov’è Lollo?

Davanti a loro c’era un’altra porta. La aprirono. Dava in una specie di ripostiglio color malva. Lollo se ne stava supino con la faccia in una chiazza di vomito e una bottiglia di J&B vuoto in una mano.

Walter e Ivan lo tirarono su. Lollo era pallido come un vampiro e semicosciente.

- Che cazzo hai combinato? – sbottò Walter.

- Io la amo, – ruttò Lollo, pulendosi la bocca nella kefia rossa.

- Io la amo, – urlò con le forze rimaste.

Walter e Ivan lo scrollarono come un bambolotto.

- Cosa ti urli?

- Che succede? – la Cicciona entrò nel ripostiglio.

A Piero parve di stare in un film dei fratelli Marx.

La Cicciona guardò schifata la chiazza di vomito poi, ancora più schifata, guardò Lollo.

- Dammi una mano a portarlo fuori, – Walter e Ivan afferrarono il protezionista sotto le ascelle e lo trascinarono nel corridoio. Arrivò il ragazzo con la felpa grigia e il mocio. Fissò il vomito.

- Merda, straordinari! – disse.

Walter, Ivan e Piero uscirono dalla palazzina. Il protezionista, in coma, si lasciò caricare sulla macchina.

- Dove ti lasciamo? – chiese Walter, riprendendo a schiaffeggiarsi le braccia.

Piero controllò il protezionista steso sul sedile. Era andato. Poi controllò l’ora.

- Avete degli impegni?

Ivan si incastrò al volante, sfilandosi la parrucca rossa.

- Perché?

- Ho bisogno di un favore.

Walter schiacciò un paio di zanzare. Aveva fretta. Voleva andarsene da lì.

- Mi serve qualcuno per fare delle riprese con una videocamera.

- Che genere di riprese? – Walter era sempre più impaziente.

- Per un match!

- A quest’ora?

- All’alba.

- E’ uno scherzo, vero?

- No.

Walter sollevò il sedile e fece segno a Piero di salire. Le zanzare se lo stavano divorando.

- Ehi amico, io sono stanco morto. Porto a casa questo sacco di merda e passo la mano. Magari un’altra volta, okay? Okay!

Ivan girò la chiavetta d’accensione. Walter richiuse la portiera.

Boxe? – chiese senza interesse.

- No. Backyard Wrestling.

- Come?

- Wrestling da cortile. Amatoriale.

Ivan si girò di 3/4 . Il trucco da Ronald il clown cominciava a seccare sulla pelle. Squadrò Piero da cima a fondo e ne ricavò solo un’immagine sfuocata, macilenta.

- E tu saresti un lottatore?

Dall’autoradio uscì Rise dei PIL.

21.

Rubino parcheggiò la Ford Escort in una macchia d’alberi dietro la chiesa sconsacrata di Saletta. Poi camminarono verso la campagna. Nel buio vedevano appena il lungo viale alberato che conduceva al tempietto. Lungo il tragitto, Rubino sdrumò una marley. Micol tenne la faccia puntata in alto, verso il cielo stellato. Sandro respirò a pieni polmoni l’aria tiepida. Sentiva le zanzare agitarsi nel nero come tanti tossici. Sandro osservò le terre cupe e quasi disabitate che li circondavano. Lontano, solo qualche vecchia casa. Nessuna luce all’orizzonte. La città era troppo lontana. Davanti a loro, a un duecento metri, nascosto da un boschetto di querce, salici e siepi varie, stava il tempietto. Su quel posto aveva sentito le storie più strane. Fatti di cronaca, leggende, dicerie. C’era chi giurava di aver sognato quel posto senza esserci mai stato; chi aveva visto delle strane luci alle ore più strane della notte; chi era rimasto a piedi col motorino dopo esserci passato davanti. In quel posto, anni prima, c’era morta davvero una ragazza delle magistrali. Al tempietto, Sandro c’era stato un po’ come tutti: per portarci una ragazza, per fumare dell’erba in santa pace; ma sempre di giorno. Non era mai successo niente di strano, ma l’aura sinistra del posto l’aveva avvertita pure lui.

Il vialetto terminò in corrispondenza del boschetto. I tre ragazzi saltarono un piccolo fosso e si addentrarono nella vegetazione. Avanzarono lentamente, per non trovarsi con dei rami negli occhi. Arrivarono ad un muretto di pietra preceduto da un piccolo vallo. Scavalcarono il muretto. Oltre, stava il tempietto immerso nella quiete della notte. Era rotondo con dodici colonne con un basamento elevato e una scalinata per salirvi. Dalla facciata sbucò della gente. Il silenzio fu rotto da un miscuglio di voci. Si accesero delle luci. Il rumore di un generatore. Qualcuno aveva portato delle luci strobo. Da delle casse nascoste sotto il frontone uscirono le note distorte di Open Up dei PIL. Micol e Rubino batterono le mani come bambini al luna park. Le luci azzurre alonarono la punta dei loro capelli. Altra gente uscì da dietro il tempietto. La musica avvolse il boschetto come una cupola gelatinosa. La gente cominciò a stordirsi e ballare tra le siepi di lauro e carpo. Sandro salì le scale. Sotto l’architrave, su un altare di marmo giallo, c’era una specie di buffè, con centinaia di bottiglie di vodka e birra gelata. Una tipa con abito di seta a palloncino, collant strappati e piercing al naso gli riempì un bicchiere di carta con della vodka alla fragola. Sandro lo ingollò con un sorso. La ragazza gliene versò un altro. Sandro accese una merit di sua madre e girò attorno alle colonne. Il tempietto si trovava su un terrapieno con una lieve pendenza. Sandro si sporse da una delle colonne e guardò di sotto. Una bolgia di ragazzi ballavano e pogavano felici. Tornò al buffè. La ragazza non c’era più. Al suo posto, un ragazzo in giacca Dior e canottiera blu con un collare per cani con le borchie attorno al collo, si versava un’intera bottiglia di vodka nei pantaloni. Il ragazzo sorrise.

- Hai qualcosa? – chiese con gli occhi a palla.

Sandro lo guardò senza capire.

- Cosa?

- Coca. CoCaCazzo.

- No.

Il ragazzo lo tirò per un braccio. Una schiuma bianca gli bagnava i lati della bocca.

- Un grammo, cazzo. Me ne basta un grammo. Un solo grammo…

Sandro scese nel terrapieno. L’odore di hashish era ovunque.

Tutti ballavano. Tutti bevevano. Tutti collassavano.

Nella bolgia intravide Cinzia. Aveva una camicia di taffettà e gonna di cotone con stivaletti neri. Era perfetta. Girava con un bicchiere di carta e lanciava occhiate ansiose dappertutto. Sandro valutò se raggiungerla, ma il desiderio del pomeriggio aveva lasciato posto ad un remoto distacco. Tornò indietro e si portò sul retro del tempietto, verso l’ingresso della cripta. Open up sfumò a medley nella risata di Johnny Rotten all’inizio di Anarchy in the U.K.

La gente incominciò a rotolarsi sull’erba. L’aria si incendiò. Le zanzare aumentarono. Le ragazze si sfilarono gli stivali. Piedi nudi guizzarono sul prato. Altre si sfilarono maglietta, camicette, reggiseno. C’era chi correva. Chi si picchiava. Chi urlava alla luna. Sandro si appoggiò al basamento. Sul muro c’era una scritta in stampatello: NONOSTANTE L’INTERVENTO DI DIO I BAMBINI DI BALZOLA NASCONO ANCORA STUPIDI. Una ragazza con i capelli giallo piscio dritti come spine, lo puntò negli occhi. Sandro rimase appiccicato al muro. A parte una sottoveste color oro, la ragazza era nuda ed era la fine del mondo. La giovane ancheggiò fino a lui. Felina. Spregiudicata. Sicura di sé. Doveva avere diciotto anni massimo. Fumava una camel senza filtro. Lei lo prese per mano e lo tirò verso l’orbita tenebrosa della cripta. Sandro non oppose resistenza. La vodka cominciava a fare effetto. Con le gambe molli e la testa affollata di pensieri, si lasciò trascinare giù per i gradini di pietra. La cripta rievocava la pianta esterna del tabernacolo. Era circolare. Buia, con un corridoio anulare con archi e pilastri. Laggiù l’aria era meno incandescente. Non sembrava esserci nessuno. Giallopiscio lo spinse contro il muro umidiccio. Cominciarono a limonare. Giallopiscio gli aprì la zip dei jeans e s’inginocchiò. Sandro la sentì schioccare la lingua sulla cappella e succhiargli l’uccello. La prese per i capelli. La biondina gli leccò le palle. Le pulì per bene. A un certo punto si appoggiò su uno dei pilastri e allargò le gambe. La sottoveste oro saltò via. Sandro le entrò da dietro. Iniziarono a muoversi meccanicamente, senza trasporto. A Sandro sembrò addirittura che il cazzo gli si ammosciasse. Allora pensò agli occhi smeraldo della Golia e riprese a pompare con foga. Affondò le dita nella bocca di lei. Le frugò dentro. Giallopiscio si agitò ben bene, strizzando i muscoli della vagina. Sandro pensò alla Golia, a Cinzia, a Micol, a tutte le donne che aveva conosciuto. Giallopiscio gli morsicò le dita. Cominciarono a muoversi insieme. Sempre più velocemente. La ragazza aveva un corpo da sballo. Anarchy in the U.K. sfumò a medley in Holiday in Cambodia dei Dead Kennedys. La biondina lo ribaltò, montandogli sopra. Sandro sentì le pietre del suolo graffiargli la schiena e le natiche. Nell’oscurità gli sembrò di distinguere ragni enormi incroccati sui muri. La biondina emise degli strani mugolii. Così a cavalcioni, Sandro raggiunse l’orgasmo. La ragazza si ritrasse appena in tempo e il cazzo schizzò come una pistola ad acqua. La sborra finì sulle ginocchia di lei. Smisero di accarezzarsi. Sandro rimase a terra con i pantaloni calati sulle ginocchia, mentre lei si rimetteva la sottoveste e usciva senza una parola dalla cripta. Fu un sollievo. Era stato tutto così veloce, rapido, senza complicazioni. Senza storie. Ansie. Difficoltà. Ad occhi chiusi, Sandro pensò ancora al futuro che lo aspettava. Nonostante le vodka e la scopata non poteva farne a meno; ma lontano da sua madre, ogni cosa appariva decisamente migliore. Sentì di nuovo la fiducia della mattinata. Così disteso, con la punta del cazzo ancora sporca di sperma, si convinse che lui non avrebbe fallito, non sarebbe rimasto intrappolato, non sarebbe scomparso senza combinare nulla. Quella città di merda, quel posto di merda non l’avrebbe visto invecchiare. Perdere. Morire. Qualcuno gli puntò una torcia in faccia. Da fuori, la musica cessò.

- Fermo! Non ti muovere!

Sandro aprì gli occhi.

Un carabiniere più o meno della sua età lo fissava preoccupato. Aveva la mano sulla fondina e stava per estrarre l’arma. Sandro cercò qualcosa nel buio. Trovò una pietra. Il carabiniere scese le scalette della cripta. Sandro tirò la pietra, centrandolo in piena fronte. Il carabiniere fece una “ O ” con la bocca e ruzzolò giù. Lui ne approfittò per alzarsi e correre fuori con i jeans ancora a metà gamba. Sul terrapieno i ragazzi correvano in mille direzioni gridando e bestemmiando. Altre luci li stavano circondando. Nel fuggi fuggi generale la luce strobo continuava a funzionare. Sandro cercò Micol e Rubino. Un carabiniere sui sessanta con cintura di grasso e faccia pelosa gli sbarrò la strada.

- Fermati bastardo!

Lui gli mollò un calcio nelle palle e corse via alla cieca. Verso i campi. Corse per cinque minuti, poi si fermò a prendere fiato. Aveva la testa che girava e i polmoni in fiamme. Mentre respirava si guardò attorno per orientarsi. Nella notte, il cielo e la terra si confondevano in una medesima sfumatura blu scura. Un respiro alle sue spalle lo fece scattare. Alzò il pugno. Un tipo con barbetta verde e canotta CalvinKlein uscì dal buio. Era sudato e senza fiato. Si sorrisero. Poi quello continuò la corsa nel nulla. Sandro camminò nei campi cercando la macchina. Quando la trovò, Micol e Rubino lo stavano aspettando a motore acceso.

(5 – continua)

Davide Rosso