MEDUSA!

“Medusa!” urlavano i ragazzi appena salivano la scarpata. Con le biciclette trascinate fino in cima, quattro, cinque, sei, portate su a spinta: “Più siamo e più c’è da divertirsi, dai che è tardi!” E io ero uno di loro. La vecchia casa dei Consalvo, antica famiglia di pescatori, molto conosciuta in tutta l’isola, era il terreno preferito per le nostre più ardite spedizioni, per le esplorazioni che richiedessero la maggiore dose di coraggio. E “Medusa!” era un po’ come la nostra parola d’ordine quando ci arrampicavamo fin sopra, sudati e stanchi, ma felici, chi in bici, chi di corsa, chi saltellando da tutte le parti fra l’astragalo come dei ninja impazziti. Dopo aver percorso in religioso silenzio il piccolo rio che portava sulla spiaggia, secco fino all’osso come ogni estate da che ne ho ricordo, ci issavamo con fatica fino alla nostra meta.

La vecchia casa decrepita – tre locali o poco più di muri di calce quasi completamente venuta via e di persiane ciondolanti – ci attendeva adagiata sui campi di grano ancora alto d’Agosto come un castello misterioso levitante sopra nuvole dorate. Era là che viveva la Medusa, una donnaccia tremenda che si diceva si cibasse di bambini. Chi l’aveva vista da vicino diceva che aveva gli occhi rossi, le zanne da vampiro e che fosse sempre sporca. Ma soprattutto che aveva quei capelli… Dei capelli sozzi, unti e lunghi, intrecciati fino ai piedi. E… vivi. Certo, non tutti credevano a quella storia che Medusa avesse davvero i capelli in testa vivi e brulicanti come fossero serpenti, proprio come quelli della chioma della famosa Gorgone. Ma era proprio da quell’orrido personaggio mitologico che Medusa traeva il suo soprannome. E noi avevamo ampie testimonianze al riguardo. Dicevano infatti che Medusa, appena ti vedeva da lontano, ti correva incontro sbraitando e poi ti prendeva con quelle sue mani secche e adunche, con le unghiacce lunghe e logore…

Ecco perché, di norma, nessuno di noi ragazzi andava mai vicino a quella casa senza avere chi gli guardasse le spalle. Ma negli anni c’erano state delle eccezioni. Era successo proprio a Nino, il figlio dell’Assunta, che una mattina disse che stava andando al mare e non se ne seppe nulla fino a sera. Quando alla fine ritornò era terrorizzato: bianco in faccia come il latte e tutto tremolante neanche avesse un febbrone da cavallo. Pure la voce gli tremava: balbettava, lui, che era il più bravo della scuola e aveva pure vinto il premio di dizione! “Ha cercato di prendermi!” Riuscì a dire dopo un po’ che lo scuotevamo. “Mi ha colto di sorpresa… quella strega e per un pelo non mi afferrava!” Non sapemmo mai cosa c’era andato a fare solo soletto Nino alla casa di Medusa. Forse però a pensarci bene non glielo chiedemmo neanche: eravamo tutti troppo presi dalla descrizione che lui ci aveva fatto di quel mostro! Quando si era avvicinata, Nino disse che era come cresciuta, come… aumentata di statura tutta d’un colpo! Chissà cosa nascondeva quella vecchiaccia sotto le pieghe del vestito! Come minimo una coda di serpente! Da lei non ci si poteva aspettare altro! Quella veste scura a fiori sempre lisa che, di certo, non si toglieva neanche per dormire! Ma il pezzo migliore doveva ancora venire: Nino giurò su tutto quanto aveva di più caro che la testa di Medusa era davvero fatta di serpenti! Ecco il perché di quel nome! Ora era chiaro! Come se già non lo sapessimo! Beh, però adesso avevamo la conferma. Era lampante. Era una prova. Anzi, era La prova che quanto si diceva in giro su di lei era la verità, la purissima e sacrosanta verità. Se le serpi annidate sulla testa di Medusa ti prendevano eri fritto! Per lo spavento ti ghiacciavi come un iceberg e non ti potevi muovere! Eri perduto: nemmeno gli amici che avevi accanto ti potevano in alcun modo aiutare. E quindi per loro era molto meglio darsela a gambe: era l’unica cosa sensate da fare. Ti rimaneva solo la fuga. Finché potevi. Finché non La avevi vista. Finché le ginocchia ancora ti reggevano. Poi, quando erano andati tutti via e Medusa rimaneva sola con la sua vittima, la andava a prendere e se la issava sulla schiena, un po’ come fa la Befana col sacco delle calze. Solo che Medusa non perdona: se riesce a trascinarti dentro la sua casa ancora imbambolato e chiude l’uscio, Dio solo sa che cosa ti può fare quella mangia-bambini! Nessuno comunque era mai sopravvissuto per raccontare cosa si trovasse all’interno del suo antro. E nessuno era mai stato tanto ardito da spiarla dentro casa attraverso una delle sue lerce finestre.

C’erano state delle sparizioni negli anni precedenti. Il primo a non tornare più era stato il piccolo Michele. Proprio alla fine della stagione balneare. Poi era stata la volta delle gemelline. Greta e Beba, se non ricordo male. Loro le conoscevamo bene… L’ultimo a scomparire in ordine di tempo fu Mimmo: una voce che girava per il paese voleva che si fosse trasferito a Torino con tutta la famiglia. Ma erano dicerie… Nei piccoli villaggi, si sa, la gente chiacchiera e ne dice di cotte e di crude su tutto e su tutti. Chi sapeva veramente dov’era andato a finire Mimmo con tutta la sua famiglia? Non c’erano prove che fosse andato davvero al Nord! A Torino, poi… Invece ci fu chi vide coi propri occhi il comignolo della casa dei Consalvo eruttare nere nuvole di fumo proprio il giorno dopo che Mimmo era sparito… Chi vuoi che accenda un fuoco in casa alla fine di Agosto? Ad Agosto non c’e’ certo bisogno di riscaldamento! Chi aveva acceso quel fuoco l’aveva fatto di certo per cucinare! E ognuno di noi ragazzi sapeva molto bene che cosa…

C’era un altro loschissimo figuro che deambulava attorno alla casa dei Consalvo. A proposito: Consalvo era il cognome del primo proprietario di quel tugurio diroccato. Quando lo aveva fatto costruire, circa trent’anni prima, dicono che fosse davvero una bella casa. Poi la casa era stata invasa da Medusa… Da lei e da suo compagno. Sì, perché con Medusa abitava un uomo, ed è proprio di lui che prima avevo cominciato a parlare. Un uomo alto e con le spalle larghe. Vestiva alla contadina e indossava sempre il cappello di paglia. Così bardato, lo si vedeva – raramente, a dire la verità – proprio in cima al crinale, là dove cominciava la scogliera. Sempre in pieno giorno. Sempre con la vanga o il falcetto stretti in mano. Sempre a osservare il mare, o la campagna là intorno, mentre eseguiva lenti movimenti meccanici che – ci lamentavamo noi – erano inscenati dall’uomo apposta per sviare la curiosità dei possibili passanti sulle sue reali intenzioni: individuare e segnalare a Medusa, molto più veloce e agile di lui, la posizione di noi bambini. Non conoscevamo il nome di quell’uomo, ma mia madre mi disse che era il marito di Medusa. Noi, per la sua notevole stazza e la grandissima lentezza dei movimenti, lo chiamavamo “il Ciclope”. Ma quello che rendeva il Ciclope davvero “Il Ciclope” era il suo unico occhio, col quale indagava tutto il giorno in direzione del mare aperto e verso di noi. Sotto il mento, aveva una protuberanza enorme, color violetto, che sembrava dover esplodere da un momento all’altro. Così gigantesca che in paese lo chiamavano anche “il Bazzone” o “il Pellicano”. Ma noi ragazzi sapevamo bene che quel gozzo sproporzionato era la conseguenza diretta del suo unico occhio: una sorta di bilanciamento “naturale” (o un castigo voluto degli dèi) per compensare il fatto che egli godesse di quella vista prodigiosa grazie alla quale non ci dava tregua. Il  più delle volte quell’essere si limitava a ciondolare attorno alla casa di Medusa coi suoi pochi utensili in mano. Da lontano poteva sembrare quasi inoffensivo, ma avrei voluto vedere chiunque a trovarselo davanti all’improvviso durante una corsa nel grano, col falcetto e quel suo occhiaccio demoniaco! Insomma, nella vecchia casa dei Consalvo non viveva un solo mostro, ma addirittura due! Come se una sola disgrazia per volta non fosse bastata!

Vivevano soli, il Ciclope e la Medusa, nella loro casa semidiroccata battuta notte e giorno dal vento e dal salmastro. Se avevano mai avuto figli, di sicuro se li erano mangiati. Oppure erano fuggiti! Dovevano averlo fatto… per forza – discutevamo noi bambini – e lo speravamo davvero con tutte le nostre forze. Ben per loro! Di certo si erano nascosti sul primo traghetto in partenza e via, addio genitori-orchi per sempre! Ai miei compagni e a me ci si stringeva il cuore a pensare a come potevano essersi sentiti soli e infelici i figli di quelle simili aberrazioni. Meglio se non ne avessero proprio avuti, di figli! Ma i mostri non sono tutti sterili come tutti gli sbagli di natura? Sì, doveva essere sicuramente così. Altrimenti sarebbe stato davvero triste…

Non ebbi mai incontri particolarmente ravvicinati né con Medusa, né col Ciclope. Per prudenza, come facevano quasi tutti gli altri ragazzi, tendevo sempre a fermarmi almeno un paio di minuti buoni dopo aver risalito la scarpata dei Consalvo. Ritto in piedi, vigile come un cane della prateria che sbuca dalla tana, me ne stavo coi freni della bicicletta tirati sulla sabbia della stradicciola che conduceva verso quella catapecchia e facevo: “Medusa!”. E così tutti gli altri bambini insieme a me. Rimanevamo in ascolto per vedere se ci sarebbe stata una qualche reazione. Con le orecchie tese sì da decifrare ogni possibile calpestio di piante o di ghiaia. A volte scorgevamo il Ciclope poco lontano dalla casa che armeggiava inutilmente col suo incedere da zombi. In quei casi, ci fermavamo ancora un minuto, scherzando su chi fra di noi avesse più coraggio: se Medusa fosse improvvisamente apparsa chi sarebbe stato l’ultimo a fuggire? “Chicco, il figlio del guardiano del faro, ha le palle, ma Leo conosce lo judo. Sì, ma le arti marziali con quei due non servono! E Pasquale? Ma chi, “Leprotto”? Ma se ha paura anche della sua ombra!” e così via… Se niente succedeva, ce la prendevamo comoda, e coglievamo l’occasione per goderci il panorama del nostro golfo e del moletto del paese che da là si vedevano proprio bene. Molto raramente accadeva che ci accorgessimo di qualcosa che insidiosamente si muoveva dentro il grano, oppure dietro ai panni stesi al sole ad asciugare accanto alla casa. Allora scattavamo verso la spiaggia, ognuno il più veloce che poteva. Ricordo di qualche bambino capace di stare per mezz’ora intera nella posizione di partenza come un corridore olimpico dei 400 metri in attesa del colpo dello starter. Io, pur abbastanza veloce e fra i più grandi del gruppetto, posso dire di essere stato sempre fra gli ultimi a raggiungere il mare.

Dopo molti anni ho scoperto che Consalvo, il pescatore, aveva avuto un solo figlio. Era morto a sedici anni per un incidente in motorino. Troppo vecchi e troppo stanchi, i Consalvo avevano semplicemente accettato la loro sorte. La sua razza sull’isola si era estinta come una specie troppo inetta di pinguini. Non avendo altri parenti, nel testamento, il vecchio Consalvo aveva lasciato la sua casa a una coppia di infelici rimasti senza un soldo: lui era affetto da una malattia degenerativa, una sorta di tumore, che gli era esploso intorno a un occhio, chiudendoglielo quasi completamente. La devastante malattia si era poi estesa anche alla gola, e le cure alle quali l’uomo si era per breve tempo sottoposto gli avevano causato un’escrescenza terrificante. L’uomo che noi chiamavamo “il Ciclope” resistette ancora qualche anno dopo che ce n’eravamo andati via dall’isola per sempre, ciascuno per seguire la sua strada. Il Ciclope aveva trascorso la propria infanzia in campagna, poi aveva lavorato come bracciante nel tessile. Quando la malattia si era fatta troppo grave e i soldi per le cure erano finiti aveva deciso di trasferirsi sull’isola con la moglie per cercare di trascorrere serenamente gli ultimi anni che gli restavano.

Quando erano entrati nella vecchia casa dei Consalvo, la donna, che noi avremmo chiamato “la Medusa”, aveva poco più di quarant’anni. La fatica immane e lo sconforto per la spada di Damocle di dover presenziare impotente, giorno dopo giorno, all’esplosione della faccia del marito (e delle loro vite), l’avevano fatta invecchiare tutta insieme. La pena per non aver neanche potuto avere dei figli, unita a qualche goccio di troppo avevano fatto il resto.

Non ho mai conosciuto i loro veri nomi. Immagino lei che dalla finestra malandata della sua cucina osserva il marito: lo guarda muoversi fra i campi col falcetto dentro il pugno, sorvegliandolo perché non commetta qualche insano gesto. Gli occhi rossi per il pianto, l’incuria del proprio aspetto, dei capelli, i vestiti usurati di chi non ha nessuno da incontrare.

Non so che fine lei abbia fatto. C’è chi dice che una notte sia scesa giù al mare e abbia semplicemente continuato a camminare. Chi è sicuro che qualcuno dalla città sia arrivato e se la sia portata via. C’è chi, infine, afferma di aver letto un trafiletto di giornale che parlava della strana sorte di una donna, dai capelli lunghi e scuri che un tempo dovevano essere stati così belli da fare innamorare, che era stata trovata senza vita nella propria casa, sola, ai piedi di un antico specchio di cristallo.

Giuseppe Conti