PAESAGGIO VERCELLESE CON ZOMBI 04

4.

SABATO 21 AGOSTO 1993. MATTINA

1.

Le auto scure si fermarono al limite del paese. In giro non c’era nessuno. Il Colonnello, rayban scuri, capelli grigi a spazzola, jeans neri, maglietta nera, scese da una delle auto e si guardò attorno. Sterpi, erbe giallognole. Il liquame delle risaie a perdita d’occhio. Il verde della borra sotto le suole.

Un sorriso che pareva una crepa si aprì sul suo viso d’argilla. Dalle auto scesero altri uomini. Armati fino ai denti. Avevano pistole, fucili a pompa, semi-automatici, mitragliette, lanciarazzi. Gli uomini si sparpagliarono tra le case del paese. Fogli di giornale e altra sporcizia rotolavano lungo le strade. Una zanzara atterrò sulla guancia del Colonnello. L’insetto infilò la proboscide filiforme nella pelle e iniziò a succhiare. Il Colonnello lo lasciò fare. Quando sentì la guancia bruciare, capì che aveva finito. Allora la schiacciò col palmo della mano. Una riga di sangue scivolò dalla guancia.

Dal fondo della strada comparve la sagoma di un uomo. L’uomo rimase immobile ad annusare l’aria del mattino. Alle sue spalle il cielo era ancora venato di rosso. Dalle ultime case del paese partirono i primi colpi. Prima spari isolati. Poi raffiche continue. Alla fine gli spari cessarono e arrivarono le urla. Strazianti. Il rumore di una forte esplosione. Il sorriso del Colonnello divenne una voragine. Sfoderò una broken butterfly con mirino ad infrarossi, ma prima che potesse puntarla l’uomo si trascinò dietro le case.

Allora il paese piombò nel silenzio. Un silenzio di tomba.

2.

Sandro sedeva imbarazzato sullo sgabello troppo alto. Sorseggiava un cappuccino con troppa schiuma, stando attento a non sporcarsi la punta del naso. Le tre donne davanti a lui lo guardavano e ridevano tra loro. Parlottavano basso, lanciandogli delle occhiate provocanti. Sandro cercò di non scomporsi e si concentrò sul cappuccino. Era imbarazzato ma non voleva sembrare il solito provinciale. Così si limitava a sorseggiare e aspettare che la situazione si sbloccasse.

Le tre donne smisero di ridere, ma non di guardarlo allusive. Quella al centro, capelli ricci, lunghi, occhi verdi e profondi da incantatrice, era Valeria Golia, una attrice famosa. Le altre due una costumista e una regista di cinema.

La Golia indossava una maglia con scollatura a V, una gonna lunga, nera di cotone e zoccoli. Al collo portava un pendente con un ciondolo indecifrabile, blu scuro. Era magra, senza seno, efebica.

L’attrice prese da una borsetta di Prada poggiata sul bancone una macchinetta fotografica automatica e cominciò a scattare delle foto. Sandro finì il cappuccio e posò la tazza. Le mani gli tremarono leggermente. La Golia pareva divertirsi un mondo. Gli faceva degli scatti ravvicinati. Poi riprese a parlottare con le altre due. Sandro provò a concentrarsi sull’ambiente circostante. Erano nel salone di un albergo e non c’era nessuno in giro. Oltre una vetrata color fumo, intravide la sagoma di un fattorino. Se ne stava appoggiato al vetro e sembrava svenuto. La Golia fiutò il suo nervosismo e gli si avvicinò ancora di più. Sandro sentì il sangue salirgli di colpo in faccia e arrossì.

- Basta, per favore.

Valeria Golia scostò la macchinetta fotografica dalla faccia del ragazzo e inclinò la testa di lato. Sandro evitò gli occhi di lei. Erano grandi come laghi e non voleva affogarci dentro.

- Perché? – chiese l’attrice in un sussurro.

- S’immagini.

- Dammi del tu.

- Immaginati.

L’attrice sorrise ancora, ma senza civetteria. Strizzò l’occhio alle altre donne e tirò fuori un pacchetto di Marlboro light.

- Fumi?

Sandro la osservò accendersi la sigaretta e aspirare la prima boccata e per poco non gli venne un’erezione.

- Sì.

- Sei proprio bello, – disse la costumista.

- Profilo greco, – rincarò la regista.

- Ho fatto nuoto agonistico, – provò Sandro fissandosi la punta delle scarpe.

Si sentiva un imbecille. Era salito a Milano col primo treno. Era arrivato in orario. S’era messo la sua giacchetta verde pisello dell’Adidas e un paio di jeans così puliti e stirati da dargli fastidio. Per la prima volta voleva fare bella impressione e non era sicuro di riuscirci. Durante la primavera aveva partecipato a vari provini per il cinema e la pubblicità, poi s’era concentrato sull’esame di maturità e non ci aveva più pensato. Finiti gli esami, s’era iscritto alla prova di ammissione per la Paolo Grassi e aveva passato luglio a impararsi a memoria i Canti Orfici di Campana. Quando un’agenzia di Milano lo contattò per una particina, cadde dalle nuvole. Al telefono gli avevano accennato che cercavano un diciannovenne dalla faccia nuova, capace di cristallizzare le speranze e le ambizioni dei suoi coetanei. Avevano visto il suo book (che gli era costato un occhio della testa) e volevano parlargli. Così era arrivato all’albergo. Qui la regista gli aveva spiegato che doveva girare un film con la Golia e che cercava qualcuno per la parte del fratello paralitico. Nel film i due fratelli avevano un rapporto incestuoso o qualcosa del genere. Sandro l’aveva ascoltata senza dare troppa importanza alla storia. Era rapito all’idea di entrare nel dorato mondo del cinema, anche se si trattava solo di una particina. Il suo sogno restava il teatro, ma con quella cosa nel curriculum alla Paolo Grassi l’avrebbero preso di sicuro. Senza contare che con i soldini che si sarebbe intascato avrebbe potuto pagarsi un alloggio a Milano ed evitare di fare avanti indietro col treno. Mentre si faceva quei conti in tasca era arrivata la Golia con la sua costumista e lui aveva finito per fondere.

- Credo che ci divertiremo assieme.

Sandro alzò gli occhi verso l’attrice ma lei aveva smesso di scrutarlo. Un barista di colore con gilè rosso e bottoni dorati s’era materializzato dietro al bancone con un vassoio di krafen alla crema.

- Ho bisogno di zuccheri. Sai, mi sono lasciata col fidanzato.

La Golia si girò verso di lui un’ultima volta. Sorrise ma lo sguardo era lontano, assente.

- Meglio così, – disse.

Allora la regista prese Sandro sottobraccio e lo accompagnò verso l’uscita.

- Ti farò avere il copione la prossima settimana, ok?

Sandro la fissò incerto.

- E’andata bene?

La regista gli passò una mano tra i capelli sopra la fronte. E addolcì la voce.

- Dovremo accorciarli, ok?

- Ok.

Sandro uscì in strada, fece due passi e la voce della donna lo richiamò.

- Allora, hai sentito? – chiese la regista urlando verso di lui.

Gli occhi della donna si fecero di nuovo maliziosi.

Sandro aggrottò le sopracciglia.

- S’è lasciata con Andrea. Lui è tornato a New York. Ok?

Sandro la vide svanire tra i vetri scuri dell’albergo.

3.

Oltrepassò il traffico congestionato di Milano. In cielo le nuvole correvano veloci. Il sole picchiava contro le vetrate dei palazzi.

Sandro attraversò la Piazza della Stazione. La attraversò correndo. Era felice. L’imbarazzo era passato. L’emozione era passata. L’avevano preso. Si aspettava gente seriosa, distaccata, fissata con la dizione. Invece era stato come in discoteca, quando le trentenni cercavano di offrirgli da bere. Certo in discoteca era molto più disinibito. Lì aveva fatto la figura dell’imbranato, ma non gli importava. L’avevano preso. Questo importava. Una piccola parte. Il fratello storpio della Golia.

- Il Cinema! Il Cinema! – urlò a un barbone che assomigliava a Lucio Dalla.

Si fiondò dentro la Stazione. Salì le scale come un razzo e cercò il binario. Il treno lo aspettava paziente. Era mezzo vuoto. Trovò un posto accanto a una ragazza in minigonna turchese e T-Shirt dei Pearl Jam. Il treno partì con cinque minuti di ritardo. Subito attaccò bottone con la ragazza. Prima di scendere a Vercelli riuscì a strapparle il numero di telefono.

Tanto per rifarsi.

4.

Piero Cannata uscì di casa che era ancora mattino. Sulle scale non incrociò nessuno. Da via Gran Paradiso risalì il Cavalcavia, scendendo verso la Stazione. La strada era soleggiata. Il mondo mattutino gli apparve bello e maestoso, come se lo vedesse per la prima volta.

Piero superò la Stazione delle Corriere. Con passo misurato, tranquillo, entrò nella Stazione dei Treni. L’atrio, chiuso da una vetrata, era vuoto. Uscì sui binari. Sotto le grandi pensiline, radi viaggiatori aspettavano scornati l’arrivo dei treni. Un domenicano con la cintura di corda intrecciata e i sandali ai piedi nudi, passeggiava avanti indietro. Ogni tanto si fermava a scrutare i silos dell’Ente Risi e si grattava la barba bianca.

L’aria era azzurra e le rondini cinguettavano serene.

Due signore di mezza età con delle giacchette di cotone colorate, pazientavano su una delle panchine di marmo. Accanto a loro, una bambina con gli occhielli ai sandaletti, colorava un foglio con i pennarelli.

Piero entrò nel bar. Una ragazza con un abito di chiffon, boa violetto e mocassini con nappine, lo guardò senza interesse. Reduce da una serata in discoteca, la ragazza sorseggiava un cappuccino e faceva fatica a tenere gli occhi aperti.

Piero comprò due pacchetti di Marlboro rosse. Il barista, cranio rasato e bomber rosso, non alzò nemmeno la testa. Prese i soldi, li mise nella cassa e scomparve dietro una porticina che dava sul retro. Piero scartò la pellicola trasparente del pacchetto, sollevò il cappuccio e strappò la linguetta argentata. Accese la sigaretta e uscì sulla Piazza, dalla parte della fontana. Delle eleganti aiuole fiorite, ben tenute, agghindavano il parterre circolare. Superò la fontana. Un cane magro da far spavento, nero, con la lingua penzoloni, lo osservò scendere verso i giardini, poi si tuffò tra gli zampilli d’acqua.

I giardini erano ombrosi, coi prati verdi arricchiti da piante secolari e busti di illustri cittadini. Piero arrivò fino a una grande vasca piena d’acqua. Sul bordo, due bambini fabbricavano barchette di carta e le spingevano sull’acqua. Facevano a gara nel costruire barchette capaci di raggiungere il centro della vasca. Lì si aggruppavano, cocciando l’un l’altra le prue fibrose sotto l’impercettibile oscillare dell’acqua.

Piero rimase a guardare, poi i bambini lo notarono e si allontanarono. Abbandonate, le barchette smisero di battagliare e affondarono eroiche verso il fondo limaccioso.

I bambini sciamarono nel sole.

Piero finì la Marlboro rossa.

Aveva l’intera giornata per trovare qualcuno.

5.

- Nemmeno per sogno.

La madre di Sandro girava intorno al tavolo di ciliegio della cucina. Sembrava uno squalo in procinto di attaccare. Sandro, al lavello, la guardava cercando di trattenersi. Le aveva detto di esser stato scelto per il film. Ingenuamente aveva creduto che le facesse piacere, ma era stato uno stupido. Quella aveva tirato fuori vecchi scazzi che non centravano niente. Fondamentalmente, Silvana non credeva nelle sue doti di attore. A dire il vero sua madre non credeva in nessuna dote del figlio. Sua madre non credeva in niente da circa vent’anni, cioè da quando s’era separata dal noto avvocato Amintore Bausano, uno dei penalisti più importanti della città.

Sandro la odiava per questo. E odiava suo padre. Entrambi lo avevano sballottato per anni, lottando per l’affidamento, poi suo padre s’era stufato, aveva sposato la segretaria e aveva messo al mondo due bambine nuove di zecca. Sandro non lo vedeva da quasi due anni. L’ultima volta che s’erano incontrati, suo padre per poco non lo riconosceva. S’erano dati del LEI, poi l’avvocato gli aveva rifilato un centone arrotolato a mo’ di contentino e la cosa era finita lì.

Sua madre, invece, era pazza. Punto.

Quando Sandro aveva tre anni, Silvana era stata internata in un manicomio. Ne era uscita dopo qualche mese, con  invalidità mentale del 70% e una pensione da miseria. Da allora erano andati a stare dalla nonna, cioè la madre di sua madre, una vecchia spaccacoglioni mezzacieca con la fisima per i santini. Li appiccicava ovunque. Sulle pareti. Sulle mensole. Dentro le credenze. Dentro i cassetti della biancheria. Persino sui vestiti. Una volta Sandro aveva trovato un’effige di San Giuda Taddeo (apostolo e martire in Persia nel 1° secolo) incollata sul chiodo, tra un badge dei Sex Pistols e uno dei Black Flag.

Sandro era cresciuto in mezzo alla loro follia, al loro bigottismo, alla loro invadenza e ne aveva abbastanza. Da tempo sognava la fine della scuola per trovare un lavoro e andarsene da quell’appartamento che puzzava di cavolo fritto. Spezzare quel legame. Lasciarle sole nel loro brodo. O avrebbero trascinato anche lui giù nel baratro.

- Nemmeno per sogno. Devi finire di studiare. Poi si vedrà.

Silvana era grossa, grassa: assomigliava a un lottatore di sumo e aveva una faccia verdognola e gonfia come quella di un annegato. Portava una vestaglia a fiori, lunga fino alle caviglie e aveva il viso cosparso di efelidi, senza una ruga. Gli occhi erano piccoli, neri, schiacciati dalle guance carnose. Una lunga treccia nera di capelli le oscillava sulla schiena come una coda di dinosauro.

- Mamma, – Sandro respirò a fondo. Dentro di lui la rabbia montava come panna, – Ho finito la scuola il mese scorso.

Silvana continuò a girare attorno al tavolo di ciliegio. Mentre girava, sbocconcellava un panino con la gorgonzola.

Dietro di lei il Panasonic trentapollici trasmetteva una replica del Maurizio Ferdinando Show sull’osteoporosi genetica nei fenicotteri rosa.

- Comunque sei troppo giovane per quelle cose lì, – sentenziò la donna sputando pezzi di pane sulla vestaglia.

Sandro chiuse i pugni. Pensò agli occhi verdi della Golia, all’odore di buono, di eleganza, di morbidezza che emanava e il contrasto con l’aria viziata della cucina lo fece schiumare.

- Cristo, Mamma! Credevo ti facesse piacere sapere che tuo figlio non è un fallito come te. Perché questo è solo l’inizio. Non intendo restarmene qui a vederti marcire. Cristo! Guarda come ti sei ridotta. Guardati, cazzo!

Sandro aveva urlato ma non s’era mosso dal lavello. Silvana aveva smesso di girare. Un silenzio irreale calò nella cucina. Il tic tac dell’orologio a muro scandì l’inesorabile trascorrere del tempo.

Poi entrò la nonna. Avvolta in uno scialle di ciniglia gialla e una giacca di lana spessa, la nonna era emersa dalla penombra del corridoio. Teneva le mani in avanti per paura di sbattere la faccia contro la porta.

- Chi ha urlato? Silvana dove sei? Silvana? – disse la vecchia con una vocina tremolante da uccellino moribondo.

- Sono qui Mamma.

Silvana affiancò la vecchia e l’aiutò a sedersi. Era premurosa. Molto premurosa. Troppo premurosa.

- Sono qui con Sandro, Mamma. Presto ci lascerà sole. Anche lui.

La voce di Silvana era calma, neutra, senza inflessioni.

A Sandro venne la pelle d’oca.

La Nonna aveva una faccia gialla e rugosa piena di capillari spezzati.

La Nonna si accese una Ms.

- E dove andrà? – chiese con la voce da uccellino agonizzante.

Sandro trattenne un altro urlo. Aveva già visto quella messa in scena centinai di volte.

- Ci lascerà sole, Mamma. E quando tu starai male ci sarò solo io con te. Prega per la mia salute Mamma, perché quando anch’io starò male, ci toccherà andare per strada a fare la carità. Prega per me, Mamma. Sandro è cattivo. Lui non ti vuole bene come me.

La nonna alzò la faccia verso il lavello e annusò l’aria.

- Sandro, Sandrino mio, è vero quello che dice tua madre? E’ vero? Parla Sandrino, dimmi qualcosa…, – gli occhi velati dalla cataratta cercarono di mettere a fuoco qualcosa.

Sandro fulminò suo madre con un’occhiata e si morse il labbro. Era tutto così patetico. Quelle due donne si detestavano. La verità era che avevano paura di restare da sole. Di non avere più nessuno con cui sfogarsi, a cui aggrapparsi. Erano come due annegati che cercavano di trascinare giù  più persone possibili. La loro disperazione era piena di rancore. Di invidie. A loro non importava un bel niente di lui. Volevano solo il suo tempo, la sua compassione, la sua giovinezza…

Volevano che anche lui diventasse infelice come loro. Sandro lo sapeva bene. Eppure quelle scene lo ferivano ancora. Gli facevano male. Quelle bastarde sapevano dove colpire. E colpivano duro.

- Lo vedi Mamma? Vedi che ho ragione? Non parla. Non apre bocca.  Ha la coscienza sporca come Giuda. Non combina nulla tutto il santo giorno e andrà diritto all’inferno per questo. O Gesù, non potevo abortire?

Sandro corse fuori dalla cucina un attimo prima di sgozzarle col coltello del formaggio. Si chiuse in camera sbattendo la porta. Stava per scoppiare a piangere. Allora tirò due pugni contro il muro e vibrò l’intera parete. Gli occhi si velarono ma non uscì nessuna goccia. Si buttò sul letto. Accese lo stereo. La cassetta dei Nirvana cominciò a girare. Scentless Apprentice. Qualcuno picchiò alla sua porta. Dal vetro smerigliato riconobbe la sagoma obesa di sua madre. Alzò al massimo. Dalla cucina la voce morente della nonna riuscì a raggiungerlo comunque.

- Sandro, Sandrino mio. Parla, parla alla tua nonnina, dimmi, è vero che finiremo sotto a un ponte?

6.

Piero posò un libro di cucina con la rilegatura di cartone e i bordi dorati. Con garbo, il Tedesco lo invitò ad uscire. Era quasi ora di pranzo e la libreria chiudeva. Così uscì dal Corsico Libri e camminò fino a Piazza Cavour. Fuori dal Bar Italia, due ragazzi con giubbino a jeans e pantaloni schiumati con la candeggina mangiavano dei toast bruciacchiati. Con loro c’erano due ragazze coi capelli rossi. Il gruppetto sedeva su delle seggiole con lo schienale di asticelle. Le ragazze fumavano e il fumo delle sigarette saliva dritto come un ago. Il gruppetto chiacchierava a voce alta.

Piero svoltò sotto ai portici dalla parte della Cassa di Risparmio e superò il caffè Cavour. I dehors erano occupati da alcuni vecchi impegnati con carte e chiacchiere. Da sotto il filo delle colonne, Piero rimirò la Piazza: spaziosa, a forma di trapezio, cinta da vecchie case archiacute coi costoloni e le volte a crociera. Al centro c’era il monumento di Cavour con le due ancelle. Dietro al monumento, una torre ottagonale si elevava verso il cielo con la sua robusta mole e i beccatelli delle piombatoie.

Col solito passo misurato, Piero proseguì fino al lato orientale della Piazza, tra Rialto e via Gioberti, dove i portici erano più consumati. Lì fiutò l’aria. Un odore di salsicce alla griglia gli mise fame.

Piero tornò sui suoi passi. Da via Cavour prese via DeAbate, diretto ai Tre Scalini.

Le pareti del locale erano piene di crepe e c’era odore di chiuso.

I tavoli erano apparecchiati con delle cerate a quadretti bianchi e blu. Una donna sovrappeso lo fece accomodare. Piero ordinò subito delle patatine fritte che servivano lì. Erano molto, molto fritte.

- Alla Giovanna D’Arco, – confermò la donna.

7.

Nella casa era tornato il silenzio. Silvana e la nonna stavano riposando.

Sandro, sul letto, scrutava il soffitto. Aveva le cuffie e ascoltava a loop I wanna be your dog degli Stooges. Era ancora incazzato e a stento si tratteneva dall’assordare le due troie. Il Condominio. Il Mondo. E dire che la giornata era partita nel migliore dei modi. Il Cinema gli aveva aperto la porta e stava per accoglierlo tra le sue braccia ovattate. Un altro mondo lo aspettava da quella parte. Sarebbe stato il primo passo per il grande cambiamento. Che si fottessero tutti. Era stufo marcio di come andavano le cose nella sua vita. Era giovane. Bello. Piaceva alle ragazze. Ci sapeva fare. Era naturale che uno come lui volesse il meglio e lo volesse subito. Per diciannove anni aveva fatto i conti con le macerie che i suoi genitori gli avevano lasciato in eredità. Ora lui aveva una carta da giocare e non voleva sprecarla. Gli occhi verdi della Golia si materializzarono sul muro della camera, tra un poster dei Melvins e l’effige di Sant’Anselmo di Aosta ( 1033-1109). La Golia sorrise allusiva e a Sandro venne duro. Tirò fuori il cazzo dai boxer e prese a menarselo. Eiaculò nel palmo della mano. Si pulì con un calzino spaiato che raccattò da terra. Andò in bagno. Fece una doccia. Indossò una maglietta pulita dei Ramones e cambiò i jeans puliti con un paio liso pieno di strappi. Ai piedi infilò delle All-Star arancioni con la punta in gomma bucata. Silenzioso, prese le chiavi di casa e aprì la borsetta di sua madre abbandonata sulla mensola dell’ingresso. Rubò un deca e delle caramelle al miele. Fece in tempo a richiudere la zip che un molosso gigantesco si materializzò alle sue spalle. Il molosso aveva un occhio rosso brace che si apriva e chiudeva ad intermittenza.

- Dove vai? – chiese Silvana.

Brandiva un acchiappamosche e fumava una Meritt.

Sandro non la degnò di una risposta. Andò alla porta. La aprì. L’odore di cavolo fritto era anche sulle scale.

- Le senti?  Non mi fanno dormire.

Sandro guardò sua madre e ne ebbe pena. Agitava la paletta piena di buzzi secchi di mosca. La cenere della sigaretta le imbrattò la vestaglia.

- Non mi fanno dormire. Non mi fanno dormire.

La donna incassò la testa nelle spalle e passeggiò avanti indietro per il corridoio. Borbottava qualcosa, ma il fumo della Meritt inghiottì il senso delle parole.

Sandro accostò la porta d’ingresso.

Per la seconda volta dovette trattenere le lacrime.

8.

Dopo pranzo, Piero riprese la passeggiata. Aveva ancora tempo per trovare qualcuno disposto a filmarlo. Senza una meta precisa rifece le stesse vie del centro. Da via DeAbate a Piazza del Municipio. Da via Palazzo di Città a via Nigra. Da Piazza Cavour a via Gioberti. Faceva caldo e in giro non c’era anima viva. L’intera città era spopolata. Quasi tutti erano scappati al mare o in montagna, lontani da quel caldo atroce e dalle zanzare. Non sarebbero tornati prima della fine del mese. Lui, però, doveva trovare qualcuno comunque. Fiducioso, stazionò in via Camillo Leone, aspettando l’apertura del Chat Noir. Camminò su e giù per la stradina: il semplice muovere passi era già un godimento.

(4 – continua)

Davide Rosso