TERZO DAL SOLE – SOGNI E SPERANZE DELL’ANIMALE UOMO ALLA RICERCA DELLA VITA 07: PARTE 01

CAPITOLO VII: PARTE 01 – STUDIARE IL CIELO

Tra le varie caratteristiche umane ce n’ è una importantissima che è in lui insita ed è unica fra tutti gli animali che abitano il pianeta: la curiosità. Il cercare di scoprire e spiegare i fenomeni che lo circondano e di capire sempre meglio il suo passato per poi andare verso il futuro.

In linea generale la nostra attenzione viene attratta da qualcosa di non chiaro, di indefinito o di incerto, su cui si sofferma finché il suo oggetto non diventi chiaro, definito, sicuro. In questo caso la soddisfazione consiste nel raggiungimento della chiarezza, o addirittura nel solo fatto di cercarla. Ciò che stimola e soddisfa la curiosità è qualcosa di inerente al ciclo stesso di attività in cui si manifesta la nostra curiosità. Senza dubbio tale attività è biologicamente rilevante, perché la curiosità è essenziale per la sopravvivenza, non solo dell’individuo, ma della specie. Varie ricerche hanno messo in luce come persino alcuni primati compiano sforzi considerevoli per imbattersi in qualcosa di nuovo, su cui esercitare la propria curiosità, ma, nel caso dell’uomo, essa raggiunge livelli impensabili ed è la molla che ci ha fatto arrivare, nel bene e nel male, fino a  qui…

Fino a quando sarà possibile fare affidamento su questa importante motivazione umana, che si presenta come la più efficace e più sicura di tutte, sembra ovvio che la nostra istruzione artificiale possa essere resa meno artificiale, dal punto di vista delle motivazioni, impostandola in un primo tempo su forme più superficiali della curiosità e dell’attenzione e, successivamente, portando la curiosità a una espressione più sottile e più attiva.

L’uomo è vissuto sotto lo stesso cielo stellato da sempre, per secoli, per millenni quei piccoli punti luminosi hanno guidato la sua vita, le sue idee e i suoi timori così come le due sfere che occupavano i loro giorni e le loro notti. Per sapere da quanto tempo l’uomo volge gli occhi al cielo dobbiamo, per forza di cose, lavorare di fantasia, dobbiamo lasciare che la nostra immaginazione vaghi in ere lontane appartenenti a vari millenni fa, probabilmente quando ancora non possedeva quella “stazione eretta”, la possibilità cioè di camminare su due zampe che lo fece diverso da ogni creatura vivente assieme ad un’altra particolarità fisica che gli permise, assieme alla sua fin troppo decantata intelligenza e la capacità di apprendere, di ricordare e quindi di diversificarsi su quasi tutti gli altri animali. Lo aiutò anche il suo dito opponibile, la possibilità cioè che il suo pollice potesse toccare indifferentemente e alternativamente tutte le altre dita della mano, rendendola quindi molto utile per afferrare oggetti di ogni tipo.

I suoi primi sguardi verso l’immensità dello spazio furono probabilmente di stupore, di sgomento e di timore. Egli non capiva come mai quella luce accecante in mezzo al cielo, e che gli dava comunque luce e calore, quasi improvvisamente sparisse per lasciar posto al buio e a tanti piccoli punti luminosi sparsi nel nero del cielo. Egli non capiva perché uno di questi occhi fosse tanto più grande degli altri ma lo ritenne comunque benevolo perché dava un poco di luce al buio minaccioso della notte. Egli credette allora, in un primo sforzo immaginativo e in un primo esempio d’involontaria teoria fantascientifica, che il Sole e la Luna fossero in eterna lotta tra loro, un feroce combattimento che si ripeteva ogni giorno e che non vedeva mai né un vinto né un vincitore, ma aveva però capito che erano quei due feroci combattenti a creare il giorno e la notte.

Un’altra interessante scoperta fu probabilmente di natura chilometrica perché anche se il concetto di distanza era molto più impreciso di quello che possiamo avere oggi, era ben evidente che tutte le nuvole passavano davanti agli astri e mai dietro e che quindi Sole e Luna dovevano essere molto più distanti delle nuvole stesse.

Il Sole e la Luna rimasero quindi al centro della vita dell’uomo, adorati e temuti come dei buoni o cattivi, furono chiamati con nomi diversi ma rimasero sempre al centro delle religioni e delle credenze popolari. Tali credenze sono vive  ancora oggi ed erano patrimonio dei nostri nonni. Si diceva, per esempio, che crescendo il satellite nelle sue fasi,  crescessero anche piante ed animali, viceversa, quando calava, la crescita si fermava o rallentava. Anche l’uomo non era esente dagli influssi lunari perché, sempre si diceva, che chi si addormentava sotto la sua luce diventava pazzo e che il Lunedì fosse il giorno del suo dominio sulla Terra e che portasse malinconia, cosa che in verità avviene ancora oggi quando si tratta di andare al lavoro o a scuola… Spesso, comunque, furono deificati e adorati senza sapere esattamente cosa potevano essere. In religioni diverse, divinità supreme legate al Sole hanno nomi diversi e sono associate ad aspetti diversi dell’universo culturale della società, ma in gran parte la sua immagine rimane identica.

Nel periodo neolitico il Sole attraversava il cielo in una barca e questa suggestiva rappresentazione si ritrova nei successivi miti dell’antico Egitto, con Ra e Horus. I primi miti Egiziani suggeriscono che il sole, di notte, sia all’interno della leonessa Sekhmet, e si possa rivedere riflesso nei suoi occhi, oppure che sia all’interno della mucca, Hathor, e rinasca ogni mattina come suo figlio (il toro).

Aztechi e Maya…

Senza entrare nei meriti della storia vera e propria delle popolazioni centroamericane, dal punto di vista astronomico quello che si può dire è che esisteva un filo conduttore tra Aztechi, Maya, Totonachi, Toltechi e altre culture che abitavano la zona dell’odierno Messico: il Guatemala, l’Honduras ed El Salvador. Sostanzialmente i riti, le divinità e le conoscenze astronomiche erano le stesse per tutti, certamente i nomi dati alle divinità erano diversi ma i corpi celesti adorati erano i medesimi. In tutte queste culture il pianeta Venere occupava il posto principale. La leggenda di Venere-Quetzalcoatl era conosciuta universalmente.

La leggenda di Quetzalcoatl, capo delle divinità dei Toltechi, è una delle più straordinarie della storia. Attraverso la misteriosa assimilazione di due figure con lo stesso nome: una divina, l´altra mortale, l´antica storia messicana ha avuto una sorprendente svolta, i cui effetti sono ancora percepibili nell’era moderna. Il potente dio Quetzalcoatl, il cui nome significa “serpente piumato”, era identificato con il pianeta Venere. All’inizio del X secolo d.C., un alto sacerdote di nome Topiltzin prese possesso del trono tolteco e cambiò il suo nome in Quetzalcoatl. I conflitti civili e religiosi lo condussero lontano dalla capitale. Ma prima di partire, Quetzalcoatl giurò che sarebbe ritornato dalla direzione del sole che sorge, nella data che avrebbe corrisposto al 1519 sul calendario europeo. Nel febbraio di quello stesso anno, accadde un evento che ha da sempre impressionato gli storici. Provenendo dall’est, come Quetzalcoatl aveva predetto, il conquistador spagnolo Hernan Cortes con un seguito di 500 soldati, sbarcarono nella penisola dello Yucatan, come per compiere appieno l´antica profezia. Gli Aztechi, che avevano rimpiazzato i Toltechi come impero dominante in Messico, erano a conoscenza della leggenda e credettero che questi stranieri bianchi fossero l´esercito di Quetzalcoatl e significassero il suo, annunciato, ritorno.

Per questo motivo, invece di opporsi all’invasore, le truppe spagnole fronteggiarono così una popolazione curiosa ed inerme, che si mostrava affascinata e adorante, e che aveva iniziato una lunga marcia dalla capitale azteca di Tenochtitlan allo scopo di accoglierli. Cortes formò delle alleanze man mano che avanzava, combattendo una sola battaglia a Cholula e raggiungendo la capitale per il mese di novembre.

L´imperatore Azteco Montezuma, notoriamente superstizioso, salutò lo straniero bianco come l´incarnazione di Quetzalcoatl e lo ricoprì di doni, realizzando troppo tardi che Cortes non era altro che un soldato affamato di ricchezza al servizio di un re altrettanto avido. Allarmate, le truppe azteche si levarono contro gli spagnoli e li condussero lontano dalla città, ma nel corso della battaglia Montezuma fu ucciso. Nell´agosto del 1521, la capitale della città, con i suoi 200.000 abitanti, cadde nella morsa di Cortes e con essa il Grande Impero Azteco.

Gli Aztechi, ad esempio, usavano il nome di Quetzalcoatl mentre i Maya lo indicavano come Kukulkan. Fra tutte le civiltà quella che senz’altro aveva dato maggior peso all’astronomia era quella dei Maya. In particolare, oltre alla suddetta leggenda i Maya avevano redatto calendari, sia civili che rituali in cui la matematica e le combinazioni possibili di numeri ed astronomia avevano una grandissima importanza. Ai Maya si deve l’invenzione del numero zero e la numerazione posizionale. Altra conquista molto importante era quella dei calendari. I Maya avevano due calendari: uno rituale chiamato tzolkin ed uno civile chiamato haab.

Il calendario rituale tzolkin era di 260 giorni suddivisi in 13 mesi di 20 giorni l’uno. Ogni mese aveva un numero e ogni giorno un simbolo di una divinità. Le singole divinità avevano poi i loro significati e di conseguenza le date rituali erano l’equivalente dell’astrologia caldea. Il calendario civile haab invece era composto di 365 giorni suddivisi in 18 mesi di 20 giorni l’uno a cui si andavano ad aggiungere tutti insieme 5 giorni considerati infausti chiamati uaieb dai Maya e nemontemi dagli Aztechi.

Perché il calendario tzolkin era di 260 giorni?

È ancora un mistero. L’ipotesi che può avere un senso è che 260 è esattamente un terzo di 780 che è il periodo sinodico di Marte, però è solo un’ipotesi. Di conseguenza ogni giorno aveva due date, una civile e una rituale. In base alla diversa durata dei due calendari solamente ogni 52 anni si aveva la stessa combinazione. Questo periodo era definito il “grande giro del calendario” e in queste occasioni la civiltà Maya compiva grandi rituali anche sanguinari per propiziare l’inizio di un nuovo ciclo.

Le civiltà centroamericane che avevano tutte le stesse radici culturali vivevano nel terrore che ogni 52 anni il mondo finisse.

Gli Aztechi in particolare erano una società totalmente dominata dai sensi di colpa e questa è stata in un certo senso la causa del loro crollo.

La civiltà Maya ebbe il suo massimo splendore in un periodo che va dal 300 d.C. al 900 d.C. All’arrivo degli spagnoli questa civiltà era stata praticamente assorbita da quella Azteca che ne aveva recepito leggende ed astronomia. Nei pochi reperti scritti sono state decifrate tutte le fasi astronomiche di Venere, chiamato dai Maya Noh Ek (stella grande) e che rappresentava il dio Kukulkan. Il numero 584, il periodo sinodico di Venere, appare in tutti questi reperti.
Facciamo due conti e scopriamo che 5×584 = 8×365 = 2920, altro numero “magico” ai Maya.
Cinque anni sinodici di Venere corrispondono a 8 anni haab. Il numero 2920 è anche divisibile per 20. Per i Maya il ciclo di Venere doveva iniziare sempre lo stesso giorno sacro: 1 ahau.

In Cina...

Ma nel corso delle ere la posizione lentamente cambiò nella mente dell’uomo. Nell’ VIII secolo avanti Cristo  Huang Ti, chiamato anche l’imperatore giallo aveva introdotto il ciclo lunare di 19 anni e questo tre secoli prima che Metone, il greco, facesse la stessa, medesima scoperta. Il calendario lunare aveva il preciso scopo di poter stabilire quali fossero i cosiddetti “mesi intercalari” in altre parole qualcosa di molto simile agli anni bisestili e questo permetteva, ed è ovviamente molto importante, di mantenere uno stretto rapporto tra il calendario e le stagioni. Noi sappiamo oggi che nel IV secolo avanti Cristo gli astronomi di corte erano in grado di determinare i solstizi e gli equinozi e registrarono costantemente e precisamente il passaggio di comete e stelle cadenti. Noi, oggi, siamo in possesso di queste precise e storiche informazioni per essere entrati in possesso di quei testi antichi e di averli tradotti e questo fu merito dei missionari gesuiti che tra il settecento e l’ottocento, i quali, in più, furono in grado di costruire nuovi osservatori proprio grazie ai cinesi. Non possiamo dimenticare che lo stesso Confucio, vissuto nel settimo secolo a.C. ci ha lasciato degli scritti, meglio: delle relazioni astronomiche di assoluta utilità per la nostra conoscenza occidentale e, fra queste, c’è il resoconto dell’eclissi di Sole avvenuta il 26 Aprile del 610. Chen Kong, che visse nell’undicesimo secolo, fu l’astronomo più famoso della Cina. Costruì un grande osservatorio in quella città che noi oggi conosciamo come Honan-fu e che fu chiamato “Torre degli Spiriti” e con le “apparecchiature” che erano state costruite su suo progetto, fu in grado di calcolare l’altezza del Polo e l’obliquità dell’eclittica, tutto con dati molto precisi. Però in buona fede, commise un errore: la sua convinzione era che il Polo Celeste coincidesse sempre con una stella fissa particolare e non si rendeva conto che questo non era possibile, tranne che in particolari circostanze a causa della precessione degli equinozi. E fu solamente nel 460 a.C. che un altro astronomo cinese si accorse che la Stella Polare, descriveva un piccolo cerchio sulla volta celeste e l’astronomo Tsu Chung identificò la processione solo nel 66 d.C, questa volta due secoli “dopo” che furono scoperti e calcolati dal greco Ipparco. Non erano dei matematici raffinati, ma erano formidabili costruttori di clessidre, livelli e compassi. Sapevano che l’anno era lungo 365 giorni e un quarto, ma una loro importante caratteristica era di carattere prettamente astronomico-religioso. Infatti per i cinesi il mondo celeste era come una grande comunità molto simile alla loro: l’imperatore risiedeva in quello che veniva chiamato “Palazzo Superiore” e cioè la Stella Polare e da lì sorvegliava il cocchio dell’Orsa Maggiore. Una sorta di “Città proibita” formata da stelle circumpolari. Ch’ing Ti, che noi conosciamo come Giove era detto il Governatore Verde in quanto era stato nominato il dio della primavera, ma anche gli altri pianeti avevano una funzione coordinativa e i cittadini cercavano di ingraziarseli mediante l’accensione di lampade votive. In altre parole i pianeti e le costellazioni erano oggetto di culto che si basava su una concezione mitologica che fu viva per millenni, almeno fino al contatto con l’Occidente.

In India…

I popoli dell’India vissuti prima dell’Era Cristiana elaborarono un’astronomia del tutto particolare che non era del tutto geometrica, ma nemmeno del tutto fantastica. Erano abili nei calcoli matematici, ma le loro conoscenze astronomiche si trovavano solamente in alcuni testi religiosi e quasi sempre scritti in versi per essere imparati a memoria. Nel 400 a.C Astronomia e Archeologia facevano in pratica una scienza sola, ma nel quarto secolo, sempre a C. e grazie ad Alessandro Magno, arrivarono in quei paesi lontane le concezioni astronomiche della Grecia. L’Astronomia progredì fino a raggiungere, un secolo dopo, un equilibrio scientifico pari, se non in certi casi, superiore, a quello greco. La più importante fonte di riferimento furono sicuramente “I cinque libri di Siddhanta” nel quale troviamo una descrizione accurata di quello che usavano per segnare il tempo: una clessidra ad acqua che si svuotava in 24 minuti e altri strumenti che permisero loro di prevedere le posizioni celesti del Sole, della Luna e dei pianeti allora conosciuti ed erano pure in grado di prevedere l’avventi di eclissi solari e lunari. Il piano dell’eclittica nel quale ruotava la Terra non era diviso in dodici costellazioni ma in 27 o 28 “Stazioni Lunari” e poiché l’anno era di 365 giorni per compensare la differenza che veniva accumulata, si aggiungeva, ogni tanto, un mese.

Nel quinto secolo a.C., l’astronomo Aryabhata scriveva che la Terra era rotonda e ruotava sul suo asse e per questo le stelle parevano muoversi sulla volta del cielo. Varaha-Mihira, appartenente agli inizi del VI secolo a.C., fu una figura importante nel campo astronomico… A parte il fatto di credere che il fenomeno delle macchie solari possa riferirsi al passaggio delle comete, era comunque in grado di dire che quando queste macchie facevano la loro apparizione, il clima cambiava totalmente con pioggia e venti fortissimi. Ci sarebbe stata carestia e poi inondazioni. Aggiunse fantasiosamente che se le macchie erano a forma di lancia potevano anche cadere sulla Terra, anche se solo in quelle zone del nostro pianeta da dove sarebbero state visibili.

Varaha-Mihira s’ interessò anche della Luna dicendo che era molto più vicina a noi che al Sole e che mostrava sempre la stessa faccia al nostro pianeta. Essendo di forma sferica una parte è sempre illuminata al contrario dell’altra e viceversa.. Il suo interesse si rivolse anche alle occultazioni dei pianeti da parte del nostro satellite  e studiò anche le conseguenze dell’impatto di meteoriti sul suolo lunare.

(7/1 – continua)

Giovanni Mongini