TERZO DAL SOLE – SOGNI E SPERANZE DELL’ANIMALE UOMO ALLA RICERCA DELLA VITA 06

CAPITOLO VI – I GRANDI COMPAGNI DELL’UOMO

Il cavallo

L’origine degli equidi risale a circa 55 milioni di anni fa (Eocene), e le prime forme erano piccole e brucatrici, come l’Hyracotherium, il più antico rappresentante della famiglia dei cavalli. Le sue dimensioni erano simili a quelle di un gatto domestico, aveva quattro dita e viveva nelle foreste umide delle aree continentali dell’emisfero settentrionale (Europa, Asia, Canada, Stati Uniti occidentali). Tra Eurasia e America esistevano, infatti, facili comunicazioni e interscambi di fauna attraverso la Groenlandia e il Nord Atlantico. Con l’apertura dell’Oceano Atlantico, nell’Eocene medio, che allontanerà sempre di più Europa e America, gli iracoteri si scindono in due famiglie: i paleoterii in Europa e gli equidi in Nord America. È in America quindi che continua la storia dei cavalli. Durante l’Oligocene (38-25 milioni di anni), il Mesohippus ha una corporatura maggiore dell’iracoterio ed ha tre dita.

Nel Miocene (25-5 milioni di anni) si estende la vegetazione erbacea, si formano le praterie, e il cavallo (Merychippus) si trasforma da brucatore in pascolatore, con cambiamenti nella morfologia del cranio, dei denti e degli arti.

Il cavallo diventa monodattilo, cioè dotato di un dito solo, lo zoccolo e il genere Equus, che compare in Nord America (circa 4 milioni di anni fa), si diffonde rapidamente in Eurasia, (circa tre milioni di anni fa), e in Africa, dove ha dato origine a varie specie di zebre.

Poi, circa 10.000 anni fa il cavallo scomparve dal Nord America dove verrà introdotto nuovamente solo dopo la scoperta di Colombo. I nativi americani, quindi, non hanno avuto modo di avvicinare il cavallo se non in epoca relativamente molto recente.

Nel lunghissimo periodo che va da tre milioni a un milione di anni fa, l’Equus si espande in tutta l’Eurasia, diversificandosi in conseguenza delle condizioni ambientali. Possiamo dire che nelle regioni più settentrionali si sviluppa un tipo di cavallo (impropriamente detto “a sangue freddo”) più pesante, meno vigoroso, vivace e meno veloce da cui l’uomo farà derivare le razze “da lavoro”. Nelle regioni più meridionali dell’Asia e dell’Europa si sviluppa invece un cavallo (impropriamente detto “a sangue caldo”) molto reattivo, più leggero e veloce.

Per quasi un milione di anni, poi, l’Equus è solamente una preda dell’uomo. In Italia le più antiche testimonianze dell’uomo risalgono a un milione di anni fa, durante l’età paleolitica, quando egli convive con più specie di Equus, tra cui I’Equus caballus, il vero cavallo, a partire da 700.000 anni fa.

Circa 200.000 anni fa compare l’Equus hydruntinus, di media mole, che fu una delle principali prede dell’uomo preistorico.

Importanti rinvenimenti di resti ossei equini sono quelle di Torre in Pietra e Castel di Guido, nel Lazio, e quelli di Grotta del Cavallo, Grotta Romanelli e Grotta Paglicci in Puglia.

In quest’ultima grotta, oltre ai resti ossei, sono state individuate in un ambiente interno della stessa, rappresentazioni pittoriche di due cavalli. Immagini simili sono note in grotte preistoriche anche in Francia e in Spagna. Le tracce lasciate sulle ossa equine dagli strumenti in pietra usati dall’uomo paleolitico, testimoniano l’uso della carne equina come cibo, durante la preistoria. In Francia, presso la rupe di Solutré, il rinvenimento di molte ossa equine alla base della rupe stessa fece ipotizzare un sistema di caccia che consisteva nel far precipitare dall’alto i cavalli per ucciderli. Studi più approfonditi portano oggi a rigettare tale ipotesi evidenziando invece che si tratta probabilmente di un sito di caccia stagionale, nel quale i cavalli durante gli spostamenti tra i pascoli estivi e quelli invernali passavano nella stretta valle sottostante la rupe dove venivano uccisi.

Fino a pochi anni or sono, le più antiche testimonianze della domesticazione del cavallo provenivano da Dereivka, in Ucraina: sono testimonianze che risalgono a un periodo compreso tra il 4300-3500 a.C.

Solo nel 2009, un gruppo internazionale di archeologi ha scoperto il più antico reperto di un cavallo addomesticato dall’uomo. La scoperta, realizzata da ricercatori delle Università di Exeter e di Bristol, è stata pubblicata da “Science” nel numero di febbraio 2009.I ricercatori hanno tracciato le origini della domesticazione del cavallo fino alla cultura Botai, fiorita nel Kazakhstan circa 5500 anni fa, vale a dire oltre mille anni prima di quanto finora si pensasse e 2000 anni prima che il cavallo domestico fosse conosciuto in Europa. Un aspetto particolarmente interessante è la testimonianza del fatto che all’inizio il cavallo venisse considerato anche un animale da latte. Le analisi degli antichi resti ossei hanno mostrato che questi cavalli avevano un aspetto molto simile a quelli domestici dell’età del bronzo, e che differivano da quelli selvatici della stessa regione. Ciò suggerisce che quella popolazione avesse selezionato i cavalli selvatici in base alle loro caratteristiche fisiche, alcune delle quali molto potenziate attraverso gli incroci. Grazie a una nuova metodologia di analisi dei resti lipidici sulle ceramiche della cultura Botai, i ricercatori hanno potuto identificare tracce di grassi provenienti dal latte di cavalla. In effetti nella regione ancora oggi viene bevuta una bevanda a base di latte di cavalla fermentato, una tradizione che affonda evidentemente le radici in un passato quanto mai lontano. Noi oggi sappiamo che la domesticazione del cavallo ha avuto un impatto sociale ed economico immenso, permettendo grandi progressi nelle comunicazioni, nel trasporto di merci, nella produzione di prodotti alimentari e nel benessere generale. Le nostre scoperte indicano che i cavalli sono stati addomesticati almeno mille anni prima di quanto ritenuto. E’ un fatto significativo, perché modifica la nostra comprensione di come si siano sviluppate quelle prime civiltà..

L’addomesticazione del cavallo e la sua utilizzazione è stata sicuramente favorita da una caratteristica anatomica degli equidi: fra i denti incisivi ed i molari presentano una zona, detta “barre”, in cui la gengiva è libera. E’ un punto particolarmente sensibile. A un certo punto della sua evoluzione, l’uomo scoprì che, infilando fra le barre del cavallo un oggetto (di legno, di cuoio, di corno e successivamente di metallo) ed esercitando su quell’oggetto una pressione tramite delle redini, il cavallo diventava controllabile: lo si poteva far girare a destra o a sinistra e lo si poteva fermare. Anche se nessuno ci pensa più, quella scoperta fu una delle più importanti della storia. Da quel momento in poi, le popolazioni che conoscevano questa “tecnologia” e che grazie ad essa erano in grado di controllare ed utilizzare il cavallo diventarono le popolazioni dominanti. Da tener conto che siamo proprio nel periodo (intorno al quinto millennio avanti Cristo) in cui l’uomo inventa un altro elemento che sarà fondamentale nella storia: la ruota. Infatti, quando abbiamo parlato della ruota abbiamo anche detto che, probabilmente, solo in tempi successivi fu usata per il trasporto e tutto cominciò in quelle aree, come Mesopotamia e Cina, dove sono stati addomesticati animali di grossa e media taglia, i soli in grado di fornire la forza motrice.

Dalle pianure dell’Ucraina il cavallo domestico si diffuse in altre aree europee e asiatiche, comparendo in Europa occidentale alla fine dell’Eneolitico. Fra le prime testimonianze che ritroviamo in Italia, interessantissime quelle che riguardano la civiltà degli Heneti (che diventeranno Veneti), popolazione che prima del mille avanti Cristo arrivò nell’attuale Veneto, e la Civiltà Terramare, in Emilia.

Le terramare dell’Emilia sono l’espressione dell’attività commerciale nell’età del bronzo, fra il quindicesimo e il tredicesimo secolo avanti Cristo. Sono insediamenti lungo una via che attraversava le Alpi nella Val Camonica e giungeva alle sponde del Po, qui venivano costruite le terramare (costruzioni su palafitte) che fungevano da depositi e punti di partenza delle merci costituite da ambra dal Mar Baltico, e stagno dai Monti Metalliferi, con direzione lungo il Po fino alla foce e all’Adriatico, verso il Mar Mediterraneo orientale, il Mar Egeo, Creta, l’Asia Minore, la Siria, l’Egitto. Nonostante lo stacco storico di alcuni secoli, le popolazioni terramaricole sono forse strettamente imparentate con i successivi Villanoviani e gli Etruschi. Infatti la grande tecnica nel trattare le acque di scolo, la presenza di argini, canalizzazioni e fognature nelle città etrusche, potrebbe essere derivata dai terramaricoli che da sempre ebbero a che fare con tali opere. Il collegamento tra Terramaricoli e Villanoviani si riscontra anche nella pratica d’incinerazione dei defunti, diffusasi dal centro Europa lungo la via dell’ambra. Ma, soprattutto, è di estremo interesse la  loro capacità di utilizzare il cavallo, così come attestano i ritrovamenti di morsi in corno (databili a prima del mille avanti Cristo).

Facendo un passo indietro nel tempo, in Centro Italia la presenza del cavallo come animale probabilmente già addomesticato, è testimoniata dai ritrovamenti di Le Cerquete-Fianello, presso Maccarese (Roma). Qui, in un villaggio dell’età del Rame, databile alla metà del III millennio a.C., è stato rinvenuto un pozzetto contenente gli scheletri di un cavallo e di due cani sepolti insieme probabilmente a scopo rituale. Non ci sono però tracce di un eventuale impiego del cavallo in tale periodo. Altri ritrovamenti (sempre della stessa epoca sono stati effettuati a Bracciano (Vicarello) e a Luni sul Mignone (Blera):

Nel primo millennio avanti Cristo le tecniche di allevamento e d’impiego del cavallo si affinano fino ad esprimere principi che sono tuttora validissimi, fino ad essere riassunti, nel quinto secolo a.C., da Senofonte in due trattati (“l’Ipparco” e “Sull’Equitazione”) che potrebbero essere scritti oggi. Il cavallo diventa uno dei fulcri della civiltà e assume il ruolo e l’immagine di un essere superiore.

Sarebbe troppo lungo cercare di descrivere qui quali siano stati il ruolo e l’importanza del cavallo durante il lungo periodo della civiltà Romana. E’ però necessario percorrere la storia per sommi capi.
“Si può parlare di un “cavallo romano” antico il cui modello, per molti, s’identifica con il cavallo del monumento dell’imperatore Marco Aurelio, in Campidoglio”.

E’ un cavallo mesomorfo, cioè di struttura leggera e di statura non alta (se s’immagina l’imperatore in piedi accanto al cavallo e non in sella, si può pensare che l’altezza al garrese del cavallo sia ampiamente al di sotto della spalla dell’imperatore). I diametri sono importanti e tutto il modello dà una grande impressione di robustezza e serenità di temperamento. La testa è ben proporzionata, la linea frontale è rettilinea tendente al montonino (cioè leggermente convessa): una caratteristica che è ancora oggi definita dagli inglesi “naso romano”

Quest’ultima caratteristica, forse derivata dal cavallo Berbero, la ritroveremo poi, e la ritroviamo tuttora, in cavalli allevati nella Maremma laziale. Altra caratteristica che ritroveremo: la groppa ben arrotondata e l’attaccatura della coda bassa.

Nella Roma dell’età repubblicana e dell’inizio dell’età imperiale fu sicuramente sviluppato un allevamento equino improntato a un’ottica zootecnica, con l’obiettivo di produrre cavalli dai caratteri omogenei (anche se in continua evoluzione grazie all’impiego dei migliori cavalli provenienti dalle varie regioni dello sconfinato Impero Romano) destinati alla cavalleria. Autori come Catone, Varrone, Virgilio, Plinio, Vegezio, ma soprattutto Lucio Giunio Moderato Columella nel suo “De Re Rustica”, contribuirono a diffondere la cultura dell’allevamento ed il continuo miglioramento del cavallo con accoppiamenti e incroci ben mirati, sia riguardo alle caratteristiche fisiche, sia a quelle di temperamento.

Nell’antica Roma, il cavallo aveva prima di tutto una funzione “militare” che diventava definizione sociale: chi poteva permettersi l’acquisto e il mantenimento del cavallo era un “eques”. Il termine latino eques ha un duplice significato: quello di cavaliere e quello di appartenente al ceto equestre (eques romanus), anche se a Roma la creazione della cavalleria è precedente alla formazione dell’ordine equestre inteso come classe politicamente rilevante. La cavalleria della legione Romana era composta da militari appartenenti alle famiglie più agiate (gli “equites”). Con la riforma dell’esercito da parte di Mario (108 a.C.) e per tutta la storia romana successiva, a ogni legione si affiancava, come unità di appoggio, la cavalleria: 300 cavalieri suddivisi in 10 squadroni, che per la loro snellezza numerica e agilità di manovra effettuavano operazioni di fiancheggiamento, di esplorazione e soprattutto di inseguimento del nemico sconfitto. Le centurie, di cento uomini ciascuna, godevano nei comitia centuriata di un peso politico superiore alle altre classi; in seguito, con il termine equites non s’indicò più soltanto coloro che erano iscritti nelle diciotto centurie di cavalieri (equites equo publico), ma anche coloro che avevano una qualifica censitaria tale da poter mantenere un cavallo a proprie spese (equites equo privato); proprio quest’ultima categoria formerà quel ceto equestre di cui sopra. Durante la Repubblica, la Cavalleria romana contava da 70.000 a 100.000 uomini e aveva al suo servizio veterinari militari che potevano contare anche sui trattati di agricoltura e veterinaria come quelli di Lucio Giunio Moderato Columella e di Magone di Cartagine (che scrisse un’opera di veterinaria in 28 volumi che venne portata a Roma dopo la distruzione di Cartagine e tradotta in latino da Dionigi di Ustica).

Tutti sanno bene che il Rinascimento, la “rinascita delle arti”, è stato prerogativa italiana. E lo fu anche per quanto riguarda l’allevamento e l’utilizzazione del cavallo: zootecnica equina e equitazione diventano vere e proprie arti, studiate e codificate come tutte le altre. Solo per fare un esempio, Leon Battista Alberti, architetto oltre che umanista a tutto campo, descrisse minuziosamente le caratteristiche del cavallo perfetto.

Adesso siamo nel momento della scoperta dell’America. In Europa, l’arte equestre e la qualità dei cavalli ha raggiunto vertici eccelsi. Basta pensare che i nativi americani non avevano mai visto un cavallo e non avevano nemmeno idea di come potesse essere utilizzato per capire quale fu l’impatto dell’arrivo dei Conquistadores.

Dalla fine del ’700 in poi, si assistette a un incremento progressivo di oggetti di una nuova razza, creata nel corso del 1700 in Inghilterra: il Purosangue Inglese, il cavallo più veloce mai selezionato dall’uomo, prerogativa dell’aristocrazia e, poi, dell’alta borghesia. Così come si moltiplicheranno le presenze di soggetti di altre razze straniere (ad esempio l’Irlandese) per la neonata passione per le Caccie alla Volpe e poi per gli Sport Equestri, in particolare per il Salto Ostacoli. Dal 1800 in poi, il Purosangue Inglese, oltre a diventare il “cavallo da corsa” per antonomasia (oggi tutte le corse al galoppo sono di purosangue), è stato utilizzato massicciamente per migliorare le qualità genetiche della razza da molti allevatori italiani

Dopo l’avvento del motore, cioè a partire dall’inizio del XX secolo, tutto è cambiato: nel corso di un solo secolo il cavallo ha completamente perso qualsiasi utilità. Fra i reparti militari esistono solo più alcune decine di cavalli tenuti per motivi di rappresentanza. Per scopi civili, l’utilizzo del cavallo è limitato agli sport equestri o a passeggiate. In agricoltura è stato completamente soppiantato dai trattori. Si è scoperto che l’avvicinamento al cavallo può essere molto utile per i portatori di determinate forme di handicap. Il cavallo continua ad avere un fascino misterioso e unico.

Uno degli obbiettivi più importanti, oggi, è quindi la conservazione delle razze create dall’uomo in quasi settemila anni di storia, la conservazione delle tecniche di domesticazione e di addestramento, conservazione di un patrimonio culturale che rischia di andare disperso nel giro di pochi decenni. Il cavallo e la cultura del cavallo devono essere tutelate come qualsiasi altro bene culturale perché rappresentano un vero e proprio patrimonio dell’umanità.

Come abbiamo già avuto modo di dire il cavallo fu Introdotto tra gli indiani dagli Spagnoli all’inizio del secolo XVI, e divenne presto fondamentale, un autentico elemento catalizzatore ed essenziale della nuova cultura delle grandi pianure. Mentre le colonie spagnole si spostavano verso nord, fuori dal Messico, anche il più importante mezzo di trasporto degli europei, cioè il cavallo, si spostò. Ovviamente gli europei, che avevano capito l’importanza e la superiorità che dava loro il quadrupede, tentarono di impedirne l’uso presso le popolazioni indigene, senza ovviamente riuscirvi. Intorno alla metà del diciassettesimo secolo gli Apache, i Kiowa e gli Ute, svilupparono un comportamento diventato poi di uso comune nelle culture delle pianure: quello delle scorrerie per procurarsi i cavalli. Successivamente, durante la ribellione dei Pueblo del 1680, centinaia di cavalli caddero nelle mani degli indiani. In più alcuni cavalli spagnoli erano diventati selvatici nel corso degli anni e furono catturati dai nativi. Dopo il 1680 il traffico di cavalli avanzava rapidamente verso nord.  Popoli nomadi del sud, ora a dorso del cavallo, li barattavano assieme ad articoli per la caccia con le tribù di nomadi o di agricoltori del Nord. I Kiowa trafficavano i cavalli con i Wichita, i Pawnee, i Cheyenne e gli Arapah. Gli Ute scambiavano i cavalli con i Comanche e gli Shoshoni. Questi ultimi erano in affari con i Crow e le altre tribù dell’altopiano del Columbia, tra cui i Nez Perces, i Cayuse e i Palouse. Il popolo dei Cayuse, che aveva sviluppato l’arte dell’allevamento di cavalli, diede il suo nome a una specie di pony, mentre i Palouse diedero il loro ha una razza chiamata Appaloosa. I villaggi dei Mandan e degli Arikara divennero centri del commercio a nord. Dopo breve tempo i Sioux ed altre tribù ad est del fiume Missouri disponevano di cavalli e così anche le tribù al Nord come i Blackfoot, gli Assiniboine, i Cree e gli Ojibway delle Pianure.Membri. Alcune tribù assunsero il ruolo specifico di mercanti di cavalli e un linguaggio mimico si sviluppò tra le tribù stesse per facilitare il commercio tra loro; gli indiani organizzarono persino mostre annuali di cavalli. Verso la fine del secolo diciottesimo l’uso del cavallo era ormai molto diffuso. Visto l’incremento della mobilità con l’uso del cavallo, molte tribù abbandonarono la vita sedentaria in villaggi e l’agricoltura, a favore di un’esistenza da nomadi come cacciatori. Culture sinora diverse si assomigliarono e si fusero nella cosiddetta tribù composta delle grandi pianure. Il bisonte divenne la base dell’economia indiana delle pianure. Il cavallo che aveva reso possibile il nuovo modo di vivere, divenne il simbolo dominante di ricchezza prestigio e onore come anche la ragione principale di scorrerie e guerre intertribali.

Nella seconda metà degli anni 50 del 19° secolo, L’estremo Ovest dava segni d’impazienza nei riguardi del governo centrale dell’unione. Erano in atto anche i fermenti negli stati del Sud, che avrebbero portato alla guerra civile. Nell’Ovest serpeggiava il malcontento, le comunicazioni con il resto degli stati erano pessime, una lettera o non arrivava o impiegava da sei mesi a un anno per giungere a destinazione. Anche le comunicazioni amministrative del governo, le sue decisioni si venivano a conoscere all’Ovest anche un anno dopo. Serpeggiava anche nell’estremo Ovest l’idea della separazione. Il governo aveva previsto la costruzione di una linea del telegrafo per l’Ovest, mentre all’Est erano già funzionanti, ma il progetto si muoveva lentamente e la situazione era molto tesa. In quel periodo in California, Nevada e Utah vivevano già oltre 300.000 abitanti e la popolazione registrava un trend d’aumento annuale considerevole.

Fu così che una società di trasporti del Kansans, la “Leavenworth & Pikes Peak Express”, il 27 Gennaio del 1860 si trasformò in “Central Overland California and Pikes Peak Express Company” per il rapido trasporto della posta in California. I soci, William Hepburn Russell, William B. Waddell e Alexander Majors, battezzarono la nuova linea “Pony Express”, incorporata in modo sussidiario nella società primaria. Alla realizzazione operò attivamente A. Majors con un nuovo socio Ficklin, i quali progettarono 190 stazioni per 1966 miglia (3106 Km), misero in previsione di operare con 50 Cavalieri e 500 cavalli e di inaugurare il primo viaggio il 3 Aprile 1860. Majors acquistò oltre 400 cavalli tra i quali Purosangue, Mustang, Pintos e alcuni cavalli di sangue Arabo: i Gershwing, d’altezza media di 1,47 mt per un peso medio di 410 Kg; per questo il nome “Pony” , riferito all’altezza, risulterà appropriato.

Un giornale di San Francisco pubblicò l’annuncio nel quale si leggeva: “Si ricercano giovani magri, non oltre i 18 anni, cavalieri esperti, disposti a rischiare la morte tutti i giorni, si preferiscono orfani”. La paga era di 25 dollari alla settimana, circa 100 dollari al mese. Tra gli assunti non furono molti gli orfani e l’età media fu di 20 anni, anche se il più giovane ne aveva 11, alcuni erano prossimi ai 40. La paga era buona per l’epoca; si pensi che un buon Cowboy poteva guadagnare dai 30 ai 40 dollari al mese.

Il 3 Aprile 1860 partirono per primi Billy Richardson da St. Joseph Missuri, verso Ovest e Sam Hamilton da Sacramento California, verso Est.

La sacca contenente la posta era chiamata Mochila; in genere pesava dai 10 ai 15 Kg. La si trasportava continuamente, giorno e notte. Le stazioni erano di due tipi, quelle per il semplice cambio dei cavalli e quelle in cui, oltre al cambio del cavallo, avveniva anche il cambio del cavaliere e dunque erano più grandi, con camere per il ristoro e il riposo. Erano poste, tra loro, a una distanza variabile dalle 8 miglia (13 Km) alle 20 miglia (32 Km), a seconda della difficoltà del percorso. I cavalieri cavalcavano da 70 miglia (112 Km) a 100 miglia (160Km), prima di smontare per fine della tratta. La velocità dei cavalli variava a seconda delle zone, pianura o montagna, e a seconda dei terreni, tuttavia la media era compresa tra le 8 e le 10 miglia all’ora, circa 14 km all’ora. Tradotto nelle andature a cavallo vuol dire fare molto galoppo, in cadenza di 250-300 metri al minuto alternato a qualche tratto al passo: è un’andatura sollecita per una distanza di una ventina di chilometri che permetteva di mantenere una riserva d’energia per un’eventuale emergenza. Ogni cavaliere nel compiere la sua tratta cambiava 5 o 6 volte il cavallo, che trovava pronto, sellato e caldo, per una rapida ripartenza. Il percorso intersecava le tre grandi vie dell’Ovest, Oregon Trail, Mormon Trail e California Trail. La “Pony Express Highway” andava da Marysville Kansas a Fort Kearney Nebraska. Dal fiume Platte a Gothenburg ai passi Courthouse Rock, Chimney Rock a Scotts Bluff del Colorado, per giungere a Fort Laramie nel Wyoming. Dal fiume Sweetwater ai passi Indipendence Rock, Devil’s Gate, Split Rock a Fort Caspar al South Pass per Fort Bridger sino a Salt Lake City. Attraversando il Gran Basin in Utah, il deserto del Nevada, Sierra Nevada, lago Tahoe, prima d’arrivare a Sacramento in California. Il tratto più difficile era nel Wyoming. A Fort Laramie si saliva attraverso le Rocky Mountain, sino al South Pass, per scendere verso Sud fino a Fort Bridger e di lì ancora le Wasatch Mountain dello Utah, sino al Gran lago Salato.

Nel Luglio del 1860 Ficklin liquida il socio Russell che passa come socio nella Pacific Telegraph Company, la quale il 25 Ottobre 1861 invierà il primo messaggio telegrafico da Est a Ovest, decretando di fatto la fine del servizio a cavallo del Pony Express, quella stessa settimana. Il Pony Express nei 18 mesi di servizio impiegò 183 Cavalieri, uno morì nel tragitto ed uno perse la Mochila con tutta la posta. Il costo per spedire un plico era di 5 dollari ogni mezza oncia; alla fine il prezzo era sceso a 1 dollaro. La società spese circa 700.000 dollari e chiuse con un deficit di 200.000 dollari, ma non ottenne il risarcimento dal governo a causa dell’inizio della guerra civile. Il Pony Express divenne un mito nella storia degli USA e benché il servizio durò appena 18 mesi, gli Americani gli tributarono grande riconoscenza ed attualmente lo ritengono un esempio del “Miracolo Americano” che contribuì a tenere unita la nazione. Non dimentichiamo però che un altro mezzo di trasporto e di collegamento era costituito, nel secolo XIX, dalle diligenze che erano normalmente trainate da due coppie di cavalli, dette “tiro a quattro”, solo per particolari percorsi, salite o strade con fondo difficile, si attaccavano sei cavalli “tiro a sei”. Le fermate durante il viaggio si definirono “stazioni”, il percorso tra una stazione e l’altra si definì “tratta” l’atto del viaggio era definito “diligenza”, da qui il nome del mezzo. Il viaggiare in diligenza era definito “scena” e infine, la diligenza in viaggio con passeggeri, era definita “pullman”.

Il cane

Un altro imprescindibile “compagno di viaggio” dell’uomo, munito principalmente delle invenzioni di cui abbiamo parlato è il cane, il suo miglior amico e compagno, in molti casi fedele fino alla morte.

Ancora oggi, non si conoscono con certezza le origini del cane domestico e le ipotesi che si sono formulate fino a ora sono diverse e opposte tra loro. Comunque sia la maggior parte di queste teorie attribuiscono la discendenza del cane al lupo o più difficilmente allo sciacallo, ma secondo altre ipotesi l’attuale cane discenderebbe da entrambe e questo avrebbe in seguito originato diverse razze dalle quali deriverebbero le numerose razze attuali. Comunque sia, opinioni derivanti dagli studi più recenti che si sino svolti anche in campo antropologico portano a considerare il lupo grigio come il vero antenato e progenitore del cane, una sottospecie, quindi. E fin qui, diciamo potremmo anche esserci, potremmo essere arrivati alla giusta soluzione, ma esiste un altro problema non da poco: com è avvenuto il processo di domesticazione del lupo che in seguito lo avrebbe portato a diventare il più valido e fidato compagno dell’uomo? Esistono molte ipotesi a questo riguardo e, tra esse, una potrebbe sembrare attendibile e che sarebbe avvenuta in modo assolutamente naturale, una sorta di domesticazione naturale nella quale le specie, quella dell’uomo e quella del lupo, hanno trovato tra loro un reciproco vantaggio. Se, in effetti, i lupi meno abili nella caccia, spinti dalla fame, avessero iniziato a seguire i gruppi nomadi di cacciatori, cibandosi dei loro avanzi, ecco che di conseguenza gli uomini avrebbero tollerato la loro presenza grazie al preziosissimo ruolo di sentinelle che i lupi, inconsapevolmente, svolgevano stabilendosi accanto agli accampamenti e avvertendo con latrati e guaiti l’avvicinarsi di eventuali intrusi. Questo, con il passare del tempo, avrebbe avuto come conseguenza che i lupi cominciarono a trovare naturale e istintivamente di reciproca convenienza in quanto potevano cibarsi senza andare a caccia e sarebbero quindi stati adottati, diciamo ufficialmente dall’uomo. Andiamo più sul sicuro quando cerchiamo di trovare le cause dei mutamenti genetici che avrebbero portato i “cani domestici” a distinguersi dai lupi. Questi mutamenti deriverebbero da un’inconscia selezione dei soggetti più adatti per essere addomesticati e sono ancora oggi riscontrabili in tutti i cani domestici (riduzione del volume del cranio, posizione meno obliqua degli occhi, accorciamento del piede, accorciamento dei canini, comparsa delle diverse varietà di colore e delle chiazze del mantello, ecc…). Tra i ritrovamenti più antichi figurano numerosi resti di lupi (o ‘cani domestici’) i quali, anche se pure molti presentano evidenti segni di macellazione, mostrano chiaramente le differenze morfologiche tra gli antichi cani e quelli odierni. Ma le prime testimonianze di un nuovo legame tra uomo e cane non si farà attendere molto: i resti di un uomo sepolto assieme al suo cane datato circa 12000 anni fa, ne sono un’assoluta conferma. Invece l’esistenza delle diverse razze odierne è da attribuirsi anche al fatto che i lupi, e le loro sottospecie, siano stati addomesticati quasi contemporaneamente in ambienti diversi, con condizioni climatiche diverse e con incroci differenti. Certamente però i primi cani erano considerati molto utili dall’uomo che imparò a sfruttarne le attitudini, fisiche e caratteriali, assegnandogli così varie mansioni che andavano dalla caccia alla semplice guardia. Proprio questo spiega anche la presenza di razze adibite a un lavoro specifico: la selezione, quasi involontaria, del passato infatti, avrebbe portato alla creazione di soggetti differenti a seconda del loro lavoro: sarà quindi ovvio che un buon cane da caccia avrà gambe lunghe e una corsa fulminante, un cane che deve cacciare tra rovi e bassi passaggi avrà invece delle gambe corte ed un fisico più allungato; quelli da guardia dovranno avere denti più affilati ed una mascella potente, nonché una certa intelligenza…

In questo modo l’uomo entrerà prepotentemente nella scena del mondo guadagnandosi presto un ruolo di primo piano. Sarà il dominatore della Terra e il suo distruttore sempre più portato a questa seconda mansione durante lo scorrere dei secoli.

Ora l’uomo è pronto: lo scenario è stato creato, la strumentazione più importante che lo seguirà per sempre nel bene e nel male, pure. Il dominatore della Terra è pronto ad attraversare le ere perché ora sa costruire, sa leggere, scrivere, parlare dipingere e scolpire. Ha con se’ amici che lo seguiranno sempre. Insomma tutto e pronto: la sua capacità di progredire pure. Ora tocca a lui decidere che uso fare del dono dell’intelligenza, quella stessa capacità di apprendere che lo seguirà lungo tutto il suo percorso su quel piccolo grumo di fango ai margini della galassia illuminato da una piccola stella chiamata Sole circondata da un corteo di mondi di cui il suo occupa il terzo posto… il terzo dal Sole…

(6 – continua)

Giovanni Mongini