SCAMBIO DI TESTE 19

19.

Un mese dopo l’ispettore Gerardo Abril aveva maturato la convinzione di trovarsi legato mani e piedi al caso più complicato della sua carriera. Non che fosse difficile. Sino ad allora si era occupato solo di segnalare jineteras e condurle in centrale e di arrestare piccoli truffatori, o contrabbandieri di sigari e rum. Per non parlare della bella vita che aveva sempre fatto a oriente, dove non succedeva mai niente. Liti di famiglia, ladri di maiali e cavalli, contadini che contravvenivano al divieto di uccidere capi di bestiame di proprietà dello Stato. Queste erano le maggiori preoccupazioni. Ricordava ancora a Guantanamo la storia del maiale rapito. Una banda di ladruncoli aveva portato via un maiale a un contadino e chiedeva un riscatto di mille pesos per lasciarlo libero. Lui aveva risolto il caso smascherando i rapitori del suino che si erano beccati un paio d’anni di galera. E sorrideva ancora pensando a tutte le volte che oggetto del sequestro era stata una mucca. L’ispettore Abril in quei casi faceva finta di niente, se il contadino avesse sporto denuncia sarebbe stato lui il primo incriminato. Per le leggi cubane soltanto lo Stato poteva possedere una mucca e chi contravveniva la legge rischiava vent’anni di galera. Gerardo Abril rimpiangeva quel paesaggio semidesertico con allevamenti di bestiame, cavalli bradi che correvano sulle pianure in riva al mare, campi di mais, grandi ceibas dal fusto immenso, alberi di mango e radi palmeti. Ricordava la Sierra Maestra sopra Santiago, un gruppo di monti dove non era difficile imbattersi in fitti banchi di nebbia, e quel caldo intriso di umidità soffocante prima del calare del sole. Ricordava il giorno che era andato sulla Grande Piedra per controllare le autorizzazioni a un paio di paladares. Da milleduecento metri di altezza si era affacciato sui luoghi della Rivoluzione e aveva salutato Santiago, una città d’oriente che non era difficile dimenticare. I vicoli bui della capitale del passato e quel caldo appiccicoso in ogni mese dell’anno, i piccoli truffatori e le prostitute di colore che attendevano un’occasione davanti alle porte d’un grande albergo. Non era quello l’oriente che rimpiangeva, anzi Santiago era forse peggiore dell’Avana e l’aveva lasciata volentieri. Lui aveva nostalgia degli anni passati a Guantanamo e Bayamo, in mezzo ai campi di canna e boniato, dove il tempo scorreva con lentezza, i giorni si succedevano monotoni e le stagioni erano sempre uguali. A Bayamo aveva dovuto occuparsi di un tentativo di violenza carnale che, a dire il vero, la donna aveva risolto da sola. Un negro aveva tentato di mettere le mani addosso a una compagna di lavoro, durante la pausa mensa alla centrale dello zucchero. Lei non aveva avuto un momento di esitazione a mordergli la lingua con tutta la forza e la rabbia che aveva in corpo. Gliela aveva strappata via di netto. Era stato un caso che aveva fatto parlare a lungo tutta la città. Il negro aveva perso molto sangue e soprattutto l’uso della parola per tutta la vita. Era stato punito abbastanza.

Adesso che l’avevano spedito ad Alamar si trovava a far fronte a un criminale vero, un assassino che colpiva con regolarità seguendo una tecnica ripetitiva e insolita. Il primo delitto lo aveva commesso nel suo territorio e per questo non poteva chiamarsi fuori dalla vicenda. Anche se il corpo di Azela lo avevano ritrovato a Cojimar, la scientifica aveva stabilito che il rapporto sessuale e la violenza erano avvenuti sulla spiaggia di Alamar. La corrente poi aveva spinto a largo il corpo e lo aveva restituito dopo due giorni sulla spiaggia del paese vicino. Doveva indagare, c’era poco da fare.

Gerardo Abril studiava gli ultimi rapporti che gli avevano passato dal reparto di polizia scientifica di Antares. Qualche giorno prima l’omicida aveva colpito ancora. Era stata uccisa di nuovo una straniera sul lungomare dell’Avana. I medici legali avevano praticato l’autopsia sul corpo, riconoscendo nell’omicidio la stessa mano che aveva ucciso Azela a Cojimar e la tedesca sulla spiaggia di Guanabo. Questa volta aveva fatto fuori un’italiana sulla scogliera del Malecón. Stessa tecnica di sempre. Violenza carnale e poi annegamento. La vittima era stata recuperata sulle scogliere da due pescatori, un paio di giorni dopo il delitto. Sul corpo trasfigurato dall’acqua salata i medici legali avevano individuato dei segni rossi sul collo. Tracce di sperma nell’apparato genitale confermarono la tesi della violenza carnale. Il rapporto diceva che il decesso era sopravvenuto poco dopo un rapporto sessuale e che la vittima era morta per ingestione di acqua. Quando l’avevano immersa nelle acque nere e calde dell’oceano era ancora viva.

La scrivania dell’ispettore era piena di fax governativi e dispacci di servizio che lo sollecitavano a dare una definizione al caso. Lui pensava a Guantanamo e ai suoi campi di canna e intanto aveva l’incarico di coordinare i colleghi di Cojimar e Guanabo, avvalendosi della sezione di polizia scientifica di Antares.

Ma la responsabilità dell’inchiesta era proprio tutta sua.

Non gliela avrebbe tolta nessuno.

 

La playa de Santa Maria del mar non era lontana da Alamar ed era poco frequentata dai turisti. Gli stranieri preferivano Tropicoco e la playa del Este, conosciuta da tutti come la spiaggia degli incontri facili e delle jineteras. Erano in pochi a spingersi oltre, lungo la via Blanca verso Boca Ciega e Guanabo. Quelle erano spiagge per cubani, con pochi confort e servizi essenziali. L’ispettore Gerardo Abril avrebbe fatto a meno di andarci, ma il dovere glielo imponeva. Quando lo avvisarono dalla centrale di Antares che una squadra di polizia scientifica era diretta alla playa de Santa Maria e che lo attendevano là con urgenza, comprese subito il motivo. Ne avevano fatta fuori un’altra. Perché che fosse una donna era indubbio, ormai. Restava l’incertezza sulla nazionalità e l’ispettore sperava proprio che fosse cubana, la cosa gli avrebbe risparmiato ulteriori grattacapi. Le pressioni del governo stavano diventando insostenibili e persino il Granma aveva dovuto commentare i delitti. Gli articoli minimizzavano l’accaduto e dicevano che la polizia era ormai sulle tracce dell’assassino, in breve tempo tutto sarebbe finito. La Polizia Nazionale Rivoluzionaria non lasciava mai impunito nessun delitto e vigilava giorno e notte sulla sicurezza del popolo e dei turisti. Si concludevano gli interventi giornalistici facendo notare che L’Avana era pur sempre la capitale dell’America Latina dove accadevano meno casi di fatti di sangue.

L’ispettore Abril prese la sua pistola d’ordinanza e la ripose nella fondina dei pantaloni, indossò la camicia stinta color grigio azzurro e uscì. La volante con due uomini a bordo lo attendeva per portarlo a Santa Maria. Lui era immerso nei suoi pensieri e non vedeva l’ora che quell’incubo finisse. Non aveva un momento di pace da quando quel maledetto assassino aveva cominciato a colpire. Faceva tardi in ufficio e trascurava la famiglia per delle riunioni interminabili con i colleghi e con la scientifica. E non erano giunti a nessuna conclusione importante, pareva che l’unica cosa che accomunasse i delitti fosse la tecnica e il particolare, non troppo rilevante, che tutte le vittime erano state ritrovate senza gli slip.

“Sai che scoperta!” pensava l’ispettore Abril “Abbiamo un omicida feticista. E allora? Ci mettiamo a perquisire tutti gli appartamenti dell’Avana a caccia di mutandine da donna?”.

Le palme della via Blanca e la sabbia sollevata dal vento di mare distolsero un poco l’ispettore dai suoi ragionamenti. Faceva caldo. Le spiagge erano la meta quotidiana di cubani e stranieri.

Quando arrivò a Santa Maria era quasi mezzogiorno e i raggi del sole sembravano violente frustate sulle spalle. Faceva caldo, l’estate tropicale stava entrando nel pieno anche all’Avana. L’ispettore Gerardo Abril amava quella stagione, gli ricordava l’oriente e le spiagge vicino alla campagna arata dai buoi e bruciata dal sole, rammentava quelle giornate tranquille passate a cercare di affaticarsi il meno possibile e a vedere i macheteros tagliare la canna. Lui si sentiva ancora un guajiro e il suo cuore era rimasto laggiù, non se ne vergognava affatto. Cosa volevano quegli avaneri con tutta la loro prosopopea? Avevano sì e no cinque o sei mesi di estate, poi arrivavano pioggia e freddo, d’inverno il barometro scendeva addirittura sotto i quindici gradi.

Gli agenti della polizia scientifica avevano portato a riva il corpo e adesso ci stavano lavorando in attesa di trasferirlo al laboratorio per l’autopsia di rito. L’ispettore Abril tirò un sospiro di sollievo quando vide che la donna aveva la pelle mulatta. Era cubana, per fortuna. Almeno in quello era stato esaudito. I suoi occhi cominciarono a perlustrare il luogo del delitto. Una spiaggia assolata, popolata da cubani e pochi turisti, qualche jineteras, due chioschi di pollo fritto e gelati con bibite in lattina e rum. Una piccola folla di curiosi stava al di là della recinzione messa in piedi per isolare il luogo del ritrovamento del corpo. La playa de Santa Maria del Mar era una delle tante spiagge della periferia avanera, in fondo un luogo tranquillo. Per questo c’era poca polizia, i turisti non ci venivano e non serviva grande vigilanza. Era un posto per famiglie, dove chi possedeva un auto o aveva voglia di farsi il tragitto con la guagua passava la domenica con moglie e figli.

Il corpo di quella poveretta presentava gli stessi segni di violenza delle altre vittime. Violenza carnale, tracce di sperma, morte per annegamento. L’ispettore Gerardo Abril ascoltava il medico legale e aveva l’impressione di sentire un disco incantato sulla solita nota di sempre. Quel maledetto assassino colpiva con la stessa tecnica, non erano ammesse varianti. Anche questa volta aveva trafugato gli slip della vittima.

E quella era la sua unica mania, un vezzo che si concedeva, come fosse un collezionista di macabri ricordi. Ma la scena del delitto restava immune da tracce, non c’era niente che potesse ricondurre a un movente. Questa era la cosa più sconcertante.

Avevano a che fare con un pazzo che uccideva per gioco o per rabbia, un depravato, un maniaco sessuale. Poteva essere chiunque, certo. Ma di sicuro era uno che non aveva tutte le rotelle a posto. L’ispettore ascoltava con attenzione le considerazioni del medico legale e scambiava opinioni con i colleghi di Antares. Lui sapeva già che anche dopo l’autopsia non avrebbero scoperto niente di importante. Solo la conferma delle cose di sempre.

C’era un pazzo scatenato che uccideva le donne nella zona compresa tra L’Avana e Guanabo e che lui sapesse era la prima volta che accadeva. Almeno da quando la Rivoluzione aveva trionfato, garantendo tranquillità per tutti. Da tempo girava una barzelletta per le strade dell’Avana. “Quali sono le tre conquiste della Rivoluzione? Istruzione, sanità e sicurezza. E le tre cose dove ha fallito? Colazione, pranzo e cena”. Se veniva meno anche il mito del paese tranquillo, era davvero un problema.

 

Barbara ascoltava sconcertata i racconti che giravano per Alamar sulle donne ritrovate morte all’Avana e a Santa Maria. Lei aveva le sue preoccupazioni, però anche questa situazione contribuiva a non tenerla tranquilla. Roberto era spesso fuori la notte e con quel pazzo in giro poteva rischiare molto. Il killer sino a quel momento aveva ucciso soltanto donne. Autorevoli psichiatri e criminologi assicuravano che la tipologia era da omicidio a sfondo sessuale. C’erano le tre fasi: la violenza carnale, il furto delle mutandine e il successivo annegamento. L’omicida avrebbe continuato ad ammazzare donne, concludevano. Il pericolo era circoscritto. La televisione invitava le ragazze a restare in casa la sera, a non frequentare posti appartati e poco illuminati. Si chiedeva alla popolazione di collaborare con la polizia, fornendo nomi e dando indicazioni in caso di sospetti.

L’ispettore Gerardo Abril mandò a chiamare Fernando per sbrigare le ultime formalità in merito all’omicidio di Azela. Barbara volle accompagnarlo. Non se la  sentiva di lasciarlo da solo, sapeva che per lui ricordare quel tragico episodio voleva dire aprire una ferita ancora troppo fresca per non far male.

La centrale di polizia di Alamar era in perfetta sintonia con il periodo speciale. Costruita vicino al lungomare, in una palazzina con la facciata screpolata dal salmastro e da anni di incuria, era arredata in modo essenziale. Pochi uffici con scrivanie di legno e cassettiere in metallo, macchine da scrivere vecchie e decrepite, poltroncine e sedie mangiate dalla polvere e dal tempo. Fernando e Barbara si accomodarono nell’ufficio dell’ispettore Abril che non era né migliore né peggiore di tutto il resto della struttura.

“C’è qualcosa di nuovo?” chiese Fernando.

“Poco o niente, purtroppo. L’ho mandata a chiamare solo perché nel verbale di riconoscimento della salma mancano le sue firme”.

L’ispettore porse un fascicolo di fogli ingialliti battuti a macchina e un gruppo di foto timbrate. Le foto erano di Azela.

Fernando si sentì mancare. Barbara, seduta accanto in silenzio, gli tenne la mano per fargli forza e rincuorarlo.

“Può evitare di fargli vedere queste cose?” disse bruscamente all’ispettore “È un uomo che ha perduto sua moglie”.

Gerardo Abril comprese di aver fatto un errore, tolse il fascicolo con le foto e le ripose in un cassetto della scrivania. Poi indicò a Barbara i punti dove Fernando doveva firmare.

“Davvero non c’è nessuna novità?” chiese Barbara.

“Le novità le sapete anche voi. Sono quelle che riportano stampa e televisione. Sono morte altre tre donne dopo Azela e la sola cosa in comune è la tecnica di uccisione. Il killer violenta la vittima, l’annega, poi abbandona il luogo del delitto portando via come macabro ricordo le mutandine della donna. Non ci facciamo molto con questi elementi. Però ci stiamo lavorando. Dietro al caso ci sono tutte le stazioni di polizia da Antares a Guanabo”.

Fernando firmò scuotendo la testa.

“La mia Azela non me la ridarà più nessuno, però vorrei vederlo fucilare quel vigliacco. Vorrei che almeno venisse fatta giustizia” disse tra le lacrime.

“Siamo qui per questo” rispose l’ispettore.

Poi aggiunse.

“Un altro elemento c’è, a dire il vero, però non sappiamo quanto possa essere riconducibile a questo caso”.

“Di cosa si tratta?” chiese Barbara.

“Ritenevo che nella zona dell’Avana non fosse mai accaduto niente di simile dopo la Rivoluzione. Sono andato a spulciare un po’ negli archivi di Antares e presso altri uffici della PNR e mi sono reso conto che invece c’era stato un delitto simile a novembre dello scorso anno. Siccome il luogo del fatto era la playa di Bacuranao se n’era occupato il distaccamento di polizia di Guanabacoa. Una ragazza creola di vent’anni era stata ritrovata cadavere sulla spiaggia. La corrente l’aveva portata a riva dopo un paio di giorni che era stata violentata e annegata. L’omicidio era rimasto senza colpevole e risulta ancora nella cartella dei casi insoluti di Guanabacoa”.

“Può essere la stessa persona” interloquì Barbara “ma perché avrebbe atteso tutto questo tempo senza colpire? Ha fatto passare quasi sette mesi e poi ha cominciato a uccidere a ripetizione…”

“Questo è quello che dobbiamo ancora capire. Se c’è un collegamento va trovato” concluse l’ispettore.

Sì. Se c’era un collegamento andava trovato di sicuro. Se la polizia voleva evitare che altre donne morissero sulle spiagge della periferia dell’Avana. Se non si voleva inserire tra i fallimenti della Rivoluzione anche la tranquillità pubblica, come diceva l’ispettore Abril. Intanto però Barbara aveva altre cose importanti alle quali pensare. Il suo ragazzo aveva bisogno di lei e non doveva continuare a perdersi per le strade d’una capitale sempre più insicura. Mentre abbandonavano la centrale di polizia di Alamar, in lontananza piccole barche da pesca prendevano il largo nel silenzio del mattino e piccoli gabbiani contendevano uno spicchio di cielo ai gorriones tuffandosi nelle acque in cerca di cibo. Barbara pensò che padre Antonio quella sera sarebbe stato a cena da lei e avrebbe parlato con Roberto. Lo avrebbe convinto che doveva lasciarsi aiutare e curarsi. Solo padre Antonio poteva aiutare suo figlio. Solo lui e Dio, naturalmente. Perché Dio non abbandona mai i suoi figli, questo Barbara lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.

 

     Il mare è l’unica cosa che mi affascina. Il sapore del salmastro. Il rumore delle onde. Il mare in una giornata di vento. Il mare sconvolto da un tornado. Raffiche che spazzano via polvere e pensieri. Sabbia che si solleva e palme che si piegano come inginocchiandosi di fronte a un Dio. Anche se non lo sanno sono io il loro Dio. Sono io che governo gli elementi di questa impossibile notte tropicale. Io che sono tornato a questa vita che non è più la mia vita ma che è un sogno. Un incubo che mi risveglia furente e mi spinge ad  amare. Abbraccio le mie prede in una morbida stretta, le soffoco di premurose attenzioni, le stringo in un definitivo abbandono. Loro protestano, a volte. Spesso accettano inconsapevoli. Non mi presento quasi mai con il mio vero volto. La mia natura viene fuori poco a poco. Sorprende anche me, talvolta. E quando esce fuori con prepotenza è troppo tardi per placarla. Esige il suo tributo di sangue. Vuole che si arrivi fino in fondo, senza esitazioni. Perché l’amore è questo. Un sentimento assoluto. Un delirio di potenza. Perché l’amore è soprattutto morte. L’amore che io dispenso è una notte senza sogni, è la disperazione che alberga nel mio cuore. L’amore che stringo tra le mani è come un falco che vola nella notte a caccia della preda.

Per questo preferisco il mare. Per questo scelgo le spiagge che si affacciano a esplorare l’oceano e guardano lontano. Mi lascio fecondare da una pioggia di stelle e attendo. Passa sempre qualcuno sul mare. Romantiche sognatrici a caccia del loro futuro, prostitute che adescano, ragazzine che scrutano il cielo in cerca d’una stella cadente. Non sanno che il loro desiderio represso sono io. Non immaginano che di fronte a loro un destino bizzarro ha scritto la parola fine. Io attendo paziente. Attendo e scelgo con cura la prossima vittima d’un desiderio d’amore in riva al mare.

     Perché ci vuole tempo per capire quando si tratta d’amore.

     E io ho tutto il tempo che voglio in questa vita immortale. 

(19 – continua)

Gordiano Lupi