OMAGGIO A J. L. BORGES 03: LA DONAZIONE DI COSTANTINO

Così, finalmente, Arturo stava tornando a Milano da un viaggio di lavoro che lo aveva portato a spasso per mezza Europa . Dopo aver esibito il passaporto e pagato l’autostrada quasi congelando, una volta arrivato a Como, si rese conto che avrebbe dovuto pernottare lì: le condizioni della sua Mercedes non gli permettevano di continuare, anche se si sentì quasi straziato da questo ostacolo imprevisto, come dalla cintura di sicurezza che appena oltrepassato il confine si era slacciato. Erika infatti lo aspettava a Milano, dove stava trascorrendo un  periodo di riposo dopo l’ultimo film, e lui era ansiosissimo di vederla; di lì a un mese se ne sarebbero tornati a Roma.

Non era semplice essere sposati con un’attrice per uno fuori dal giro di Cinecittà come Arturo, ma ci si stava lentamente, e non senza difficoltà, abituando: le feste, i paparazzi, le voci di flirt con attori conosciuti sul set non erano precisamente quel che ci voleva per uno ossessivamente geloso come lui, che infatti proprio per questa ragione aveva provato – sia pure per un periodo brevissimo – a lasciare Erika prima di decidere irrevocabilmente che lei era la donna della sua vita, anche se non aveva la benché minima intenzione di rinunciare alla sua carriera di attrice: se la voleva così, bene, altrimenti addio; e lui, alla fine, l’aveva presa com’era. Sotto sotto, lei si sentiva lusingata e piacevolmente stuzzicata da quella gelosia, e a volte lo chiamava scherzosamente “il mio Turiddu”.

Dopo il matrimonio, volenti o nolenti, avevano dovuto rituffarsi nel lavoro, non di rado stando a distanza anche per lunghi periodi. Ciò rendeva Arturo ancor più geloso e possessivo nei confronti della propria compagna: la tempestava di telefonate, voleva sapere tutto di quello che faceva e non faceva, e diventava una belva se lei non rispondeva alle sue chiamate perché non era tornata in tempo in albergo, o se per caso dimenticava di chiamarlo e lo dichiarava innocentemente. Erika però sapeva come riconciliarsi con lui, magari facendo squillare il suo telefono nel cuore della notte e riempiendolo così di una gioia inaspettata, e Arturo con lei, inviandole mazzi di fiori in ogni luogo, per quanto sperduto, in cui si trovasse.

L’anno precedente, per esempio, era stata nell’interno del Kenia (senza neanche l’ombra di un telefono per dieci giorni), come coprotagonista in uno dei suoi ultimi film: una commedia erotica che il marito aveva evitato accuratamente di vedere. Be’, si disse Arturo con finta noncuranza, se voglio stasera posso farlo: lo danno proprio nel cinema di fianco al mio hotel. Gli sembrò uno strano scherzo del destino quello che una sala di seconda visione di Como gli proponeva, una tentazione alla quale non volle sottrarsi: era una maniera per esser vicino almeno all’immagine di Erika, visto che lei in carne e ossa distava ancora qualche giorno. Al telefono però non glielo disse, vergognandosi un po’ di quel stava per fare: la donna che avrebbe visto sullo schermo sarebbe stata proprio la sua donna? A = A’ o no?

“Notti a Nairobi”, lo s’intuiva fin dal titolo, era un solenne polpettone, con una sceneggiatura assai poco pretenziosa: una celebre documentarista viene invitata a trascorrere una vacanza in Kenya col duplice scopo di aiutare la viziata amica d’infanzia, interpretata da Erika, nel lavoro di zoologa e di salvarle en passant il figlio dalle grinfie di una interessata baccante.

Arturo vide la pelle d’ebano e il nasino tipico delle abissine della protagonista, un’esile figura di ex modella dagli stiratissimi capelli corvini a caschetto, e finalmente Erika, scelta dal regista indubbiamente per contrasto cromatico, una tumultuosa bellezza del nord, quasi disordinata nella sua abbondanza di forme, bionda naturale dalle chiome selvaggiamente ricciolute (Arturo rischiò addirittura di ingoiare il fumo della sigaretta che stava aspirando quando vide quell’inaspettata acconciatura) e gli venne l’acquolina in bocca,  almeno fino al momento in cui… Erika, dopo una partita di polo, è nella stalla con il garzone africano, un ragazzone barbuto dai tratti per nulla adolescenziali nonostante l’evidente giovinezza. L’ultimo  ricordo prima dell’apocalisse: lui vestito di una umile tuta da lavoro che ne maschera solo parzialmente il fisico atletico, un velluto saettante di nervi, e lei in maglietta azzurra a v, pantaloni da amazzone bianchi molto stretti dentro gli stivali, una collana e dei sottili bracciali ai polsi, le mani guantate. Poi: lei che si inginocchia davanti a lui e gli mette le mani sulla patta; la mano che estrae il membro dalla tuta; Erika che, aiutata dall’uomo, si toglie la maglietta;  la vagina  che inghiotte il membro da sopra; Erika che sta a cavalcioni sullo stalliere; lei adesso sembra in piena estasi… quegli occhi spiritati, quella bocca spalancata, la lingua a serpeggiare nell’aria… un dettaglio dell’amplesso… poi un altro e un altro ancora …  e intanto, come se non bastasse, dei gruppi di giovinastri, con tutta probabilità teppistelli o militari in libera uscita in cerca di una vittima sulla quale rifarsi per la giornata di frustrazioni appena trascorsa, facevano segno a Erika degli schiamazzi più volgari, degli insulti più rivoltanti…  lì per lì Arturo stava quasi per alzarsi e insultarli a sua volta, poi comprese che non avrebbe avuto alcun senso e che come massimo risultato avrebbe ottenuto quello di venire deriso a sua volta; non se lo confessava, ma al fondo di se stesso condivideva quello scherno: gli sembrava che sua moglie non fosse molto diversa da una di quelle prostitute viste ad Amburgo solo pochi giorni prima, puttana da bordello che scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci così tipici del quartiere a luci rosse, angusti e ributtanti di essenze a buon mercato, per invitare i clienti, seminuda e senza alcuna vergogna. Stessa espressione, diversa paga. Infine, oppresso da una tale massa di emozioni inestricabile e paralizzante, non ce la fece più. Vacillando e con le lacrime agli occhi, uscì dal cinemino e quasi si ritrovò sotto le ruote di un’auto: tutto sommato, non gli sarebbe dispiaciuto neanche un po’. La luce della “h” dell’insegna “hotel” era spenta.

 

Una volta in camera, il blocco d’angoscia dentro di lui era così denso e compatto – insostenibile – che non sapeva individuare una fessura attraverso la quale penetrarvi. Alla fine decise di attenersi pragmaticamente ai fatti. E i fatti erano proprio quelli che aveva visto? La cosa era di una gravità tale da meritare una conferma definitiva, per quanto risultasse dolorosa: il giorno seguente sarebbe tornato a rivedere il film con la maggiore freddezza possibile. Sì, era deciso: avrebbe rimandato la partenza e solo dopo un’accurata rivisitazione di “Notti a Nairobi” avrebbe preso una decisione. Non pensò neppure per un istante di comunicarlo a Erika.

 

La sera seguente entrò in sala a fatica. Una volta seduto, si sentì di piombo. L’ansia lo aveva condotto lì fin troppo presto e dovette sorbirsi un buon quarto d’ora di trailers e spot pubblicitari. Poi le immagini del film cominciarono finalmente a scorrere: pur sapendo che sarebbe stato  scambiato per un piccolo pervertito, Arturo non fu per questo meno determinato. Alla fine, ottenne un risultato ancora peggiore di quanto già si aspettasse perché non gli riuscì di trovare uno straccio di possibilità che quella sullo schermo intrecciata all’africano non fosse proprio Erika. La sua convinzione riceveva conferme a ogni piè sospinto, piuttosto che smentite. Immerso nel fumo delle sigarette, studiava le posizioni dei corpi e le loro collocazioni nello spazio senza trovarvi la benché minima sbavatura; la mano purtroppo era guantata e quindi da essa non si poteva dedurre un bel niente… si soffermò persino sui dettagli della vagina, ma purtroppo tanto sua moglie quanto l’eventuale controfigura non avevano segni particolari, se non la stessa peluria bionda. D’altro canto, Arturo non aveva mai esaminato troppo da vicino il pube di Erika: i loro erano amplessi tanto furiosi, eccitanti e soddisfacenti in sommo grado quanto privi di preliminari. Di questo, anzi, nel suo intimo Arturo era sempre andato orgoglioso, ma ora gli avrebbe fatto comodo un pochino di curiosità perversa in più. C’era tuttavia qualcosa che non riusciva a spiegarsi: “Notti a Nairobi” era un film come non ne aveva mai visto, con diverse scene di sesso esplicito: era possibile che ciò fosse mostrato in Italia? Non era illegale? Mentre ancora stava riflettendo su questo interrogativo, gli arrivò la risposta. Infatti, quando uscì dalla sala pallido e prostrato da una stanchezza tutta interiore, affaticato persino dai propri passi di marmo che facevano scricchiolare il vecchio e consunto parquet e dalla pesantezza delle fumose tende di velluto violaceo da scostare, Arturo venne avvicinato dal gestore che gli si rivolse in questi termini:

“Visto che roba? Se lo vedeva ‘sto pomeriggio, però, sarebbe rimasto deluso! Sa, stasera abbiamo aggiunto qualche scena girata per l’estero…”

“Non capisco…”

“Ha visto, no, che ci sono delle sequenze molto spinte… dico quelle.”

“Cioè… cioè… mi faccia capire: le scene di sesso, dico di quello non simulato, le hanno girate soltanto per l’esportazione?”

“Esatto, proprio così. Dopo, oltreconfine, le inseriscono una volta per tutte. In Svizzera o in Francia, per esempio, dove la censura lascia fare più che in Italia. Però se le interessa le posso procurare dei film tutti così… ”, continuò speranzoso il gestore.

“Con la stessa attrice, con quella… Erika Hanecker?”

“No, no… ma dello stesso genere…”

“Ma non ce ne sono altri, di film ‘molto spinti’ con quella? ”, incalzò Arturo.

“Boh, che io sappia no… Ma le altre attrici sono anche più belle!”

“Ah, no… no, grazie ma non m’interessa. Arrivederci”, concluse Arturo asciutto, mentre già tirava un sospiro di sollievo al pensiero che non ci fossero altri film pornografici in circolazione con Erika come protagonista. Naturalmente, il sollievo durò solo fino a quando non rifletté sul fatto che innanzitutto una “sola” volta per lui bastava e avanzava, e che inoltre sua moglie si era lasciata andare a girare quella sequenza perché credeva che lui non avrebbe mai avuto la possibilità di vederla. E poi, chi gli diceva che quella fosse davvero l’unica scena tremenda alla quale lei avesse preso parte? Che ne sapeva quel tizio? E se avesse dovuto girarla contro la sua volontà? E perché poi ? No, no:  e allora? La risposta sarebbe stata piacere, magari nella forma dell’esibizionismo, ma quella era la sola che temeva e mai si sarebbe voluto dare.

Il gestore rimase perplesso e cominciò a pensare di aver parlato troppo, e alla persona sbagliata… Possibile che la sua esperienza l’avesse indotto in errore? Eppure, di solito per i maniaci ai quali spillar soldi gli bastava un’occhiata… Ne avrebbe discusso la sera stessa in tono un po’ preoccupato al proiezionista, mentre tornavano a casa in auto, poco prima di schiantarsi contro un camion che li dilaniò in uno scontro frontale.

La triste mattina successiva, mentre stava per lasciare la stanza, Arturo sentì suonare il telefono: una signora lo stava aspettando di sotto. Erika gli mise le braccia al collo e gli diede un bacio appassionato che lui ricambiò, stupito da quell’improvvisata ma anche confortato da essa, come se la sua gelosia, ora, fosse un problema che avrebbe dovuto in qualche modo risolvere lei, con quel suo profumo familiare che esalava dalla morbida pelliccia di volpe. In attesa che il pagodino di Arturo fosse pronto (in realtà lo era da un pezzo), decisero di farsi un giro lungolago. Saltarono entrambi sulla Range Rover della donna, quasi una coppia felice, e lei, guidando spensierata, gli chiese di prenderle la cartina stradale nella borsa che stava da qualche parte sui sedili posteriori. Arturo si volse per farlo ed il suo sguardo cadde sull’angolo dentellato di una foto, con ogni probabilità scivolata inavvertitamente fra un sedile e l’altro; la estrasse dai due cuscini lievemente scostati: Erika sorridente e nuda, a gambe larghe, la mano a sfiorare il pube bene in vista; c’era anche un altro angolo che sporgeva, forse un’altra immagine terribile  della “sua” donna?, ma Arturo si limitò a rimettere a posto la foto, a prendere la cartina stradale come gli era stato ordinato e a passarla a Erika, che non sembrava essersi accorta di nulla. Poi piombò in uno stato stuporoso dal quale non riusciva a riemergere se non per borbottare frasi di circostanza: era incredibile, ma non gli riusciva neppure la cosa più ovvia, che qualunque marito, anche molto molto meno geloso di lui, sarebbe stato in grado di fare in una simile occasione: mostrare la foto alla propria moglie e chiederle spiegazioni. Un effetto come d’implosione, lo si poteva riassumere così.

Per un bel tratto la Range Rover procedette a velocità sostenuta, come cullando ipnoticamente Arturo in una sorta di parentesi dentro la quale era quasi bello non fare nulla all’infuori che ribollire dentro di sé e assentire ogni tanto alle parole vuote di Erika. Se in quel momento avesse avuto occhi per vedere, si sarebbe accorto che stavano andando dalle parti di Lecco, dove per un bel pezzo la costa sale con un pendio lento e continuo; poi si divide in alture e piccole valli, in tratti ripidi e pianeggianti, seguendo il lavorìo dell’acqua e l’ossatura dei monti di San Martino e del Resegone. La parte estrema, tagliata dalle foci di tre grossi torrenti, è formata quasi tutta di ghiaia e grossi ciottoli; il resto da campi e vigne, punteggiato di luoghi abitati, siano essi minuscoli paesini o gruppi di case di campagna; in alcune parti, dei boschi si prolungano fin su per le montagne, in quel febbraio del 1976 tutte innevate. Ma lo spettacolo di quella delicata inurbazione che sembrava ancora ottocentesca per lui era invisibile.

Arturo ormai non parlava più, mentre Erika non faceva altro che sproloquiare a proposito dei suoi e del suo affezionatissimo fratellino. Finalmente l’auto accostò e la coppia scese lungo la costiera che si appoggia appunto alle due cime contigue. Come le accadeva quando era particolarmente euforica, Erika non si rendeva minimamente conto dello stato d’animo del suo interlocutore, concentrata com’era su se stessa: erano quelli i momenti in cui il suo tipico egocentrismo di attrice veniva fuori in tutta la sua patetica miseria e la sua solarità mostrava il proprio lato oscuro. A sua volta, Arturo continuava a tener sepolta la propria ira, una mina che non sapeva come fare esplodere adeguatamente. I due passeggiarono per un po’ così, fra la bruma del lungolago, padroni di una zona scoscesa e solitaria che costeggiava molto da vicino l’acqua; si trovavano ai margini d’una piccola radura nella quale c’era posto soltanto per qualche albero, ma più in basso. Arturo si fermò e la guardò; Erika fece lo stesso e poi disse:

“Che bel negretto!”

“Cosa???”

“Che bel neg…”

Ma non poté ripetere la frase, alla quale stava aggiungendo un debole movimento della mano, perché Arturo, colpito da essa come se Erika avesse potuto penetrare dentro i suoi pensieri quasi giocando d’anticipo e prendendolo in giro, la scaraventò con tutta la sua forza giù dalla riva: sorpresa da quell’azione inconsulta e totalmente inaspettata, Erika scivolò verso l’acqua acquistando una velocità sempre maggiore; venne rallentata nella sua corsa da un sasso, ma solo per perdere definitivamente l’equilibrio e sbattere la testa con violenza contro un ramo grosso e nodoso prima di finire senza un grido nel lago. Arturo era sul bordo, ancora schiumante di rabbia, e solo quando si voltò con disprezzo vide ciò che Erika aveva tentato di indicargli per spiegare la propria frase: gettato nel cestino della spazzatura lì accanto, c’era un foglio pubblicitario nel quale spiccava la foto di un bambino africano che reclamizzava una nota marca di cioccolata. Preso il foglio, cominciò a piangere e a urlare febbrilmente il nome di Erika, scese di corsa verso il lago e fu sul punto di gettarsi in acqua, ma non lo fece, semplicemente perché non sapeva nuotare. Sentì un forte ronzio provenire dall’alto, ma non gli diede peso. Lei era immobile, a faccia sotto, e del sangue le bistrava i capelli. Poi corse alla Rover, finalmente deciso a chiedere aiuto: e però, mentre guidava a tutta velocità verso la cabina telefonica più vicina per chiamare un’ambulanza, gli tornarono perversamente alla memoria la foto che aveva visto in auto e quella di cui aveva soltanto intuito l’esistenza. Ora voleva vedere a ogni costo anche la seconda per sentire di nuovo vibrare in lui la gelosia, esile motivazione alla quale aggrapparsi dopo quello che aveva distrutto con un unico irreversibile gesto. Aggrapparsi a essa per puro istinto di conservazione. Aggrapparsi a qualunque cosa pur di non finire in galera. La vide, l’artigliò e fu fin troppo soddisfatto di quella Erika a quattro zampe, naturalmente nuda, come una cagna solitaria. L’ululato dell’inutile ambulanza lo colse mentre ancora stava sbranando le fotografie.

 

Nel 2003, Arturo conduceva ormai da decenni un’esistenza del tutto immersa nel lavoro e i pochi momenti in cui esisteva solo per se stesso erano gli unici istanti in cui si rendeva chiaramente conto che stava semplicemente sopravvivendosi. Da quasi trent’anni stava aspettando qualcosa che gli indicasse la strada da prendere.

L’indagine seguente all’assassinio di Erika venne ben presto archiviata perché la sua morte fu ritenuta un evento del tutto casuale: non esistevano amanti; nessuno aveva testimoniato di attriti fra i coniugi; mancavano moventi legati all’interesse economico perché Arturo era ricco di suo; i rilievi della polizia scientifica avevano dato piena ragione alla teoria dell’incidente; infine, come ciliegina sulla torta di questo casuale delitto perfetto si era posata la testimonianza di un elicotterista che, pur impossibilitato a prestare soccorso, aveva visto – o meglio, credeva di aver visto – tutta la scena: lei cadere in acqua e lui, dopo un comprensibile attimo di smarrimento, tentare di aiutarla; il solo che avrebbe potuto creare qualche problema a Arturo, il gestore del cinema, era morto. Una tragica fatalità, insomma, alla quale quasi quasi era tentato di credere anche lo stesso assassino. Maledetto ramo!, non fosse stato per quello, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente… di sicuro Erika non avrebbe sbattuto la testa, avrebbe potuto spiegare quella sua frase intempestiva… ma no, Arturo non riusciva ad andare avanti con le bugie: doveva ammettere che in ogni caso non le avrebbe lasciato il tempo di parlare, avrebbe continuato a picchiarla fino a sfogare tutta la propria ira.

Nel corso degli anni, la fama di Erika era progressivamente cresciuta: come accade spesso agli artisti che muoiono giovani, si era infatti creata una piccola schiera di fans che dapprima grazie alla riedizione dei suoi film in vhs, poi attraverso fanzine e riviste del settore ed infine con i dvd ed internet si occupava di tenerne vivo il ricordo. Com’è comprensibile, Arturo aveva sempre risposto molto timidamente agli inviti e ai tentativi di coinvolgimento in iniziative per celebrare Erika, che provenivano anche da suo fratello, ormai ben più che maggiorenne; con lui aveva scambiato anche qualche cauta e cupa mail.  Il suo riserbo veniva ritenuto una forma di rispetto e di testimonianza d’un lutto ancora vivo nel vedovo da parte degli ammiratori dell’attrice. La cosa, in realtà, era parzialmente vera: Arturo viveva nell’ombra della sua vittima e aveva passato mesi e mesi a setacciarne ogni reperto mortale che lei avesse lasciato nelle casa di Milano e in quella di Roma: gli abiti, le foto (va detto, fra l’altro, che tranne quelle ritrovate nella sua auto non ne rinvenne altre per così dire censurabili), gli oggetti comprati nei viaggi di lavoro per il mondo, i libri e gli scritti, o meglio l’unico incomprensibile testo di sua moglie che, come lesse quasi con raccapriccio, recitava: JAAAA… ripetuto n volte per n pagine. Questa sorta di urlo scosse non poco Arturo, innanzitutto perché all’inizio gli parve una funerea premonizione; poi, quando realizzò che si trattava quasi del contrario, di un semplice “SI’” eccessivamente prolungato, lo trovò simile a certe opere d’arte contemporanee per lui incomprensibili: era  poco o niente abituato a un’estetica che non si confondesse, compenetrandovisi completamente, con la semplice bellezza o capacità tecnica; come capita a quasi tutti, confondeva estetica e cosmetica dimenticando che non il senso della bellezza, bensì il potere dell’immaginazione viene per primo: la bellezza è soltanto un’avventura dell’immaginazione. Perciò Erika non poteva venir arricchita in maniera fantasiosa e sorprendente dall’episodio con l’africano, ma semmai ne era  deturpata  irrimediabilmente sotto il profilo della bellezza come da un cancro inestirpabile. In ogni caso, quella sottospecie di testo industriale o post-futurista non era per lui: questo lo sapeva bene e ciò lo rendeva, ancora una volta, geloso. Post-mortem. Ja.

Quando cominciarono ad apparire le prime vhs, Arturo ebbe l’occasione di acquistare la quasi totalità dei film in cui Erika aveva recitato; sebbene fingesse dentro di sé di non attendersi molto da “Notti a Nairobi” (ricordava ancora le parole del defunto gestore del cinema di Como), quando lo vide ebbe comunque un tuffo al cuore: la versione però era quella italiana e quindi censurata. Ne fu più deluso di quanto immaginasse e, come ebbe modo di constatare personalmente estendendo le sue ricerche, all’estero la videocassetta del film neppure era uscita. Non fece alcun tentativo di procurarsi la pizza vera e propria di “Notti” al di fuori dell’Italia perché la cosa, sia pure remotamente, secondo le sue inclinazioni paranoiche avrebbe potuto creare dei sospetti sul suo conto.

Vedere Erika sullo schermo ebbe su di lui un effetto che non ne solleticò soltanto il lato sentimentale e nostalgico, ma anche quello sadico: come un cadavere elettrificato, lei ricominciava a vivere e a recitare non da morta, ma proprio perché era morta: prima lo faceva volontariamente, adesso era la tecnologia che la costringeva a una resurrezione elettronica sulla quale non aveva alcuna voce in capitolo. La dominava, e, peggio di una SS, nella sua persecuzione non si arrestava neppure di fronte a un essere senza vita. La ripetizione esaltava Arturo forse perché nel cinema di Como era stato traumatizzato da un’eccessiva sorpresa: come in un atto di rivalsa, godeva della facilità con la quale le pellicole gli si offrivano a ogni nuova visione, facilità eccessiva che gli consentiva di precedere il dialogo e le immagini sullo schermo, facilità ipnotica da rosario, da mantra. Tutto fluiva, ma se solo lo voleva bloccare con il fermo-immagine, diveniva cristallizzato. Oppure ogni azione, prolungata all’inverosimile dal rallentatore, mostrava i volti straordinariamente stupidi e grotteschi degli esseri umani quando si osservi la loro mimica facciale stirando solo un po’ i loro passaggi da un’espressione a un’altra. Sapere esattamente l’ordine preciso delle battute che si sarebbero succedute, o vedere per la centesima volta la spallina di quel reggiseno abbassarsi, o addirittura quel particolare, quasi impercettibile, movimento degli occhi gli dava l’impressione di essere finalmente il padrone assoluto di Erika, il che, limitatamente alle immagini dei suoi film, non era illusorio. Dopo qualche tempo, però, il giochetto della replica cominciò inevitabilmente a divenire sterile. Urgeva un cambiamento, una resa dei conti definitiva.

Le avvisaglie cominciarono dalla rete: in un sito portoghese, Arturo trovò delle foto di Erika tratte da “Notti a Nairobi” in versione non censurata che parevano comprovare la sequenza porno alla quale aveva assistito ventisette anni prima: dunque esisteva chi, in qualche parte del mondo, aveva accesso a quel film nella sua integralità… Sì, esisteva, e non si trovava neppure molto distante.

A pochi isolati dalla casa di Arturo c’era, e ormai da diversi anni, la “VIDEOTECA  MEGRE’ – GIALLO, POLIZIESCO, THRILLER, MISTERO: DVD D’IMPORTAZIONE, IN EDIZIONE INTEGRALE E UNCUT… E MOLTO ALTRO ANCORA, AL DI LA’ DELLA TUA IMMAGINAZIONE”, come recitava lo strillo delle riviste cinematografiche che la pubblicizzavano. Dapprima specializzatasi in film gialli e polizieschi, senza dimenticarli era andata via via allargando il proprio orizzonte divenendo un punto di riferimento per tutte le vecchie e nuove uscite più stravaganti e improbabili: lì, come lesse sull’aggiornamento del catalogo che gli veniva regolarmente spedito via e-mail, si trovava ora “Notti a Nairobi” in “edizione integrale uncensored and uncut”. Capelli al vento, saltò sulla sua vecchia vespa. In un istante si trovò davanti alla “Megré” e poi eccolo di nuovo a casa, in poltrona, sigaretta in pugno: era proprio la pellicola che aveva scatenato la sua gelosia e rivedendola quell’ira mortale tornò ancora dentro di lui; alle sequenze che più lo fecero soffrire, questa volta fino alle lacrime forse anche per l’azione che esse avevano determinato, lanciò la custodia contro un mobile: da essa uscì un fascicoletto; incuriosito, Arturo lo raccolse: era talmente scosso da pensare quasi superstiziosamente, sia pure per un attimo, che si trattasse d’un messaggio personale  rivolto a lui.

Poi aprì il libretto che accompagnava “Notti a Nairobi” e lo scorse con un totale disinteresse, almeno fino a quando non trovò un paragrafo intitolato: “Controfigura o no?”. E allora lesse, lesse febbrile e avido:

 

“Durante il rapporto amoroso il set pare rimanere quello originale, l’illuminazione non varia e la colonna audio non presenta stacchi. La Hanecker nella stalla col garzone (entrambi sono vestiti) – lei inginocchiata davanti a lui – in esterno, l’altro stalliere pone un ferro sotto lo zoccolo d’un cavallo – la Hanecker mette le mani sulla patta del garzone – una mano guantata, verosimilmente  femminile, estrae il membro dalla tuta – l’altro stalliere prende chiodi e martello – dettaglio di quest’ultimo – la Hanecker, aiutata dal garzone, si toglie la maglietta – l’altro stalliere comincia a battere col martello sul ferro – la vagina  inghiotte il membro da sopra, la mano della donna facilita l’operazione; i pantaloni della tuta in evidenza –  la Hanecker a cavalcioni del garzone secondo gli stilemi del soft – continua l’opera di ferratura – inquadratura della Hanecker e del garzone come nella precedente, poi la camera si allarga a mostrare le gambe dell’uomo che indossa ancora la tuta – dettaglio dell’amplesso come sopra – martello che batte sul ferro. In seguito vengono ripresi l’altro stalliere e Marie. Nuovi momenti hard e soft. Marie scende dall’auto e, avvicinatasi alla porta socchiusa, vede i momenti finali (ma simulati) dell’accoppiamento. Gli inserti, tecnicamente logici e del tutto lineari rispetto al resto della scena, sono stati girati con una meticolosa cura del dettaglio (se si eccettua un particolare di cui diremo più oltre) e con la medesima accuratezza sono stato innestati al resto di “Notti a Nairobi”: il campo soft (la Hanecker ed il garzone) e il controcampo hard (i dettagli di membro e vagina) sono stati collegati insieme con grande precisione e fluidità di montaggio; come se questo non bastasse, sono stati valorizzati al massimo i contrasti di colore (il blu della tuta e il nero del personaggio maschile + il bianco e il biondo di quello femminile) e c’è stato un totale rispetto delle posizioni dei corpi per l’intero coito. Tutto ciò fornisce allo spettatore la sensazione di trovarsi di fronte ad una realtà non manipolata, che fluisce con naturalezza, senza aiuto da parte di nessuno, si tratti del regista come del montatore. E però la mano guantata accanto alla vagina durante le scene hard o stretta intorno al membro non ha nessun monile al polso, mentre la Hanecker ne porta tanto all’uno quanto all’altro braccio fin dal suo ingresso nella stalla e per l’intera durata della sua cavalcata sul garzone: l’errore può apparire strano se si pensa alla perizia con cui sono stati girati gli inserti hard, ma risulta impercettibile ad una visione in sala quale quella del 1975, momento storico in cui ancora non si poteva pensare all’avvento di massa del videoregistratore col suo corollario di rallentatore e fermo immagine; infine va ricordato che non vi sono mai totali comprovanti in maniera decisiva la partecipazione in prima persona di Erika al coito…e dunque? Illusione. Perfetta nel 1975. A un passo dalla perfezione, oggi. (…Ah, quasi dimenticavo, resta una domandina: quante e quali cose “perfette” nel 2003 saranno “a un passo dalla perfezione” nel 2030?)”

 

Arturo non poté credere a questa sentenza. Rimise il dvd nel lettore. Lo sezionò per ore e ore con estrema cura. Alla fine dovette ammettere che era vero: quei braccialetti esistevano quando veniva ripresa Erika e scomparivano quando era inquadrata la mano: non era possibile neppure che il guanto li nascondesse perché era chiuso da un bottone sul palmo che lo rendeva aderentissimo…  Dunque quell’Alfio Compare che aveva siglato il libretto aveva ragione, lui ci aveva visto giusto. Alla fine – quasi trent’anni dopo – Arturo aveva paragonato tutto, studiato tutto, capito tutto. Ma per un triste paradosso, proprio chi aveva basato interamente gli ultimi 27 anni della sua vita su qualcosa d’immaginario non possedeva abbastanza immaginazione per non essere disperato: per pensarsi in una situazione migliore. Era un ateo perfetto, purtroppo.

 

Dal “Corriere della sera” del 23 luglio 2003, “Cronaca di Milano”:

 

“SUICIDA NOTO IMPRENDITORE MILANESE – Ieri è stato trovato morto nella sua casa Arturo De Macchis, presidente della CR Info e vedovo di Erika Hanecker, nota attrice degli anni ’70, scomparsa tragicamente a soli 26 anni. Gli inquirenti ritengono che si tratti di un suicidio attuato con dei barbiturici: pare infatti che De Macchis non si fosse mai del tutto ripreso dalla depressione causatagli dalla morte della moglie, come ci ha confermato anche Ralf Hanecker, il fratello di Erika che si sta occupando personalmente della riedizione in dvd dei film dell’attrice.”

Gianfranco Galliano