SCAMBIO DI TESTE 10

10.

Il giorno dopo Barbara si svegliò con un forte mal di testa e faticava a ricordare quello che era accaduto. Dalla cucina giungeva rumore di piatti e odore di caffè.

Roberto si affacciò alla porta della camera.

“Ben alzata, mamma. Ti porto il caffè.”

Per fortuna Barbara era ancora dispensata dal servizio per via della malattia del figlio, poi tra non molto sarebbero cominciate le vacanze estive. Un po’ di riposo le sarebbe servito per recuperare le energie perdute. Si era svegliata che era uno straccio. Aveva la bocca impastata e sentiva un sapore amaro salire dalla bocca dello stomaco. Aveva esagerato con la birra e soprattutto con il rum.

“Ti sei addormentata sul prato” disse Roberto mentre le offriva il caffè “ho dovuto portarti a letto”.

“Che brutta figura! Non mi era mai successa una cosa simile. Chissà cosa avranno pensato di me…”

“Solo che sei una persona normale e che avevi voglia di lasciarti andare. Puoi concedertelo una volta tanto. Non credi?”

Poteva. Certo che poteva. Suo figlio era con lei e non si trattava d’un sogno. Era proprio lui quello che le offriva una tazza di caffè e sorrideva. Barbara si appoggiò alla spalliera del letto e bevve quel liquido nero e denso a piccoli sorsi. Era dolce al punto giusto, proprio come piaceva a lei, si sentiva che era Cubita e non caffè con chicharo o caffunga passata un paio di volte nella moka. Pensò che in quel periodo potevano permetterselo, la stagione turistica era nel pieno e Roberto aveva ripreso a portare a casa parecchi dollari.  La voce del figlio la distolse dai pensieri.

“Mamma, mi aspettano. Devo andare” disse.

“Non fare troppo tardi” ebbe appena la forza di rispondere, mentre si alzava dal letto per passare in cucina.

“Ti ho lasciato qualcosa da mangiare. Se vuoi le uova devi solo friggerle” rispose lui salutando.

Sopra una tavola ben apparecchiata facevano bella mostra fette di papaya, cocomero, prosciutto, formaggio e salsicce. Il latte era a riscaldare sul fuoco, in un pentolino di alluminio. C’era anche del pane, di quello buono, acquistato in un negozio per turisti.

Quando Roberto chiuse la porta Barbara pensò che non lo avrebbe rivisto sino all’indomani e che tutt’al più si sarebbe fatto vivo per telefono. Dipendeva dagli incontri che avrebbe fatto tra la spiaggia di Tropicoco e la piscina della Villa Panamericana.

Se non avesse trovato da rimorchiare in zona, verso sera si sarebbe spinto dalle parti della Cattedrale o sul Malecón.

Barbara conosceva il gruppo di amici che lui frequentava, erano ragazzi in gamba che si arrangiavano per portare a casa qualcosa da mangiare. Chi faceva il mercato nero, chi vendeva rum contraffatto, chi sigari falsificati o rubati. Un altro possedeva una vecchia Chevrolet degli anni Cinquanta e si era attrezzato come taxista particular. Un altro ancora portava a giro i turisti in bicitaxi pedalando come un forsennato.

Una voce maschile interruppe i pensieri di Barbara.

“C’è nessuno in casa?” gridava. E intanto percuoteva nervosamente la porta. Barbara si alzò per andare ad aprire, incontrò un volto preoccupato e un’espressione dura.

Era Fernando, il marito di Azela.

“Dov’è mia moglie?” le chiese senza neppure entrare in casa.

Aveva chiari in volto i segni d’una notte insonne. Non era neppure andato a lavoro per cercarla. Barbara lo invitò a entrare in casa e gli offrì del caffè. Fernando si sedette sul divano della cucina, che all’occorrenza fungeva anche da saletta per gli ospiti, Barbara lo raggiunse con il bricco del caffè e gliene versò una razione abbondante. Poi cominciò a parlare.

“Non so dove sia tua moglie, Fernando. Durante la festa mi sono addormentata sul prato, credo di aver esagerato con la birra e il rum. Però lei era proprio davanti a me e stava mangiando insieme alle altre donne. Abbiamo parlato di Armando, poi si è presentata a mio figlio. Non so dirti altro”.

“Non è tornata a casa stanotte. Non era mai successo”.

“Non devi pensare male, Fernando. Azela è una donna responsabile.”

“Ho immaginato di tutto. Persino un amante. Poi mi sono detto: sarà rimasta a dormire da Barbara. Ed eccomi qua. Può esserle accaduto qualsiasi cosa. Se ha fatto l’autostop chissà chi ha incontrato. Tu sai quanto sia pericoloso chiedere passaggi di notte…”

“Non pensiamo al peggio. Andiamo alla polizia. Solo loro possono aiutarci”.

“Credo che tu abbia ragione” concluse Fernando.

E uscirono insieme nell’afa opprimente di quel mattino di inizio estate. Il sole a picco illuminava la quiete del porto dove barche di legno galleggiavano insicure dietro le canne selvatiche. La ceiba allargava i rami nel cielo e non si scomponeva ai soffi d’un vento caldo. La centrale di polizia di Alamar non era lontana dalla casa di Barbara. Ci sarebbero arrivati in dieci minuti camminando di buon passo. Barbara non voleva darlo a vedere per non spaventare Fernando, ma anche lei era molto preoccupata. Azela non era tipo da passare la notte fuori di casa dimenticandosi di marito e bambini.

Quando l’ispettore della centrale di Alamar li fece accomodare nel suo ufficio Barbara strinse forte la mano di Fernando per rincuorarlo. L’avrebbe aiutato come poteva. Azela aveva fatto tanto per lei e adesso solo il pensiero che potesse esserle accaduto qualcosa di  brutto la faceva soffrire.

 

Quella notte Roberto non tornò a casa e certo non immaginava che la polizia stesse perlustrando il quartiere di Alamar alla ricerca di Azela. Lui aveva passato la giornata a Tropicoco e insieme al suo amico Pedro avevano conosciuto due ragazze francesi.

Pedro usciva spesso con Roberto. Era un bel mulatto poco più che ventenne, capelli arricciati tagliati corti e occhi neri. In coppia sapevano attirare l’attenzione delle straniere in cerca d’avventure. Era figlio d’un panettiere di Alamar e aveva altri due fratelli che lavoravano nel negozio del padre. Lui non si sentiva adatto, preferiva l’avventura e guadagnare divertendosi. Con Roberto erano sempre stati molto affiatati, uscivano insieme, raccontandosi segreti e condividendo le strade di una vita difficile.

Le due francesi erano giovani e carine. Stranamente sole su quella spiaggia contornata da palme e canna selvatica. Di solito era facile rimorchiare straniere di mezza età, magari ancora piacenti, ma questa volta l’avventura aveva tutta l’aria di poter essere davvero divertente. Roberto cominciò a parlare con Monique, una biondina dagli occhi chiari e le gambe lunghe. Pedro si dedicò all’amica Denise, che aveva la carnagione ambrata e un sorriso aperto quasi da cubana. Finirono a letto insieme.

Succedeva sempre così. Roberto e Pedro erano maestri nel farlo accadere, programmavano ogni mossa, anche quello che poteva sembrare improvvisato. L’abbraccio al momento giusto, il bacio, il tuffo in mare assieme, la carezza involontaria. Le donne ci cadevano sempre, nell’illusione di aver fatto una conquista o soltanto per gettarsi senza freni in un’avventura.

Le due francesi avevano affittato un bilocale vicino alla spiaggia di Tropicoco. Fu là che portarono le loro conquiste di quel pomeriggio di mare, dopo aver mangiato insieme sulla spiaggia in un ristorante improvvisato, che serviva pollo fritto e patatine accompagnato da birra in lattina.

Roberto era un amante infaticabile e poi Monique gli piaceva.

Non fu difficile accontentarla e farla godere più volte. Le accarezzò quel seno piccolo e ritto mordendole i capezzoli, strinse tra le sue mani quel sedere sodo e pieno, la fece fremere di desiderio passandole la lingua  in ogni parte del corpo. Poi la penetrò. A lungo e in ogni posizione. Fu una notte di sesso come da tempo non passava, anche se le prede di turno le sceglieva con cura non era facile che trovasse qualcosa di così prelibato.

“Questa è quasi meglio di una cubana” pensò e si accasciò soddisfatto. Anche Monique lo era. Era tanto che qualcuno non la faceva godere così a fondo.

Nella stanza accanto Pedro faceva l’amore con Denise. Non aveva mai deluso una donna, soprattutto straniera. Lui pensava spesso che erano abituate male con i loro uomini e  che se provavano un cubano non sarebbero mai tornate indietro.

Al mattino Roberto se ne voleva andare.

Una delle regole che si era imposto era quella di non restare mai troppo con una ragazza che gli piaceva. C’era il pericolo di innamorarsi. E quello era un rischio che non voleva proprio correre. Monique parve contrariata.

“Perché?” chiese con le poche parole di spagnolo che aveva appreso e che pronunciava con quel buffo accento francese “se stavamo così bene…”

“Troverai qualcun altro. Cuba è piena di ragazzi che non chiedono di meglio”.

Pedro sarebbe anche rimasto. Denise gli piaceva e qualche giorno insieme ce lo avrebbe passato. Roberto fu irremovibile, sua madre lo aspettava e doveva tornare a casa.

“Facciamo così” disse “ti chiamo stasera. Dammi il numero di telefono e appena posso mi faccio vivo”.

Roberto sapeva bene che non avrebbe mai chiamato.

Era un modo elegante per scaricarla.

“Lo so che non chiamerai. Non sono una stupida”.

“Se ti dico che lo faccio…”

“Mi hai soltanto usata”.

“Tu sei molto bella, Monique. Ma io devo proprio andare. Ho un lavoro e una famiglia che mi aspetta” inventò Roberto.

“Volevo farti un regalo. Ma credo che non lo meriti. Hai già avuto anche troppo da me”.

“Come sarebbe a dire?”

“Che non ti darò un dollaro. Se devi tornare a casa e non hai soldi per il taxi ci andrai a piedi, brutto bastardo!”

“Qui non ci siamo” disse minaccioso Roberto.

Guardò Pedro che abbracciava Denise e gli disse:

“Tu resta pure a fare il romantico che io sbrigo una faccenda e tolgo il disturbo”.

Dette queste parole colpì con un violento schiaffo al volto la ragazza che cadde a terra. Poi fu di nuovo su di lei e la prese per i capelli, la spinse verso di sé e la colpì di nuovo con la mano aperta.  Monique sanguinava. Aveva un labbro ferito.

Pedro gridò: “Cosa stai facendo? Sei impazzito?”

“Questa puttanella francese non vuol pagare e io le sto solo insegnando come ci si comporta!”.

Roberto terminò il lavoro affibbiandole due calci al basso ventre che lasciarono la ragazza priva di sensi. Pedro e Denise erano spaventati da quella reazione, l’amico non aveva mai assistito a una cosa simile. Cercò di fermare Roberto tenendolo per un braccio, ma lui si liberò dalla stretta con violenza.

“Lasciami stare che è meglio” intimò.

Poi prese la borsetta di Monique e l’aprì. Trovò il portafoglio, rovistò il contenuto e si prese un mazzetto di dollari.

“Non più di cento”. Disse rivolto a Denise e a Pedro “È quello che mi spetta. Non sono un ladro. E che non si azzardi ad andare a denunciarmi. Può capitarle di peggio”.

Roberto uscì da quella casa sbattendo la porta, lasciando l’amico incredulo a osservare la scena. Sua madre l’attendeva ad Alamar e lui non poteva farla stare troppo in pensiero. La cosa che più lo infastidiva era un terribile dolore alla testa che stava aumentando sempre più. Si era scaldato troppo con quella ragazza e il sangue aveva cominciato a pulsare in fretta nella zona delle tempie. Era una cosa che gli accadeva sempre più spesso da un po’ di tempo a questa parte. Fitte dolorose come pugnali puntati sul cranio lo tormentavano. L’unica cosa che poteva fargli bene era riposare. Doveva tornare a casa e starsene tranquillo nel suo letto, far placare i dolori con una pasticca di Duraljina e dormire. Senza pensare. Soprattutto senza pensare.

(10 – continua)

Gordiano Lupi