SCAMBIO DI TESTE 09

9.

Roberto cominciò a migliorare e Barbara credette di vivere un sogno a lungo accarezzato. La sua speranza non era stata vana, allora. I medici non comprendevano i motivi della guarigione come non avevano capito il perché della malattia. Solo Barbara e Azela sapevano chi ringraziare. E non potevano dirlo.

“Mamma, cosa mi è successo?” chiese Roberto dopo alcuni giorni. Aveva cominciato di nuovo a parlare, però non ricordava neppure d’essere stato male e per fortuna neanche quella brutta avventura al Cimitero Colón. Aveva soltanto una gran confusione in testa e un senso di vuoto, come se gli mancassero i ricordi di un lungo periodo della sua vita.

“Mi hai fatto soffrire molto. Sei stato tanto malato e i dottori non capivano quale fosse la causa. Però adesso sei guarito.”

“Ho dei dolori lancinanti alla testa. Dolori atroci, come se cento pugnali mi bucassero le tempie.”

“Non è niente. Passerà.”.

Non era davvero niente. Paragonato a quel che sarebbe potuto accadere.

Barbara abbracciò il figlio con forza, lui condivise la stretta affettuosa mentre Azela, che se ne stava silenziosa in un angolo della stanza, non riusciva a trattenere le lacrime. Aveva partecipato all’impresa ed era commossa. Barbara aveva ritrovato suo figlio e la vita tornava ad avere un senso. Il giorno dopo lo avrebbero dimesso, insieme sarebbero tornati ad Alamar, in quella casa di mare dove aveva temuto di dover continuare a vivere sola e abbandonata da tutti.

Azela sapeva che in una stanza vicina qualcuno stava morendo, su questo particolare fu molto vaga con Barbara, non voleva farla soffrire creando inutili sensi di colpa. Non avrebbe turbato la sua gioia con notizie spiacevoli. Ciuci, il terrore di Guanabacoa, si era improvvisamente aggravato. L’infezione intestinale si era diffusa in modo imprevedibile e i medici dovevano ammettere di aver sbagliato diagnosi. Non avrebbe superato la crisi. Azela ascoltava e sentiva di aveva molti motivi di gioia. Aveva aiutato Barbara a ritrovare suo figlio e al tempo stesso aveva vendicato tutte le vittime dei soprusi di un essere spregevole. Roberto e Manolo abbandonarono l’ex ospedale militare della Villa Pamericana lo stesso giorno, il primo alla volta di Alamar e il secondo diretto al Cimitero Colón per l’ultimo viaggio.

I primi giorni Roberto sembrava strano e affaticato, aveva dei vuoti di memoria se pensava al passato e sembrava distratto. Barbara non si preoccupava più di tanto, i medici le avevano assicurato che era normale dopo il trauma subito. Roberto aveva trascorso quasi due mesi in una situazione di incoscienza che avevano sempre definito coma profondo e che adesso non sapevano bene come classificare. Di fatto era un caso dove i medici non avevano capito niente sin dall’inizio e la conclusione positiva faceva parte del mistero. Però le amnesie, i dolori alla testa e la confusione mentale erano cose da mettere in conto in una simile situazione.

In ogni caso Roberto ricominciava a vivere e tra breve quella brutta avventura sarebbe stata soltanto un ricordo, quella era la cosa più importante. Passò soltanto un giorno. Barbara sentiva il desiderio di liberarsi la coscienza e poteva farlo solo con padre Antonio, alla parrocchia della Caridad. Aveva tante cose da raccontare al suo Dio e ne voleva parlare in confessione. Era tanto che non lo faceva.

Padre Antonio l’accolse nel piccolo abitacolo di legno vicino alla sacrestia. La fece fare il segno della croce, le consegnò un foglietto con le preghiere da recitare. Poi si mise in ascolto.

“Padre, ho peccato” cominciò.

“Lo so” disse padre Antonio.

“Però mio figlio è vivo e non sono pentita.”

“Tuo figlio è vivo per volontà di Dio”

“No, padre. Roberto è vivo perché abbiamo fatto una cosa orribile e lei lo sa. È vivo perché un altro è morto al posto suo e ha placato la furia d’un maledetto ossessore.”

“Non posso continuare ad ascoltare queste eresie. Se parli così sei fuori dalla grazia di Dio e non posso assolverti. Hai praticato la stregoneria e credi che la tua superstizione ti abbia restituito tuo figlio. Invece di ringraziare Dio lo offendi.”

“Dio non c’entra in questa storia. Ed è per questo che vengo a implorare il perdono.”

“È un perdono che non posso darti se non dimostri il tuo pentimento.”

“Come posso essere pentita? Mio figlio è di nuovo con me.”

Padre Antonio sospirò. Rammentò ancora una volta la storia di Felipe e tutte le stranezze di quel mondo che aveva dovuto sopportare in tanti anni. I santéros avevano vita facile, lui era solo un povero parroco della periferia dell’Avana stanco di lottare tra superstizioni e magia. Le dette l’assoluzione con un rapido gesto della mano, non prima di averle impartito di recitare il Credo ogni sera prima di andare a dormire almeno per dieci giorni, con  la promessa che per il futuro non avrebbe più fatto ricorso a culti proibiti. Barbara promise, anche se non lo fece con convinzione, poi uscì dalla chiesa felice. Ora che sentiva vicina la protezione di Dio poteva dire di aver ritrovato tutte le cose importanti della sua vita.

 

Roberto tornò alla vita d’un tempo, con i vecchi compagni e le scorribande notturne tra il Malecón e la Cattedrale. Non ricordava niente, come se quel periodo della sua vita non gli fosse mai appartenuto. E in effetti era così. Non aveva memoria d’aver sofferto nessuna malattia e guardava con stupore chi si meravigliava nel vederlo in forma e in piena salute. Se non fosse stato per le brutte emicranie e gli improvvisi vuoti di memoria che lo tormentavano non ci sarebbe stato niente di anormale. Era davvero nel pieno della potenza fisica. Aveva vent’anni, un corpo d’atleta, le donne continuavano a guardarlo e facevano a gara per andare a letto con lui. Perlustrava il Malecón assieme agli amici e scrutava le occhiate delle ragazzine in cerca d’avventure, anche se non era là per loro. Si accontentava di una cubana solo se non aveva di meglio da fare. Anche gli omosessuali spesso ammiccavano dai muri in granito vicino alle scogliere e avrebbero pagato bene una notte d’amore con quel bel ricciolo dagli occhi scuri. Roberto non li sopportava. Una sera dovettero levargliene uno dalle mani altrimenti lo avrebbe massacrato di botte. Era un tipo giovane e carino, di aspetto quasi femminile. Roberto si era accorto che lo guardava, aveva fatto finta di niente, capitava spesso, ormai ci aveva fatto l’abitudine. Poi si sentì chiamare da una voce che si sforzava d’essere sensuale.

“Vieni a farmi compagnia?”.

“Non ho tempo per i froci” rispose Roberto e continuò per la sua strada, senza voltarsi.

L’omosessuale gli si avvicinò e lo carezzò sul sedere.

“Vedrai che ti piacerà” provò a dire.

Non terminò neppure la frase che Roberto lo colpì con un violento pugno. Poi gli fu addosso e continuò a percuoterlo selvaggiamente al volto, assestando calci nello stomaco e al basso ventre. Lo avrebbe ammazzato se i suoi amici non fossero intervenuti a calmarlo.

“C’è la polizia, Roberto! Ti arresteranno” gli gridavano mentre tentavano di separarlo da quel poveraccio che era per terra sanguinante e supplicava aiuto.

Ci riuscirono, per fortuna. Roberto non si era mai comportato con tanta violenza e gli amici se ne meravigliarono. Però convennero che era stato l’omosessuale a provocarlo e che forse anche loro avrebbero fatto lo stesso. Roberto aveva sentito le mani di un uomo scendere sul corpo e non ci aveva visto più. C’era da capirlo, in fondo. Nessuno di loro lo avrebbe sopportato.

Un’altra sera successe con una donna. Roberto stava passeggiando per Centro Avana con gli amici a caccia d’incontri.

“Bel moretto, ci verresti con me?” lo apostrofò una jinetera.

“Credi che abbia dollari da buttare?” rispose lui.

“Ti farei provare cose mai viste…”.

“Non c’è niente che tu possa fare che io non abbia già visto”.

“Il ragazzino è anche presuntuoso…”.

Fu a quella risposta che Roberto si accalorò.

“Non chiamarmi ragazzino, puttana! E chiudi quella bocca”.

“Se no cosa fai? Vuoi picchiare una donna?”.

Roberto per tutta risposta le si avventò contro e la colpì più volte con violenti schiaffi al volto.

“Pendi questo, brutta troia!” gridava.

La donna cominciò a invocare aiuto. Accorreva gente. Poteva intervenire persino la polizia. Sarebbe stato un bel guaio. Anche quella volta furono gli amici a portarlo via appena in tempo.

Una sera gli prese di fare una cosa insolita per il suo carattere.

“Tu hai una bicicletta, Paco” disse rivolto a un amico.

“Certo. È legata al palo segnaletico in fondo alla strada”.

“Allora prestamela che devo sistemare un affare”.

Nessuno sospettava di quale affare si trattasse.

Roberto inforcò la bicicletta e si mise a pedalare come un forsennato sul lungomare, quindi svoltò in una traversa poco illuminata dell’Hotel Deauville, dove solitamente stazionavano le prostitute in attesa di clienti. Si lanciò sulla prima che vide, una mulatta in carne, e le afferrò al volo la borsetta. La tirò via con tale forza che la donna, presa alla sprovvista, cadde pesantemente al suolo. Le compagne si misero a gridare.

“Stronzo!”, “Prendetelo!”, “Al ladro!”…

Ma fu tutto inutile. Roberto aveva già voltato l’angolo della strada con il bottino tra le mani. Quando tornò dagli amici si era già liberato della borsetta e stava contando il denaro.

“Dove hai preso quel denaro?” chiese Paco.

“Merito della tua bicicletta” rispose.

E mise in mano a Paco una parte del bottino.

“Quelle puttane allargano le gambe e incassano cento dollari. Non è mica giusto. Noi dobbiamo faticare molto di più…”.

“Vuoi dire che questi soldi li hai rubati?”.

“Rubati… che parola grossa…”.

“In ogni caso non li voglio” disse Paco restituendo i dollari.

Roberto sorrise e intascò il denaro.

“Sei proprio un ingenuo” concluse.

Però aveva rischiato grosso e aveva fatto una cosa che nessuno del suo gruppo approvava. Rubare l’incasso a una prostituta non rientrava nell’arte dell’inventare. Era soltanto una cosa immorale.

Un’altra sera, durante una festa, Roberto si mise a fare proposte a Ileana, la ragazza di Alberto. Ballavano insieme e lui cominciò a strusciarsi con movimenti sensuali alle spalle della donna.

“Hai un bel culo” le disse.

Lei sorrise.

“Guarda che Alberto è qui vicino…”.

“Che m’importa di Alberto…” rispose Roberto.

Però l’amico aveva visto tutto e non gli era piaciuto per niente.

Si alzò di scatto ed entrò in pista.

“Ballare con la mia donna passi, ma stai buono con le mani” intimò.

“Se no cosa fai?” rispose Roberto baldanzoso.

Alberto partì con un pugno che Roberto schivò prontamente.

Poi fu lui a passare all’azione e colpì il malcapitato con calci e pugni in ogni parte del corpo. Furono gli altri amici che li fermarono. Roberto lo avrebbe ridotto male, era più forte, pareva avere tanta di quella rabbia in corpo, sembrava cercasse soltanto una scusa per fare a botte con qualcuno. Roberto ruppe definitivamente con Alberto. Non si videro più.

Tutti questi comportamenti insoliti facevano capire che in Roberto c’era qualcosa che non andava. Non era ancora completamente guarito ed era soltanto lui a non capirlo. Aveva repentini cambiamenti di umore. Era irascibile per un nonnulla e diventava violento per ogni piccolezza. Non riusciva a controllare i nervi. Tutta colpa della malattia, pensavano gli amici. Ma lui non lo sapeva. Lui non ricordava di aver avuto nessuna malattia.

 

Barbara organizzò una festa per quello che aveva definito “il ritorno in vita” di Roberto. Vennero tutti, anche Azela da Guanabacoa, persino Padre Antonio. Mancava soltanto Armando.

“È soddisfatto di come sono andate a finire le cose, però si scusa ma non è potuto venire alla festa” disse Azela.

“Peccato, avrei voluto ringraziarlo di persona” rispose Barbara.

“Babalú-Ayé non glielo consente” spiegò Azela.

“E perché mai?” chiese Barbara.

“Non può partecipare alle feste. Armando conduce una vita modesta e ritirata. È un vero santéro, non come quei ciarlatani che fanno soldi leggendo il futuro ai ricchi.”

“Questo lo so. Io non ci credevo e mi ha ridato la vita.”

“C’è dell’altro…”

“Che cosa?”

“Il santéro non può entrare in contatto con tuo figlio. Non lo deve conoscere. Mi raccomando, Roberto non deve sapere niente del rito.”

“Puoi starne certa.”

Azela era venuta alla festa da sola. Aveva lasciato i bambini al marito che il giorno dopo avrebbe dovuto alzarsi presto per andare al lavoro e aveva preferito starsene a casa. Sedette in mezzo alle altre donne e cominciò a mangiare. C’era davvero di tutto. Barbara aveva fatto le cose in grande. Sopra un tavolo di legno apparecchiato davanti alla veranda, facevano bella mostra vassoi di riso con fagioli e pollo in salsa, poi banane fritte, patate, avocado, pomodori e insalata. Tutto in grande quantità. Non mancavano la birra, i succhi di mango e di papaya. Il rum era scadente, bianco e da venti pesos, ma bastava a scaldare l’ambiente.

Azela riconobbe Roberto tra gli invitati. Lo aveva visto per tanto tempo immobile su quel letto di ospedale che le sembrava impossibile averlo di fronte. Era proprio lui. Un bel creolo dai capelli ricci e gli occhi neri che avrebbe fatto girare la testa a qualsiasi ragazza. Lo chiamò. Quando lui girò la testa Azela non riuscì a sopportare quello sguardo profondo e abbassò gli occhi.  Lui rispose al saluto.

“Chi sei? Non mi pare di conoscerti.”

“Sono un’amica di tua madre. Ero l’infermiera che ti ha assistito alla Villa.”

“Bene. Suppongo che dovrei ringraziarti.”

“Di che cosa? Ho fatto soltanto il mio dovere. E adesso sono contenta di vedere che sei in ottima forma.”

Roberto sorrise. Ad Azela non parve un sorriso rassicurante.

Gli occhi di quel ragazzo le incutevano timore e scorgeva qualcosa che non aveva mai notato prima. Alla fine pensò che la sua immaginazione faceva strani scherzi e che gli occhi di Roberto erano così belli e profondi che non era facile sopportane lo sguardo. In ogni caso lei era una donna sposata con cinque figli e non era pane per i suoi denti. Sarebbe stato un problema delle ragazzine che se lo contendevano, non certo suo.

Lo vide allontanarsi e tracannare in un sorso un bicchiere di rum e infine mettersi a ballare una salsa romantica con una negretta che da un po’ gli girava intorno. Azela incrociò il sorriso di Barbara. Tra loro non servivano parole, erano due complici perfette che si capivano al volo. Quel sorriso raccontava la felicità d’una madre che aveva ritrovato un figlio e non chiedeva altro alla vita.

Padre Antonio era venuto alla festa in abiti borghesi. Non gli piaceva la tonaca nera e la portava poco anche in chiesa. Quando era libero da impegni ufficiali indossava una camicia bianca, tipo guayabera, e un paio di pantaloni lunghi di canapa grezza. Nessuno lo avrebbe preso per un prete ma a lui non importava. Ad Alamar lo conoscevano tutti e poi aveva passato i sessant’anni e non aveva bisogno di rispettare obblighi e convenzioni. La storia di Porto Rico e della avventura galante con Teresa era ormai così lontana e lui non era più un ragazzino. Mentre gustava un pezzo di pollo condito da riso e banane si avvicinò a Barbara.

“Sono contento che tutto sia andato per il  meglio” disse.

“Anche se abbiamo fatto cose proibite?”

“Chi lo sa cosa è proibito, cara Barbara. Chi lo sa, in fondo…”

“Padre Antonio” rispose lei meravigliata “mi stupisce!”

“Ne ho viste così tante… eppure non riesco ancora a capacitarmi di tutto quel che accade. Però tuo figlio è vivo e allora vuol dire che questa era la volontà di Dio.”

Barbara abbracciò Padre Antonio e pianse di gioia.

Era proprio vero, allora. Nessuno l’aveva mai abbandonata. Neppure il suo Dio che aveva tradito e offeso.

Roberto era vivo perché Dio lo aveva voluto.

Barbara si gettò nella festa e ballò come una ragazzina nel giorno dei suoi quindici anni. Era tanto che non le capitava di divertirsi, di sentirsi allegra e piena di voglia di vivere.

Lo stereo, situato ai piedi di una grande ceiba, nel prato davanti alla casa, diffondeva merengue, salsa e musica romantica. Barbara ballò con Roberto tenendolo stretto al cuore, quasi fosse stato un fidanzato più giovane, poi lo lasciò libero di passare alle amiche, lei tenne compagnia agli ospiti e ballò con gli altri ragazzi.

Era una sera speciale. Non sentiva i suoi quarant’anni, le pareva d’essere tornata bambina e di avere mille motivi per lasciarsi andare.

E tutto sommato era vero.

Quando si accorse di aver bevuto qualche bicchiere di troppo, mescolando birra di contrabbando e rum bianco, era tardi per rimediare. La testa si fece pesante e ombre indistinte presero il posto delle persone davanti ai suoi occhi. Fu così che si addormentò sull’erba bagnata mentre le sembrò di scorgere il volto di Roberto con i capelli scompigliati dal vento. Le parve che stesse guardando il mare e che sorridesse. Ma forse era soltanto un sogno e lei aveva davvero bevuto troppo.

 

     La sua pelle profumata alla luce della luna. Un panorama di palme in un lungomare cadente e le barche ormeggiate a pontili di fortuna. Di notte non ci sono pescatori. Di notte vaga soltanto l’amore per le strade della vita. Vaga la morte a rincorrere il destino. Si perdono le speranze e si nutrono i ricordi. E io ho bisogno di ricordi e ho bisogno di sapere, per Dio. Di sapere che cosa cerco in questo vagare impossibile di sogni che si spengono al mattino. So soltanto che sono l’amore e che vengo per decidere sul bene e sul male. Vengo per distruggere là dove c’è bisogno. Scrivo la parola fine sui tormenti. La notte è il mio regno che semina baci e dolori, momenti di finta allegria, amarezza e sogno. La notte è il palcoscenico di barche attraccate alla deriva d’un porto malandato e percosso dal vento. È la mia notte.

     La pelle profumata e calda di una donna tra le mie mani.

     Una donna che non voleva il mio amore. Non sapeva che non si può rifiutare l’amore. L’amore è una cosa talmente grande…

     Adesso l’ha capito perché non grida più come prima.

     Non grida e non parla. Silenziosa come una farfalla caduta da un fiore mi guarda con gli occhi spenti. Io le ho dato il mio amore. Le ho dato tutto quello che potevo per questa notte. Le ho portato via soltanto un ricordo e poi l’ho adagiata sul bagnasciuga in attesa delle onde. Le onde la risveglieranno, ne sono certo. Perché il mare è buono con chi è capace di amare.

(9 – continua)

Gordiano Lupi