ACQUA ALLA GOLA 10

Quando l’automobile sobbalza sugli ultimi dossi e si apre il piazzale del parco, Vittorio è già lì che ci attende, in piedi a fianco alla sua vettura.

Enzo ed io spalanchiamo le portiere e in quattro balzi gli siamo davanti.

- Ciao Vittorio.

- Ciao.

- Come stai?

- Bene.

Vittorio resta così, in piedi, come fosse paralizzato. I suoi occhi sono due pietre piccole senza luce, il volto inespressivo. Il corpo, rigido e senza movimenti, pare essere scollegato dal cervello. E’ un manichino dei negozi, uno di quei fantasmi che le commesse vestono di abiti firmati, con le cuffie, i giacconi e i cartellini dei prezzi, le orbite degli occhi vuote.

- Facciamo due passi – provo a passargli la mano sulla spalla, sperando con il contatto fisico di instaurare una iniziale confidenza.

Vittorio si scansa, quasi avesse paura di me.

Il parco è una macchia marrone che comincia a rivedere i primi germogli. Dietro ogni albero possono nascondersi lepri e conigli, tra le canne degli acquitrini fagiani e tortore, pronti a volare via.

- Sempre bello venire al parco, no? – faccio guardandomi intorno con aria indifferente.

- Già.

Anche Enzo non apre bocca. Con gli occhi provo a cercare il suo sguardo, per invitarlo a dire qualche parola di circostanza. Ma niente. Ed io rimango solo, a provare a scongelare l’ambiente.

- A casa, tutto bene, Vitto?

- Ma sì.

I nostri passi sarebbero l’unico rumore in questo assordante silenzio. Ma sono attutiti dall’erba, e non resta che un ronzio lontano, il suono di qualche animale sperduto in qualche parte del parco, in quelle regioni di verde in cui nessuno mette piede, dove anche la luce può filtrare a stento, a causa del groviglio dei rami. Sono minuscoli angoli di mondo salvati dall’azione umana, sono lembi di terra che non conoscono l’odore dei soldi, il traffico delle merci, gli orari degli sportelli, l’andamento del mercato borsistico internazionale.

- Chissà come sarebbe, nascondersi in un anfratto per il resto del tempo – mi trovo a pensare – Potrebbe essere piacevole, scomparire una mattina di tardo inverno, come questa, far perdere le proprie tracce e tornare alla natura.

Intanto, nel cielo, un aeroplano traccia una scia bianca, che evapora lentamente dalla tavola azzurra.

- Già, ma quanto durerebbe, vivere allo stato brado?

E così l’illusione, per quanto gradita parentesi da questa situazione asfissiante in cui noi tre ci siamo venuti a trovare, viene a mancare. E la mente torna al quotidiano, fatto di bisogni da soddisfare continuamente, bollette, affitti, acquisti, rate, mutui, tasse, bolli.

- Non c’è soluzione – finisco col dirmi – Me ne potrò stare tranquillo solo quando finirò sepolto sotto terra.

Il sentiero in terra battuta scompare e gli alberi si diradano improvvisamente. Dietro qualche cespuglio sentiamo lo scivolare dell’acqua. La sabbia ci indica che siamo arrivati sul ciglio del fiume.

- Eccoci arrivati -

Ci guardiamo tutti e tre per qualche istante, in piedi uno di fronte all’altro.

Il viso di Enzo è visibilmente teso. Vittorio, invece, ha una faccia senza contrazioni, come se tutto quello che lo circonda in questo momento non lo riguardasse minimamente.

- Sentite ragazzi – mi decido a dire – questa storia ci ha preso la mano, lo so.

I due si limitano ad abbassare lo sguardo a terra.

- Ammazzare la vecchia è stato un gioco da ragazzi, ma poi forse sono venuti fuori dei piccoli strascichi, dei rimorsi, ecco.

- Forse – bisbiglia Enzo.

- Ma ragazzi, siamo pur sempre noi! Eh? – cerco lo sguardo di Vittorio, senza riuscire a trovarlo.

- E dai, su! – batto le mani in aria – Abbiamo ancora quattrocento testoni, siamo ancora ricchi! Si tratta solo di stringere ancora un poco i denti, le cose sono già sistemate!

- Sì, è vero – mi fa coro Enzo, finalmente.

- Vitto, amico mio, da quanti anni ci conosciamo?

- Mah, saranno una decina – parla con una voce distratta.

- Ecco. E ti pare che noi ti veniamo a fregare dopo tutti questi anni di amicizia?

Vittorio non risponde, guarda un punto, sull’argine opposto.

- Allora, ragazzi, qui si tratta di rinnovare il nostro patto. – li guardo con aria seria – Ci impegniamo tutti e tre a restare uniti, a fare in modo che le cose vadano lisce. Abbiamo ancora un sacco di soldi – ripeto – ed Enzo ha capito che non può più spenderli come vuole, vero Enzo?

- Sì, è così – Enzo pare un alunno portato al cospetto del preside.

- E allora le cose andranno come ci eravamo prefissati. A fine anno ognuno di noi avrà dodici mila euro e avremo il nostro bel vitalizio!

- Già – si limita a dire Vittorio.

Mi avvicino a lui.

- Vittorio, amico mio – apro le braccia nell’atto di volerlo abbracciare – va tutto bene, non devi temere nulla da noi.

(Vittorio)

Lo vedo che si avvicina. L’ho lasciato parlare. L’ho ascoltato mentre provava a imbambolarmi con le chiacchiere. Come hanno sempre fatto tutti. Ma questa volta non ci casco. Ho creduto troppe volte in vita mia che l’amicizia fosse il sentimento più bello, invece. Ho perso tutti. Per un motivo, per un altro. Per colpa mia, per colpa loro. Abbiamo commesso un delitto e tutte le belle parole del mondo non potranno farci tornare immacolati. Stupidi, disoccupati, ma non immacolati. Chi ha ucciso una volta può tornare a farlo. Se Enzo e Vittorio avessero voluto davvero dividere i soldi, se avessero voluto prendersi cura di me, non avrebbero inventato tante scuse. Ignobili. Le loro case, i loro tenori di vita sono un insulto alla mia mediocrità. Non provo rabbia. Solo un senso di tradimento e disgusto verso me stesso. Per averci creduto ancora una volta. Per aver perso tante occasioni solo per rimanermene accucciato nella mia tana insieme a quelli che credevo fratelli, e altri non erano se non sciacalli. Mi hanno usato per arrivare al loro scopo. Diventare ricchi, o perlomeno avere meno pezze al culo. Non essere più dei tagliati fuori, ma persone perbene. Nuovi arrivati nel pianeta dei benestanti, ecco. Potersi pagare un pezzetto di figa, un granello di felicità. Almeno a trent’anni, perché poi dopo, sarà solo una discesa, veloce e disperata. E poi farmi venire fin qui? Perché? Li ho stuzzicati, minacciati. E loro si sono ricordati com’è facile far ruzzolare qualcuno fuori dalla propria vita. Per tutta la camminata li ho tenuti d’occhio. Ero certo che avrebbero tentato qualcosa! Ed eccoci dunque qui. Fosse una storia, quanto sarebbe banale! Tre amici con l’acqua alla gola che ammazzano una vecchia  zia per investirne i risparmi in borsa. Solo che poi diventano come cani arrabbiati. Cane mangia cane. L’odore del sangue. Dell’avidità. Cinquemila anni di civiltà e si lotta ancora per la sopravvivenza, tutti contro tutti, come bestie incravattate. Banale, ma vero. Come la vita. Prima ti vuoi bene, poi tutto svanisce, evapora e rimane solo l’astio, il rancore, l’indifferenza. Roberto che mi si avvicina fingendosi un amico. Col viso quasi commosso sull’onda delle bugie che mi ha detto finora. Se avesse voluto essere sincero sarebbe venuto lui a casa mia, da solo, non qui, in questo bosco isolato, immobile, lontanissimo da tutti. Ha le braccia spalancate. Non vedo più Enzo, forse è già pronto a balzarmi alle spalle.

Ecco ci siamo. Ora. Adesso. Un brivido freddo mi corre lungo la schiena. Eccoci. Le cose riprendono a ruzzolare. Peccato per loro, credermi così incauto. Così stupido. Non lo sanno. Perché non l’ho mai raccontato. Non l’ho fatto per pudore, o chissà. Dieci anni fa, a 24 anni, feci l’obiettore presso il comune della mia città. Mi mandarono a occuparmi del campo nomadi. Rom, sinti e altre schifezze minorenni. Con un pandino rosso sangue li portavamo a scuola, li andavamo a riprendere, facevamo loro il bagno in una casa del comune, li aiutavamo nei compiti, insomma cercavamo di tenerli il più lontano possibile dalla strada. Eravamo due obiettori lasciati a gestire una ventina di delinquenti scatenati. Ogni giorno, ne combinavano una infinità. Una mattina, alla scuola di via Trento, uno dei bimbi puntò un coltello alla gola di un altro bambino per rubargli la merendina. Una Girella, ricordo. Io presi il rom a calci. Letteralmente lo buttai fuori dalla scuola a calci. Fu l’unica volta in vita mia in cui alzai le mani su qualcuno. Voglio dire, prima della vecchia, e anche prima di uccidere Rachele. Tempo un’ora dal fattaccio e uno dei genitori si presentò alla scuola completamente ubriaco e con una pistola in pugno. La brandiva e l’agitava nell’aria urlando il mio nome e giurando che mi avrebbe scannato. I bidelli chiusero la scuola e chiamarono la polizia. L’uomo scappò e io rimasi per giorni col terrore di essere aggredito. Poi la cosa si ripianò. L’uomo venne a chiedermi scusa e io non sporsi denuncia. Non solo. Lo zingaro era così rattristato che, nel salutarmi, mi consegnò un panno con dentro qualcosa avvolto. Mi disse che c’era mancato poco e che non voleva più correre il rischio. Che ne facessi quel che volevo. Dentro il panno l’arma. La conservai ben nascosta. Arma e caricatore pieno. Una volta sola andai in campagna e provai a sparare, ma mi bastò un colpo. Troppo forte, con l’urto che risaliva dal mio polso e si trasmetteva a tutto il braccio e via via al resto del corpo come una scossa elettrica. Non mi piacque la sensazione ed ebbi paura che qualcuno potesse vedermi e chiamare la polizia. Da allora cercai di dimenticarmi di quell’oggetto. La seppellii nel garage, tra una miriade di altre cose. L’idea era che prima o poi avei potuto buttarla o usarla.

Ecco. Ora. Adesso. Lo vedo che si avvicina. L’ho lasciato parlare. L’ho ascoltato mentre provava a imbambolarmi con le chiacchiere. Ha le braccia spalancate. Non vedo più Enzo, forse è già pronto a balzarmi alle spalle, ecco ci siamo. Ora. Adesso. Un brivido freddo mi corre lungo la schiena. Le cose riprendono a ruzzolare. Peccato per loro credermi così incauto. Così stupido. Non lo sanno. Perché non l’ho mai raccontato. La pistola. Una Beretta 9 mm infilata tra la cintola e i calzoni dietro la mia schiena. Pesante e fredda. Come un chiodo in un tronco, fastidiosa. E Roberto che vuole avvicinarsi e abbracciarmi, tradirmi. Perché? Perché? Non potevamo rimanere fuori da tutto questo? Avere un lavoro normale? Una vita normale? Rimanere amici? No, grazie. Ecco. Ora. Adesso. Usa la testa. Calma. Stai calmo e potresti anche sopravvivere. Se cedo al panico, muoio. Amico mio. Mi hai tradito. Il bosco è lacerato da una detonazione. Non la ricordavo così. Questa volta la scossa nel braccio è stata meno forte. Anche il rumore. Siamo sui ciottoli del fiume. Le acque gorgogliano placide. Roberto mi osserva stupito. Poi strabuzza gli occhi e sputa un lungo fiotto di bava sanguinolenta, un nastro nebulizzato che si allunga nel vuoto e ricade sulle pietre. Roberto si accascia al suolo e altre gocce si rovesciano dalla ferita, imbrattandolo. Gli occhi. Gli occhi di Roberto diventano acquosi. Non sono più pieni di emozioni,  parole. Di idee e progetti per come uscirne tutti e tre insieme. Lui ne è già uscito. Si è liberato. Come la vecchia. Come Rachele. Roberto si trasforma in un fantasma sotto i nostri occhi. Infine sento Enzo che urla qualcosa.

(Enzo)

Enzo sente la sua voce venata di mille sfumature di tensione. Ha visto Vittorio estrarre l’arma e sparare a bruciapelo a Roberto nella pancia. Ha sentito lo spostamento dell’aria del proiettile prima ancora di sentirne il suono deflagrare lungo la sponda del Sesia. Il resto avviene in un baleno. Vede Vittorio rimanersene immobile con l’arma lungo un fianco. Contempla il corpo di Roberto.

Enzo ne approfitta per indietreggiare. La sua mente è come chiusa, incapace di ragionare. Con gli occhi cerca una via di fuga. Il bosco è troppo lontano. Vede alcuni tronchi incastrati tra la melma e i sassi. Un bastone più robusto degli altri, nodoso e sghembo. Lo raccoglie. Dietro di lui c’è Vittorio con l’arma. Vittorio sorride. Dice qualcosa.

- Hai visto? Dopotutto era meglio se rimanevamo come prima… Non era meglio l’Outlet?

E’ allora che Enzo sente la paura spaccargli i polmoni e scavargli dentro il petto. E’ allora che Enzo avverte di essere sul punto di morire, di venire ingoiato da un buco nero profondissimo. E’ allora che ricorda quanto la morte gli abbia sempre fatto schifo, di quanto, per tutta la sua vita, abbia cercato di non cadere nei suoi tranelli. Perché dietro la noia, dietro all’incapacità di accettare il suo lavoro routinario da schiavo, dietro la repulsione per i suoi genitori vivi morenti, dietro tutto questo c’era solo la paura di morire. La paura di Vittorio con una pistola. La paura di Roberto che sputa sangue.

Enzo vede o immagina di vedere Vittorio che solleva lentamente il braccio verso di lui, un attimo e prenderà la mira. Da questa distanza non può sbagliare. Vorrebbe supplicarlo di non farlo. Dirgli che è stato tutto un grosso equivoco. Un gioco finito male. Ma il bastone che ha nelle mani è più veloce di ogni parola. Lo usa come un martello. E colpisce duro. Sulle mani. Sulle braccia. Sul capo. Di Vittorio. Continua a colpire incapace di fermarsi e si sente gli occhi stretti come aghi di pino, incapaci di mettere a fuoco quello che sta succedendo. Sente solo il rumore dei colpi che planano sulla carne fragile e la devastano. Una serie di randellate violentissime quasi tutte sul cranio sbriciolato.

Quando il cuore è sul punto di scoppiare, Enzo si blocca. Ha il viso segnato, sangue raggrumato sulle guance, tra i capelli.

Lentamente la furia di sopravvivenza si allontana, sciogliendosi nei respiri affannati, a bocca aperta. Enzo lascia andare il bastone. Vittorio è caduto accanto a Roberto. Anche lui è avvolto dal sangue, molto sangue scuro che gronda dalla testa maciullata. Sangue pastoso che imbratta i sassi irregolari del fiume.

Sembra morto, forse sì, forse no. Anzi, non lo è ancora: ora rantola, boccheggia, soffoca. Enzo continua a respirare con la bocca aperta e si guarda attorno come per chiedere aiuto, ma è solo, lungo la sponda di un fiume, ai margini di un bosco, è solo.

(10 – continua)

Daniele Vacchino & Davide Rosso