ACQUA ALLA GOLA 09

(Vittorio)

La voce di Roby che si affievolisce e io che la lascio andare, poso la cornetta sulla forcella. Lascio lievitare le parole dentro la mia testa. Non provo nulla di particolare. Solo una vaga confusione. Sento il bisogno di pensarci a lungo, per conto mio, senza farmi influenzare da nessuno. Ho bisogno di ripercorrere tutta questa storia. E capire. I giorni passano. Per loro non saprei come. Per me, nello stesso identico modo di prima. Di prima. Prima che ci sporcassimo le mani con un omicidio. Non mi pesa la cosa in sé. L’ho già detto, non provo rimorsi. Non amo i vecchi e quello che rappresentano. Sono solo un peso, per loro e per gli altri. In un certo senso le abbiamo fatto un favore, alla vecchia zia. Purtroppo, però, per la legge, ammazzarne uno è un gran casino. Non voglio rovinarmi la vita per quel cadavere sotto terra da tre mesi. Ora lei è serena, nel buio, libera da ogni obbligo lavorativo, libera da ogni obbligo sociale, dalle pulsioni più primitive come mangiare, cagare, masturbarsi. Il suo corpo è una slavina in caduta libera. Una serie di reazioni chimiche e disgregazione molecolare. Ora la vecchia può finalmente disperdersi.

Io invece sono ancora qui. Prigioniero di una vita da discount. Prigioniero dei miei genitori. Le discussioni in casa sono sempre le stesse. Guadagno pochino, appena per pagarmi le spese, le tasse. Praticamente lavoro per lo Stato e non metto da parte nulla. Mia madre e mio padre non mi passano più un euro da mesi. Credo vogliano costringermi a cedere. Mia madre si è esaurita in attesa di una pensione, che, anno dopo anno, le continuano a posticipare nella speranza che muoia prima. Mio padre si è chiuso in una specie di mutismo genetico dal quale esce raramente. Ha paura di invecchiare, di non essere autosufficiente. Glielo leggo negli occhi. E’ la mia stessa paura. Mia sorella alterna momenti psicotici di euforia a stati di cadute depressive fortissime a seconda di come va al lavoro. Nessuno di noi lascerà qualcosa dietro di sé. Io non avrò figli. Non avrò una famiglia. Almeno Enzo e Roberto hanno una ragazza. La mia ragazza è una donna di plastica, sensibile alle carezze del mio cazzo piccolo, ma indifferente ai vasti moti del cuore. Ho passato troppo tempo inutilmente. Gli anni in cui avrei potuto fare qualcosa di buono, diventare una persona migliore, essere amato da qualcuno, mi sono sgocciolati tra le dita. Avevo troppa paura di provarci, di mettermi in gioco sul serio. Sono rimasto alla finestra ad aspettare che avvenisse qualcosa, poi, ogni volta che qualcosa avveniva, io mi richiudevo nel mio guscio e dicevo, sarà per la prossima volta, per ora chi me lo fa fare, sto bene così, nel mio guscio, nel mio nido. Al lavoro ho sempre preferito i lunghissimi pomeriggi al bar o in campagna con gli amici; alle ragazze ho privilegiato i miei bisogni momentanei, le storielle insignificanti. E’ così che mi sono ritrovato solo. Quasi tutti sono andati avanti. La maggior parte delle persone che ho conosciuto sono andate per la loro strada e credo si siano dimenticate del sottoscritto. Fino a poco tempo fa avrei detto che mi rimaneva solo la mia famiglia (evviva!), Rachele, e poi Enzo e Roberto. Nonostante i nostri rapporti si siano logorati fino a una specie di guerra fredda fatta di urla, bestemmie e silenzi, voglio bene ai miei genitori. Tutto quello che hanno fatto lo hanno fatto per il mio bene. Solo che io ho sprecato ogni cosa. Adesso anche loro si sono scoperti invecchiati e non hanno più tempo da perdere dietro a una sconfitta ambulante. Il problema assillante di trovare un lavoro, un lavoro vero che mi dia da mangiare, che mi renda autonomo, eccetera, è ancora il loro massimo cruccio. Io, di mio, non vorrei lavorare. Mi fa schifo anche solo l’idea di perdere la libertà (qualunque cosa sia) dietro a un’occupazione inutile e demotivante. E’ lavoro quello che si fa in un supermercato? Dietro una cassa? Otto, nove ore al giorno? Sei giorni su sei fino alla pensione a settant’anni? E’ lavoro fare l’operaio, spaccarsi la schiena, logorarsi le braccia in mezzo a liquami chimici? E’ lavoro rimanere in piedi tutto il santo giorno e portare pietanze e menù a gente maleducata? Perché accettiamo tutto questo? Dov’è la nobilitazione del lavoro? Nel soldo che ci danno? Per quei pochi spiccioli siamo disposti a lavorare di più, sempre di più. Fino allo spasimo. E’ una vita da augurarsi? Sarò un bamboccione, una nullità, ma finché ho potuto, ho fatto qualunque cosa per allontanare da me questi incubi. Ho persino ammazzato una vecchia. Un poco come il Raskolnikov di Dosto. Sopprimere quella reliquia di carne per trarne giovamento, poter sperare in una via di fuga dalla condanna a un lavoro precario. L’idea di Roberto era semplice, forse persino banale, ma reale e geniale. Uccidere per poco. Relativamente poco. Ottocento mila euro da dividere in tre, ma attenzione, non da spendere, da investire. Ci avrebbero reso l’indispensabile per tirare la cinghia e andare avanti fino alla fine di questo nostro cammino terreno. Potevo tornare a fare dei progetti. L’affitto per conto mio. Rachele. La bambola senz’anima, unica compagna  trovata in quarant’anni di seghe. Mi accontentavo, mi sarei accontentato. Adesso. Ora. Invece. Roberto. Le sue parole. Ecco. Ora. Adesso. Perché questa storia accade adesso. Nel presente. Solo nel presente. Avere un passato, briciole di ricordi. Avere un futuro, briciole di avvenire. Entrambe possibilità troppo costose per uno come me. Ho solo il presente sotto le mie dita. Quello che mi hanno detto… Sarà vero? Ho sempre dubitato degli altri. Un difetto congenito, ereditario. Anche degli amici, dubito. Roberto ed Enzo sono, probabilmente, i migliori amici che abbia mai avuto. Tra di noi ci siamo sempre rispettati, quasi sempre capiti, voluti bene. La cosa più importante è che non ci siamo mai giudicati. Non avrei motivo dunque di dubitare della loro parola. Però. C’è un però. L’omicidio della vecchia. Torniamo sempre lì. Quell’evento ci ha fatto scoprire cose inaspettate dentro ciascuno di noi. Credo abbia avviato un processo di decomposizione delle nostre anime. Quanto abbiamo compiuto ci ha segnato e potrebbe essere nulla rispetto a quanto ancora può accadere. Ora. Adesso. Ho la lucidità per vedere tutto in prospettiva. In questi tre mesi da assassino, nessuno c’è venuto a cercare. Nessuna complicazione. Solo il problema dei soldi. Loro dicono che non possiamo ancora intaccare il patrimonio. Bene. Però Enzo si è comprato casa, macchina. Ha la sua ragazza e vivono insieme. Sono felici. Roberto è andato a vivere per conto suo, dopo il ritorno del padre dall’Africa. Anche lui sembra passarsela benissimo. I soldi non si possono toccare. Eppure pare che loro lo abbiano fatto eccome. All’inizio c’era una scusa, adesso un’altra. L’effetto è sempre il medesimo: che io sono all’asciutto. Sono l’unico rimasto a casa coi suoi. L’unico a dover tenere quel simulacro di fidanzata dentro una cassa di legno sepolta sotto pile di fumetti. E questo perché? Scuse confuse. Spiegazioni banali. Ora. Adesso. Con la calma, con tutta la lucidità del mondo. Senza rancori. Non posso che tirare le somme. Accettare la realtà di quanto già sospettavo. Abbiamo ucciso una vecchia. Qualcosa si è rotto dentro di noi. Abbiamo scoperto che è facile. Possiamo prendere qualcosa che è alla nostra portata. Basta un semplice atto di annientamento. Sbaragliare qualunque ostacolo, cancellarlo. Ma per farlo, ci siamo guastati dentro. E guastiamo ogni cosa che tocchiamo, ogni cosa che ci circonda, ogni sentimento, quindi perché non l’amicizia. Che cos’è in fondo l’amicizia, quando ci sono cose ben più importanti? I soldi, ad esempio. Perché i soldi aiutano a non dover pensare sempre ai soldi. Aiutano a non dover fare lavori di merda. Aiutano a trovare l’amore o almeno a farti rizzare l’uccello e trovare qualcuno che lo ammosci. I soldi coprono ogni mancanza. Alleviano la solitudine e rimpiazzano gli amici. Aver ucciso una vecchia mi ha fatto capire tutto questo. Un pezzettino per volta. E sono sicuro che anche Enzo e Roberto lo hanno capito. Quindi perché non disfarsi di un ingombro in più. Il sottoscritto. Prima una scusa. Poi un’altra. Il capitale investito. Non lo si può toccare. E poi case, macchine, tipe. Certo. So che è un sacrificio per te, Vittorio, certo. Facile dirlo quando la tua ragazza non è un pezzo di plastica chiuso dentro una cassa! E quindi? Che cosa devo fare? Mi stupisce il fatto di non avere incertezze. Forse nemmeno rabbia. Per la prima volta nella mia vita, tutto mi appare chiaro, come se non mi riguardasse. Non ho paura delle conseguenze. Non ho paura di quello che abbiamo liberato dentro di noi. Ormai è troppo tardi. E’ quello che penso mentre esco e passeggio. Mentre respiro a fondo l’aria non più gelida del mondo. Mentre rientro e ascolto mia madre redarguirmi per qualche cosa. Perché mi cambio troppo spesso le mutande e lei non è una serva e non ha più voglia di fare niente. Mio padre e mia madre che mi guardano e forse intuiscono qualcosa. Mi vedono sperduto sulle mie gambe, ingrassato, coi capelli sempre più grigi. Forse immaginano il futuro che avrebbero voluto donarmi e devono reprimere l’angoscia. Io vorrei baciarli e dire che non importa, che comunque è andata, ma non ci riesco. Le emozioni si sono seccate dentro di me e questo ben prima del ruzzolone giù dalle scale del sarcofago. Non ho quasi più voglia di pensare. La notte riprendo a sognare. Non mi capitava da mille anni. Sogno e vedo delle ombre ai piedi del letto. Una vecchia e un vecchio che mi chiamano con le loro vocine di vapore. Hanno entrambi la testa girata sul collo e perdono sangue dalle orecchie lunghe e afflosciate. E prima di sognare, prima di addormentarmi, ci sono sempre io nel cuore della notte. Con Rachele liberata dal suo loculo, cunicolo umido, ventre culla marcia di ossigeno e fumetti. I nostri momenti assieme sono sempre più brevi. Mi sbarazzo in un lampo dei suoi vestiti ed esplodo con un rantolo, accasciandomi sul suo corpo lustro. Poi contemplo la guaina sporcata della sua vagina, ci immergo le dita e annuso l’odore, il sapore salato del mio sperma. Non provo più piacere in sua compagnia. La vedo per quello che è. Un manichino indifferente alla mia sorte. Come Roberto. Come Enzo. Come la vecchia. Allora. Ora. Adesso. Mi accanisco su di lei. Perché non c’è un istante da perdere. La afferro con entrambe le mani. La lancio contro i muri e immagino il suono del suo corpo che ruzzola giù dalle scale. Poi brandisco un coltello gigantesco e, quasi senza sforzo, lo abbasso su di lei, come se non avessi forza. Ma appena la lama la squarcia sul davanti, subito sento dentro che è la cosa giusta, sento che la forza sta rinascendo e che la rabbia, la vendetta è benzina, cibo, olio, condimento, sostanza lubrificante della mia vita.

 

(Enzo)

La corsa si ferma di fronte a un palazzone nel centro della città. Un edificio con i muri in marmo chiaro, le persiane pitturate a nuovo e un immenso ingresso con la tendina verde.

Enzo varca l’uscio del palazzo e si infila in un ascensore con il vetro sui tre lati. Al sesto piano apre a fatica le porte dell’elevatore. E’ pieno di borse dello shopping. Nuovi modelli di iPhone, e-reader, portatili, Xbox. Quando è completamente fuori dall’ascensore, con le chiavi in mano, si accorge della figura accucciata sullo zerbino di casa. Sul subito non lo riconosce. E’ Vittorio. Enzo non lo vede e non lo sente da parecchie settimane. Ultimamente il rito delle puntate si è interrotto. Enzo crede sia solo colpa sua, delle sue spese folli, e che, probabilmente, Roberto sia ancora arrabbiato con lui. Enzo cerca di liberarsi delle borse voluminose e allarga le braccia per salutare l’amico, ma Vittorio se ne rimane immobile, col viso inespressivo, contratto.

Quando parla, lo fa lentamente, come per scandire ogni sillaba.

Quello che dice arriva poco alla volta alle orecchie di Enzo, come se ci fosse una specie di differita. Come se lui e Vittorio fossero ai due poli opposti del mondo. O più semplicemente, due estranei sul medesimo pianerottolo in un lussuoso palazzone di un centro città tristemente abbellito dai tabelloni vuoti di imminenti elezioni politiche.

- Ciao Enzo, sono passato per dirti che voglio la mia parte e subito. Credo che tu e Roberto non abbiate mai voluto spartire il grano. Adesso mi è chiaro. Pazienza. Comunque volevo che tu sapessi che si potrebbe anche mandare una lettera anonima alla Questura e chiedere di andare a dare un’occhiata alla salma della vecchia. Controllare meglio se tutte quelle ecchimosi sono compatibili con una sola caduta dalle scale oppure no. In fondo io non perdo nulla. I soldi non li ho. E non sono un parente. L’unico che ne ha beneficiato sei tu. E’ la tua parola contro la mia. Ciao.

Vittorio sguscia al fianco di Enzo e scende le rampe di scale. In meno di un secondo è sparito. Solo il suono dei suoi passi che si smorzano nell’aria.

Enzo rimane coi pacchi ai piedi e le chiavi in mano. Il sorriso sul suo viso che si stempera e va a male, irrancidisce. L’uomo non trova di meglio che guardare, oltre i vetri dell’ascensore, la notte che lambisce i primi tetti delle case.

(Roberto)

- E’ la sola cosa che possiamo fare.

- Già.

- E’ la sola cosa giusta.

- Hai ragione.

Enzo ha gli occhi fissi alla tazza di the che stringe tra le mani.

- Robi, credi che andrà tutto a posto?

- Ma non ci devi pensare nemmeno! Ci parlo io a Vittorio, siamo amici da una vita!

- Sì, ma quello lì è impazzito, cazzo. Non so se è più possibile parlarci!

Gli sorrido come si sorride ai bambini che non vogliono andare a scuola.

- Vittorio è solo scosso da tutto quello che è successo. Come tutti noi.

- Forse.

- Senti, Enzo, non hai forse fatto qualche errorino anche tu, da quando ti sei ritrovato i quattrini in mano…?

Enzo fa ballare la schiena avanti e indietro, dà un sorso al the.

- Ora chiamiamo tranquilli e pacifici il nostro amico Vittorio. Gli diciamo che abbiamo bisogno di parlarci tutti e tre insieme.

- Sì.

- Facciamo una bella rimpatriata, ci prendiamo un pomeriggio libero tutto per noi.

- Giusto.

- E andiamo in qualche posto rilassante!

- Tipo?

- Mah tipo…

- Non ho idee, io.

- Tipo al parco d’Albano, ecco.

- Al parco d’Albano? Mi pare un’idea un po’ balzana, Robi.

- No, no, il parco d’Albano è perfetto. Quello è il posto della nostra amicizia, Vittorio ed io ci abbiamo passato un sacco di pomeriggi, a camminare.

- Se lo dici tu…

- Sì, sì, il parco sarà perfetto. Vittorio capirà che vogliamo stringere un nuovo patto di fratellanza e verrà con il migliore animo.

- D’accordo.

- Ora lo chiamo.

(9 – continua)

Daniele Vacchino & Davide Rosso