ACQUA ALLA GOLA 05

(Roberto)

Vittorio stappa l’ennesima bottiglia di birra e si riempie il bicchiere.

- Se non la finiamo con questi film da mollaccioni mi viene il voltastomaco!

- A te piacciono i noir cazzuti, lo sanno anche i muri oramai, ma lascia scegliere qualche film anche a noi!

Enzo è intabarrato in un dolcevita grigio di lana spesso, ha due enormi occhiaie e parla a fatica. Quando è entrato in casa mia con le pizze da asporto fumanti, ci ha spiegato che al negozio l’hanno fatto stare con la porta aperta per qualche strano motivo legato al marketing e così si è preso una tonsillite.

- Vogliamo parlare di Wall Street, di Un’ottima annata, dei film che piacciono a Roberto? – Vittorio ha smesso anche di mangiare, parla come un ossesso – Vogliamo metterli fianco a fianco a A simple plan, o a Non è un paese per vecchi? Stai scherzando Enzo?

- Chi ha mai detto niente – chiude Enzo con un filo di voce.

La tavola è apparecchiata come ogni domenica sera. Noi le chiamiamo “Le puntate”. Tre pizze d’asporto, si tira il collo a una mezza dozzina di birre, si parla di sesso, film, libri. Del tutto banditi sono i discorsi su donne e sentimenti, sugli impegni e sui genitori. Un rito che ci portiamo dietro ormai da cinque anni, da quando ho occupato la casa del mio vecchio. E che è destinato a cessare nel giro di qualche settimana, quando mio padre tornerà dall’Africa.

Enzo e Vittorio ancora non lo sanno. Non ho voluto dare loro anche questa amarezza.

- Se solo mi avessero preso sul serio quando gli ho esposto il piano per impossessarci dei soldi della vecchia zia… – penso a denti stretti.

Ma i due paiono non aver preso minimamente in considerazione l’ipotesi, come se le loro vite andassero bene così, in fondo. Forse hanno ragione loro, a non pensare minimamente al domani, lasciarsi aggredire dalla marea che sta salendo (perché sta salendo!).

- Mettiamo su questo bel noir e non pensiamoci più – propone il venditore ambulante.

Si spengono le luci nella sala, prendiamo possesso delle poltrone davanti al televisore. Sul monitor compare il volto mascherato di un rapinatore. Con un missile mette fuori uso un camioncino portavalori. “Accerchiatelo!” urla ai propri colleghi di rapina. Delle sagome nere circondano il camioncino portavalori con i mitra spianati.

Enzo gingilla con il telefonino. Entra su Facebook, controlla lo stato sentimentale di alcune ragazzine sotto i diciott’anni.

“Uscite, merde!” esce dagli altoparlanti. Vittorio sospira lentamente con la pancia piena.

Sarebbe bello poter continuare in questo modo all’infinito. Lasciare fuori dalle nostre esistenze le preoccupazioni del futuro, come tanti demoni dai denti gialli. Lasciarci sommergere da questa routine fatta solo di film, di chiacchiere inutili, di serate con gli amici. Senza il pensiero assillante del domani.

- Ma se il futuro non te lo cerchi, ti viene a cercare lui! – mi disse una volta Vanessa.

- E così è stato per me – mi dico con fatalismo.

Lo schermo proietta ancora sparatorie ed esplosioni, fino allo scontro faccia a faccia tra il buono di turno e il capo dei rapinatori (per cui stiamo, ne sono sicuro, indiscriminatamente facendo il tifo tutti e tre). Poi però il rapinatore si becca una bella pallottola in piena faccia e iniziano a scorrere i titoli di coda.

Si riaccendono le luci. Enzo e Vittorio si stanno fissando con un sorriso d’intesa.

- Devo essermi perso qualcosa – sussurro.

Poi Enzo fa subito scivolare il discorso su una collega che ha visto mentre si spogliava nel camerino del suo negozio, una volta che era venuta per provare una maglietta.

- Jennifer però è la migliore. Ha due tettine sode!

Vittorio si lustra la pancia, dimena il capo come un ossesso.

Si è fatta l’una e mezza e le parole scorrono via lisce e flessuose come note. Pare un enorme castello di carte che si decompone e sfila via, nella notte, come una canzone jazz che esce dal finestrino dell’auto e si perde nella notte, si perde, si perde, si perde…

Giro lo sguardo e i due sono di nuovo lì, che si fissano. A questo punto mi isso sulla poltrona e sto per chiedere

- Ma cosa avete voi du…?

- Robi, per noi va bene – mi blocca Enzo con uno sguardo ferreo.

Guardo prima lui, poi Vittorio con fare interrogativo. Vittorio scuote il grosso capo.

- La zia. Il piano. Noi ci siamo.

Uno dei tanti paesi del vercellese tagliati in due dalla strada comunale. Uno dei tanti buchi sperduti nel nulla. Una rotonda male illuminata, poi una strada asfaltata sulla destra. Un quartiere nuovo, con le casette identiche, mono familiari. Le vie squadrate. Un’area verde con alcuni giochi per bambini. Poi la strada che prosegue, diventa sterrata e si perde nella lattescenza.

Una Seat Ibiza avanza fino in fondo alla stradina. Nessuna luce. Solo la sagoma di una costruzione irregolare, una casetta solitaria ai margini del niente. Una casetta a due piani, le persiane accostate e i muri che scivolano in silenzio nella fatiscenza.

Dentro la Seat Ibiza ci siamo noi tre. Fissiamo la casa della zia come minuscole marionette. Sotto i nostri volti, impercettibile come un filo, è teso un ghigno di paura e speranza.

- Pile.

- Prese.

- Corda.

- Presa.

- Guanti.

- Sì.

- Coltello.

- Sì.

- Chiavi.

- Ce le ho.

- Zaino.

- Fatto.

Qualche istante di silenzio. Sto per mettere la mano sulla maniglia della portiera.

- Se se ne accorge e urla?

- Enzo, quante volte l’abbiamo ripetuto? – Vittorio parla scandendo lentamente le parole – Appena emette un suono la freddiamo.

Lo store manager ha gli occhi come due bucce di banane. Fa su e giù con la capoccia.

- L’importante è solo che nessuno senta i rumori da fuori. Tutto quel che succede dentro la casa resterà tra noi.

- Sepolto nelle nostre coscienze – chiude Vittorio.

- Andiamo – Enzo cerca di ritrovare fiducia.

Guardiamo attentamente che sulla strada non ci sia anima viva. I cuori pulsano dentro l’abitacolo dell’automobile.

- Fermi.

Ci voltiamo indietro.

- Cosa c’è?

- Ho visto qualcosa muoversi, laggiù – Vittorio indica tra i cespugli lungo un muro.

- Merda.

- Che cazzo?

Sarebbe bello essere in un posto lontano, un luogo caldo e accogliente. Via da questo freddo, via da questa nebbia. Penso ad un mare caldo come il grembo di una madre. Per qualche istante non sento più il freddo che mi sta paralizzando le gambe e i glutei. Restiamo fermi così, immobili, fissiamo il muro con il cespuglio.

Dopo un tempo indefinito che potrebbe essere diversi secondi, qualche minuto, oppure un mese e mezzo, dietro le foglie del cespuglio fa capolino un gatto nero.

- Miao! – si sente nitido nella notte.

- Ma vaffanculo!

- Cristooo.

Le nostre pance sbuffano aria calda come termosifoni.

- Ragazzi, calmiamoci – dico con quel briciolo di sicurezza che mi resta.

- Sì.

- Già.

- Ora usciamo come tre allegri babbi natali e andiamo a fare la festa alla zietta, va bene? – negli occhi dei due amici ricerco una forza che non riesco più a trovare.

- Dai, ragazzi! – incita Vittorio, provando a scrollarsi di dosso la tensione.

Ci guardiamo per bene in faccia l’un l’altro. Poi Enzo volta lo sguardo verso la casa e dice con una voce limpida:

- Andiamo a prenderci i soldi.

Con un movimento lento e sincronizzato ci caliamo sulla testa i passamontagna neri.

(Vittorio)

Rotola giù dalle scale come una biglia.

Gli stracci che la avvolgono, gli scialli, attutiscono il rumore delle vecchie ossa che si spezzano. L’abbiamo buttata giù. L’abbiamo sorpresa mentre saliva. Prima abbiamo aspettato nel buio. Acquattati al piano superiore mentre Enzo la convinceva a salire. Abbiamo sentito la sua voce sgradevole. Un alito ostinato di vita. Grammi di carne rugosa tenuti insieme da una volontà di ferro. Solo comandi, raccomandazioni, invidia per chi ha più vita di lei. Poi la caduta. Come una biglia di stoffa. L’abbiamo fatto. L’abbiamo fatto per davvero. Non sono più chiacchiere. Le abbiamo messe in pratica. Ci siamo intrufolati in casa di una poveretta per ammazzarla. Ammazzarla per soldi. Nient’altro. La cosa più banale e antica del mondo. Abbiamo saltato il fosso. Non possiamo più tornare indietro. E’ stato così facile. La vecchia è planata ai piedi delle scale. Le gambe girate verso l’alto, la gonna sollevata, vecchi collant grigi esibiti senza pudore. La testa piegata in modo orribile. Le braccia sotto il corpo. Ce ne stiamo immobili in cima alle scale per un bel po’ di minuti. Poi troviamo il coraggio di accostarci alla zia. Enzo si inginocchia su di lei. Le tasta il collo. E’ ancora viva, dice. La frase mi brucia nel cervello come napalm e mi incendia tutti i pensieri. Vengo preso dal panico ed è come se una mano invisibile mi premesse sulla carotide. Vorrei essere all’aperto, lontano da lì. Il panico dura solo pochi istanti, per fortuna. Roberto è lucidissimo. Serra la mascella e si guarda attorno. Enzo fa quasi per accendere le luci, ma Roberto lo ferma. Usiamo solo le pile. Da fuori non si deve vedere nulla. Decidiamo di aspettare. Ormai la vecchia sta tirando le cuoia. Con la testa in quella posizione è questione di minuti. La lasciamo così, solo ci spostiamo nella cucina e cerchiamo di non toccare nulla. Ripensiamo a tutto quello che ci siamo detti. Non dobbiamo fare errori se non vogliamo insospettire qualcuno e ritrovarci Ris, Digos e caramba col luminol, le tute bianche da astronauti del cazzo e quel coglione di Salvo Sottile che ci intervista mentre usciamo dal Tribunale. Non voglio diventare uno dei tanti fenomeni da baraccone della cronaca italiana. Voglio solo i soldi e che la vecchia crepi. Ogni tanto andiamo a vedere e ci sembra che non respiri più. Enzo suda, vuole andarsene. Noi non ci fidiamo. Una volta ho sentito di un neonato creduto morto e lasciato in un obitorio per 24 ore. Quando sono andati i genitori per vederlo un’ultima volta, hanno scoperto che era ancora vivo. Se ha resistito un neonato, potrebbe farlo benissimo una vecchia. Il corpo umano è strano, misterioso. A volte uno non respira più, poi riprende. Non possiamo sbagliare. Decidiamo di rimanere un altro poco. Fuori è ancora buio, nessuno può vedere la macchina. Mentre aspettiamo non riusciamo quasi a guardarci, a parlarci. E’ come se avessimo scoperto un lato di noi che prima non conoscevamo. E’ così facile uccidere. In questo momento non provo nulla. Nessun rimorso. Solo caldo. Sudo. Vorrei correre. Respirare l’aria gelida della notte. Vorrei farmi una sega. Stare con Rachele. Rimanermene nudo con lei nel letto matrimoniale dei miei. Vorrei passare tutta la notte con lei senza la paura di essere scoperto dai miei. Cosa farebbero se mi vedessero con una real doll? Cosa farebbero se sapessero i sacrifici che ho fatto per avere un oggetto da seimila dollari. Un fallito come me non potrebbe mai permettersela. In realtà Rachele è stato un regalo, l’unico colpo di culo della mia vita. Un paio di anni fa, Roberto ed io ci eravamo messi in testa di scrivere una sceneggiatura per un film porno. Avevamo un tizio della nostra città che aveva iniziato a farli come attore. Ci aveva chiesto di scrivergli qualcosa. Noi lo avevamo fatto. Il tizio aveva fatto leggere quelle paginette a un regista piuttosto famoso dell’ambiente. Andy Casanova. Andy ci aveva telefonato. Era un tipo alla mano e voleva conoscerci. Era venuto fuori che abitava a una quarantina di chilometri da noi. Così un pomeriggio Roberto ed io eravamo andati da lui. A casa sua. Che poi era la casa dove girava buona parte della sua roba amatoriale. Con lui c’era Letizia Bruni. Una pornostar, la sua compagna. Dopo una bella chiacchierata si era capito che a Andy, del nostro film, non fregava nulla. Aveva bisogno di qualcuno che gli scrivesse una specie di autobiografia. Da quando, cuoco in Germania, era tornato in Italia, aveva conosciuto Silvio Bandinelli e s’era inventato una nuova vita nel porno. Io e Roby accettammo solo per tenerci il contatto. Dopo poco, Roby si stufò e finii per scrivere da solo il libro. Andy poi lo fece pubblicare per un editore abbastanza importante. Solo che si scordò di scrivere il mio nome sulla copertina. La cosa finì lì e io non beccai una lira. Dopo parecchi mesi, Andy mi telefonò di nuovo. Voleva che passassi da lui. Quando arrivai non c’era più Letizia Bruni. Seduta sul divano in pelle chiara c’era Rachele. Lei è Rachele disse Andy. Ed è tua. Era tutto ciò che desideravo. Il sorriso di Rachele, meccanico e nervoso. Sembrava che anche lei fosse agitata e ansiosa. Di venire via con me. Per sempre. La voce fioca della vecchina ci chiama. Zia Santina ci strappa dai nostri abissi. Ognuno di noi la sente. Ma sono sicuro che la sentiamo chiamare un nome diverso. Enzo sentirà il suo. Roberto idem. Io la sento pronunciare il mio. Lo so. E’ impossibile, ma lo sento. La voce di Santina è consistente come una nuvola di vapore. E’ identica a quella di mio nonno la notte in cui crepò. Anche lui invocava il mio nome. Lo faceva perché sapeva che ero sveglio. Che ero l’unico che poteva aiutarlo. Me ne rimasi immobile allora. Me ne rimango immobile ora. Perché i vecchi. Le vecchie. Sono tutti uguali. Egoisti fottuti. Pensano solo a loro. Degli altri non gliene fotte un cazzo, se non quando hanno bisogno. Santina non avrà più bisogno. Come mio nonno. Dopo alcuni secondi di quella lamentala bassissima, Enzo si alza e bestemmia tra i denti. Ha il volto stravolto dalla furia. Io e Roberto non riusciamo a raggiungerlo. Lo vediamo correre dalla vecchia, sollevarsela sulle spalle, salire le scale e scaraventarla giù un’altra volta. Quella definitiva. Questa volta sentiamo un rumore umidiccio, come di anguria marcia. Del sangue. Molto sangue che scorre dalle orecchie e dalla fronte della zia. La voce non c’è più. Solo noi. Le nostre facce da lupi ed Enzo che capisce che per essere liberi bisogna passare attraverso il sangue.

(5 – continua)

Daniele Vacchino & Davide Rosso