ACQUA ALLA GOLA 02

(Roberto)

- Una giornataccia, ti dico.

Vanessa si lascia cadere sul mio letto. Io mi siedo a lato e accenno una carezza sul fianco.

- In ufficio continuava ad arrivare gente, una gabbia di matti!

Inconsolabile, le mani tra i capelli, lunghi fili d’oro che si perdono tra le coperte. Il suo viso è tondo e lineare, con un piccolo naso a patata e gli occhi rapidi e curiosi.

- Tu invece? – mi fa con un cenno del mento.

- Cosa dire? – porto di scatto lo sguardo al muro dietro di lei – la solita tiritera… Compra questo, analizza questo titolo, senti il cliente…

Vanessa lascia cadere il discorso, stringe gli occhi come a voler spremere via la stanchezza.

So bene cosa pensa del mio lavoro: un part-time poco remunerato, che non mi porterà da nessuna parte. Anzi, che non ci porterà da alcuna parte. A dire il vero, ci ho anche provato a fare qualche altro lavoro. Ma non sono stato molto fortunato. Terminata la laurea in economia, finii dritto dritto dietro lo sportello di una banca di Milano. Giù a contar soldi, infilare ordini sul pc, sorridere al cliente, ascoltare le direttive del direttore, andare alle riunioni, fare i corsi di formazione, partecipare ai forum motivazionali, sorridere. Non era certo la mia vita, quella lì. Preferii dirottare le mie scelte verso qualcosa di meno impegnativo, di più immateriale. La consulenza finanziaria faceva al caso mio. “Ma a trent’anni non hai ancora uno stipendio!” troncherebbe il resoconto Vanessa.

E pensare che qualche soldo extra ho cercato anche di portarlo a casa! Da un paio d’anni sono entrato nel giro delle ripetizioni private. Inizialmente la fortuna ha girato e mi sono ritrovato con tre studenti e diverse ore di lavoro profumatamente remunerate. Poi la botta di culo è passata ed ora mi ritrovo con un solo allievo, ormai all’ultimo anno di superiori.

Vanessa si solleva e mi dà un bacio sulla guancia, cercando con i suoi occhi i miei.

- Tutto bene?

- Già.

- Senti, se ordino una pizza? – dice alzandosi dal letto – non ho voglia di mettermi ai fornelli!

Mi distendo sul letto, per un attimo provo a ricacciare quei pensieri giù nell’abisso.

- Ho sempre questa casa! – mi dico, quasi per tranquillizzarmi.

In effetti, è proprio così. Quel che salva il mio bilancio personale e, soprattutto, il mio tentennante progetto di vita, è non dover pagare l’affitto. Il mio vecchio, ultrasettantenne, se n’è andato a vivere in Madagascar, con un harem di quindici diciottenni, cinque massaggiatrici e due colf.  Così, nonostante si bruci tutta la pensione in puttane, ha lasciato libera la casa. Un bell’appartamento in periferia, di tre camere e doppi servizi, un ampio terrazzo su cui pranzare d’estate e un giardino comune sotto.

La mia tana.

(Enzo)

Un’ombra gigantesca scompare dietro il muro. Si sente il vociare di un televisore. Poi silenzio. Una luce rossa filtra da qualche parte, ma è buio, troppo buio per poter capire da dove. L’ombra enorme fa capolino nuovamente dal muro. E’ la sagoma paffuta di una donna spessa quanto un elefante, una donna cannone. Poi scompare nuovamente inghiottita dalle ombre.

- Pa’, ma’, sono io.

La luce si accende di botto e la penombra si dilegua. Scopriamo l’atrio di un appartamento. Enzo sistema sull’attaccapanni la giacca di lana color senape con i bottoni da marinaio.

Non gli risponde nessuno. Si alza nuovamente il vociare da un televisore, dietro una porta. Sarà senza dubbio un talk show, magari uno di quei programmi di cronaca nera che tanto ama il padre di Enzo.

L’orologio sul muro segna le dieci. Il nostro uomo apre una porta.

- Ehi, non senti mai.

- Enzino – si sente uscire una voce flebile di uomo, lenta – guardavo Quarto Grado. -

- Mamma?

- E’ in camera sua, si è messa a letto prima di cena.

- Mi tieni compagnia che mangio un boccone?

- Stasera non ne ho voglia Enzino, sono così stanco… – la foce flebile pare inabissarsi tra le acque di una palude.

Enzo si sposta in cucina. Apre il frigorifero e tira fuori una confezione di prosciutto e del pane. Si siede al tavolo e comincia a scartare il cibo.

- Se Federica non andasse sempre a ballare con le amiche mi farei qualche chiavata di più – sussurra tra sé.

Federica è la ragazza di Enzo. Non proprio una storia ufficiale, anche se i due escono insieme ormai da diverso tempo. Ma la giovane età di lei ha dato fin da subito al rapporto i tratti della storia senza troppi impegni, fatta più che altro di intesa reciproca e sano sesso. Non che Enzo non se ne sia fin da subito innamorato, di Federica. Anzi.

- Ma sai, quando c’è feeling è tutto quel che conta – chiudeva il discorso lei, le poche volte in cui Enzo aveva provato a far partire il bottone del fidanzamento – il resto sono solo cazzate, è solo noia…

E così Enzo aveva finito per adattarsi a quel tipo di rapporto, che comunque gli dava ampi ritorni dal punto di vista sessuale, e, al tempo stesso, gli lasciava mano libera per provarci con le colleghe dell’Outlet di Vicolungo. Già, le colleghe di Vicolungo…

- Quella Jennifer devo proprio portarmela a cena fuori… Con le unghie smaltate e il sorriso di una lince…

La cucina è un riquadro giallo sporco, le ante marrone scuro del mobilio (che fu di ottimo gusto un trentennio addietro) e i termosifoni scrostati.

Il nostro uomo affonda la testa nel piatto di plastica, strappa con i denti le fette di prosciutto inscatolato e trangugia Coca-Cola.

La melodia di un telefono cellulare. Sul display appare il nome “Zia”. Enzo guarda il cellulare senza muoversi. Poi uno sbuffo gli deforma le labbra.

- Zietta!

Dall’altro capo del telefono si avverte il suono di una voce sgradevole e sottile.

- Sì zia, certo!

Alza gli occhi al cielo.

- Come? Hai bisogno adesso? Ma… sai, sono appena tornato dal lavoro…

In un momento di particolare silenzio all’interno della casa, esce dal telefonino la voce della zia, liscia e acuta come vetro:

- E’ proprio vero che allora sono sola a questo mondo! Non mi resta altro che la Chiesa. Finirà che lascio tutti i miei quattro soldi a loro, se nessuno d’altro m’aiuta a questo maledetto mondo!

-Va bene, arrivo subito zia.

 

Uno dei tanti paesi del vercellese tagliati in due dalla strada comunale. Uno dei tanti buchi sperduti nel nulla. Una rotonda male illuminata, poi una strada asfaltata sulla destra. Un quartiere nuovo, con le casette identiche, mono familiari. Le vie squadrate. Un’area verde con alcuni giochi per bambini. Poi la strada che prosegue, diventa sterrata e si perde nella lattescenza. Enzo avanza quasi alla cieca con la sua Seat Ibiza. L’autoradio è accesa. Artic Monkey dalle casse. Fortuna che conosce la strada a memoria! Dal parabrezza intravede solo porzioni di campi ghiacciati. Anche il tempo pare coagulato. L’auto avanza fino in fondo alla stradina. Nessuna luce. Solo la sagoma di una costruzione irregolare, una casetta solitaria ai margini del niente. Una casetta a due piani, le persiane accostate e i muri che scivolano in silenzio nella fatiscenza. E’ la casa della zia.

Enzo si chiude la zip del giubbino. Spegne l’auto e scende. Mentre si avvicina a grandi passi controlla l’ora. Le dieci passate. Una bestemmia gli altera i lineamenti del viso. A quell’ora avrebbe preferito rimanersene a casa a collassare davanti a qualche film di zombi. Oppure fare sesso con Federica. Purtroppo le cose non sono andate così. La vecchia ha chiamato. E quando la vecchia chiama, lui deve accorrere. Una volta è perché la televisione non si vede. Un’altra perché si è staccato un quadro dal muro. Oppure per dei rumori sospetti.

Una sera, la reliquia lo ha fatto restare al gelo per due ore, prima di rilassarsi. Era convinta che qualcuno la spiasse dalla finestra. Da allora ha preso l’abitudine di tapparsi dentro ben prima del tramonto.

E’ la vecchia zia di suo padre. La sorella del padre di suo padre. Una morta in piedi acida senza marito, senza figli, senza altri parenti. Per buona parte della sua vita, Enzo e i genitori se ne sono fregati di lei. Poi, la famiglia di Enzo ha fatto due rapidi calcoli e ha capito che la vecchia conveniva. Il padre e la madre di Enzo, in trent’anni di lavoro all’ospedale come infermieri, non hanno messo da parte un becco di un quattrino. Si sono mangiati tutto, e pure la casa dove abitano non è di proprietà. Sono in affitto. La casa appartiene alla zia.

La zia Santina. 86 anni. Attaccata alla vita per un filo. La zia Santina. Che poi nessuno ha mai capito come abbia fatto ad accumulare tante ricchezze. Non ha mai lavorato. Una vincita all’Enalotto, dice il padre di Enzo. Faceva l’usuraia, dice la madre di Enzo. Comunque, di sicuro, possiede almeno tre case, più un conticino in banca abbastanza cospicuo. A 86 anni e senza altri parenti, quei beni fanno gola.

Per questo, nell’ultimo anno, la famiglia di Enzo ha stretto i contatti con la moribonda. Meglio, Enzo ha stretto i contatti con la moribonda. Suo padre e sua madre sono due zombi. Quasi hanno compromesso l’eredità. Non si preoccupano granché della vecchia e lei se n’è accorta. Come tutte le cariatidi, se ne rimane attaccata alla vita con disperazione. Invoca la morte ogni momento, ma lo fa più per scaramanzia. I suoi bisogni devono essere i bisogni di tutti. Le sue esigenze devono venire prima di quelle degli altri.

Enzo la odia. Desidera la sua morte quasi quanto i soldi. Ma non può farci nulla. Una volta con suo padre ha fatto un rapido calcolo. La cifra da riscuotere balla sugli 800 mila euro. Con una cifra così il futuro appare meno fosco. Va bene che adesso c’è il lavoro indeterminato all’Outlet, va bene che l’hanno fatto store manager, eppure Enzo non può certo dirsi col culo al caldo! A Vicolungo i negozi compaiono e scompaiono come funghi. Un momento un’attività va a gonfie vele, un momento dopo va a picco e i consigli di amministrazione decidono di allocare da un’altra parte. Il contratto a tempo indeterminato nel privato non significa nulla.

E poi Enzo non può reggere quei ritmi disumani fino alla pensione. Lavorare otto, nove, dieci ore, sei giorni su sette, spesso sette su sette per 1200 euro al mese… Una follia. Sorbirsi le paranoie raffinate dei clienti, la loro boria, la loro supponenza, senza poterli mai mandare affanculo! Per non parlare dell’idiozia assoluta di quelli con cui deve lavorare.

No, non può durare una vita. Che poi la pensione, quelli come lui, non la vedranno mai. La soluzione per il lungo periodo è quell’eredità. Tutto lì. Semplice. Tocca a lui, solo a lui, assicurarsi che la vecchia non faccia cazzate. Più di una volta, infatti, quando non si sente riverita e considerata, minaccia di lasciare tutto a qualche ente benefico o religioso. Come se i preti non ne avessero abbastanza di grano! E non sono minacce da prendere alla leggera. La mummia ha, tra gli affittuari delle sue proprietà, proprio un notaio che tutti i mesi passa da lei a versare l’affitto. Se volesse, non le ci vorrebbe molto a cambiare le carte in tavola. Proprio no.

Enzo apre la porta d’ingresso. Ha le chiavi. Supera il soggiorno immerso nel buio. La casa è arredata senza gusto, piena di mobiletti e suppellettili di ceramica, animaletti vitrei, piattini, posate, servizi da the  impolverati. Lungo i muri quadretti con le immagini di qualche carnevale veneziano. Stampe probabilmente ritagliate da qualche rivista. Un odore di chiuso e formaggio.

Il nostro salvatore di vecchiette arriva in un salottino angusto. Su una poltroncina a fiori rossi è seduta la zia. Santina è fasciata da una serie di scialli di lana. Ha i capelli appiattiti sulla fronte dai ferma capelli, gli occhi venati di sangue e un mento lungo a ciabatta pieno di peli bianchi. Il resto della faccia è abbruttito dalle rughe e dalla natura.

- Ciao Zia!

La cosa sulla poltrona nemmeno lo saluta. Con la sua vocina morente inizia a lamentarsi su qualcosa. Qualcosa a caso. Borbotta di un tubo nel bagno che si è rotto.

Enzo cerca le forze di sorridere rassicurante e sale le scale. Il bagno si trova sul ballatoio a metà scalinata. Entra. E’ un macello. Da dietro il bidè parte un getto di acqua che allaga la parete.  Prova a fermarlo con la mano e finisce che si inzuppa il torace. Allora bestemmia tra i denti e cerca un asciugamano, poi scende a chiudere la valvola generale dell’acqua. Fradicio e gelato, torna nel salottino.

- Dev’essere stato il freddo, zietta. Domani ti chiamo un idraulico. Te lo faccio venire in mattinata.

- Non voglio nessun idraulico.

- Ma come?

- Non voglio spendere soldi inutilmente. Riparalo tu.

- Ma, dovrei cambiare il tubo. Non ho gli attrezzi.

- Riparalo tu.

- Ma…

- Ehh, è proprio vero che sono sola a questo mondo. Non ho più nessuno che mi aiuta…

- Ok, zietta. Non è un problema. Domani mattina passo io con gli attrezzi e metto tutto a posto.

- A che ora sarai qui, Enzo?

- Alle nove?

- Prima, prima.

- Alle otto?

- Prima, prima.

- Alle sette?

- Alle sette, Enzo caro, allora ti aspetto, eh?

L’ultima immagine della cara zietta è lei che sale le scale, un gradino alla volta, immersa nei suoi scialli che puzzano di naftalina.

Enzo chiude la porta e torna fuori al gelo. Il giorno dopo avrebbe la mattinata libera dall’Outlet. Potrebbe dormirsela alla grossa, magari passare da Federica per una colazione e un pompino. Invece gli tocca tornarsene fin lì. Per un bidè. Per soddisfare la reliquia. Per gli 800 mila. Un senso di rabbia e frustrazione lo avvolge come un mantello. Lo scuote come un salice nella tormenta. Impotenza e frustrazione. Incapacità di cambiare la propria sorte. Acqua alla gola. Che sale. Che sale. Che sale.

Prima di salire in macchina, Enzo si guarda intorno. La morte aspetta nel buio. Non quella fisica, fatta di sangue, dolore e carni straziate, ma un’altra morte, una sensazione piuttosto, un fantasma che ognuno si porta dentro dal primo respiro. Una morte che non attacca la carne, ma lo spirito. La stessa morte che si è già presa la vecchia e i suoi genitori. E che, prima o poi, si prenderà anche lui.

(Vittorio)

Nel cuore della notte. Il mio momento di gloria dopo una giornata di merda. Prima mia madre con le sue paranoie. Poi all’una si aggiungono gli altri due. Mio padre e mia sorella. Altri stronzi a completare il quadretto. Anche mio padre insegna. Latino nei Licei. Mia sorella fa l’apprendistato da un avvocato settantenne e si sente già realizzata. Non mi stupirebbe scoprire che si fa pure chiavare dal bavoso. Mio padre. Mia madre. Mia sorella. Insieme si danno forza. Uniti contro il fallito. Basta un servizio al tg sulla crisi. Qualche bella statistica negativa e la faccia di Brunetta che dice “Mandateli tutti al mercato della frutta a caricare e scaricare!”. E mia madre parte per la tangente. Riattacca con la storia dell’ambulante che non funziona, della laurea che non è servita a un beneamato cazzo. Io che cado nel tranello, mi inalbero, bestemmio, magari butto a terra un piatto e mio padre che allora si alza, finge di dover difendere la moglie, mi molla un ceffone da farmi girare la testa sul collo e io finisco a terra da mollaccione. Potessi gli spaccherei il culo, ma non posso. Mio padre è un toro coi baffi e le mani grosse come le ruote di un tir. Allora si aggiunge mia sorella che se la ride. E’ l’unica dotata di un briciolo di autoironia e la cosa non è positiva in una troia. Dopo il pranzo-tipo, mi aspetta un bel pomeriggio da relegato in camera. Vorrei uscire, ma gli unici amici che mi rimangono sono sempre presi tra lavoro e fidanzate. Roberto con la morosa pallosa. Enzo a fare l’automa all’Outlet. Non conosco altri. Tutti quelli della mia età a quest’ora sono sposati, divorziati, morti.

Certi pomeriggi, quando ho i soldi per la benzina, prendo la macchina e corro al parco di Albano. Solo, nel silenzio dei boschi. Immagino un olocausto che se li porti via tutti. Chiuso in camera, dicevo. Leggo qualcosa, svogliato. Controllo continuamente il cellulare per vedere se mi hanno cercato. Oppure scendo in uno dei due garage adibito a magazzino e fingo di sistemare dei fumetti, catalogare dei libri. Lo scopo è far passare il tempo. Arrivare a sera. Superare una cena silenziosissima. La quiete dopo la tempesta. Ognuno con gli occhi sul proprio piatto. Ci si ignora. Il filmetto serale dei miei, mano nella mano con la sorellina venerata seduta ai loro piedi. Io in cucina sopporto un Salvo Sottile o una Sciarelli qualunque.

Poi la liberazione. Il trio di bastardi si ritira. Hanno il sonno difficile. Così è abitudine stordirsi con  gocce di Alprazolam. Garanzia di coma profondo. Io aspetto che faccia effetto su di loro, poi scendo nel magazzino, tolgo pile di Martin Mystere da una cassa oblunga di legno, quasi una bara, la apro, scosto la paglia sintetica e la prendo. La porto di sopra in cucina. La metto a sedere sulla poltrona. La vesto. Ogni sera le cambio i vestiti. Roba finissima che compro apposta per lei da Intimissimi. Per lei. La mia Rachele. Visino quadrato. Nasino a patata. Occhi grandi, da fumetto giapponese, marroni. La fronte spaziosa. La bocca piccola, a cuore. E un’espressione da bimba puttana. Piccolina, torace minuto, gambe affusolate. Piedini morbidi come panetti di burro roseo. E dei seni sproporzionati su quel corpicino. Una quarta abbondante, impreziosita da capezzoli grandi come biscotti fatti in casa. E’ la mia bimba. Il mio amore perfetto. La corteggio. Le parlo. La spoglio. La adagio. Le metto il pene tra le labbra ed è qualcosa di mistico. Poi la stringo, la cavalco e penso a come cazzo ho fatto a ridurmi ad amare un manichino polimaterico vuoto, senz’anima. Ma lei è l’unica a colmare il buco che mi porto dentro. E’ una real doll bellissima e perfetta. Meglio di una donna vera. Non la devo portare al cinema, farle dei regali. Non devo sorbirmi le sue menate. Con lei non ho paura di fare fiasco. Rachele è meglio di qualunque donna vera che abbia mai conosciuto in trentotto  anni. Il suo endoscheletro in cloruro di polivinile. Il suo corpo di silicone. La sua faccia. I capelli. Il colore degli occhi. La sua anima vuota e disperata. Come la mia.

(2 – continua)

Daniele Vacchino & Davide Rosso