LA CACCIATRICE DI SPIRITI 02: IL SICARIO

Era il 1472 quando Ambrogio Vismara tentò di uccidere il vecchio condottiero. Si introdusse nel suo castello e riesco a immaginarlo, nascosto in qualche meandro della camera da letto, mentre aspetta il momento propizio per sferrare il suo attacco. Osservava dall’ombra il letto del vegliardo, ascoltandone il respiro e sussultando ad ogni colpo di tosse. Quando decise che quel momento era quello giusto, silenziosamente si avvicinò al letto:alzò il pugnale al di sopra della sua vittima e…

… il suo corpo venne smembrato e alcuni pezzi vennero appesi sulla rocca di Romano, altri sul castello di Malpaga, dove Ambrogio aveva tentato di fare il colpaccio.

Evidentemente non aveva pensato che Bartolomeo Colleoni, che aveva già circa settantacinque anni e doveva essere scampato a chissà quanti attentati, poteva avere il sonno leggero e un’arma nascosta sotto le coperte.

Era decisamente una delle mie serate, quando lo rividi. Avevo deciso di andare a mangiare il gelato con delle amiche nonostante il mio solito mal di testa. Faceva caldo e si prospettava un temporale tremendo, tipico delle serate estive. Stavamo gironzolando lungo il viale alberato chiacchierando del più e del meno quando, con la coda dell’occhio, vidi vicino alla rocca un uomo con l’abito a brandelli e un lungo taglio nel collo. Appesi alle mura della rocca brandelli di un corpo umano, che gocciolavano un pochino. Mi girai, ma il fantasma non c’era più e capii che dovevo tornare con la mia scatoletta. La serata si concluse presto: tutte avevano da fare il giorno dopo così tornammo a casa.

Come al solito mi lasciarono nel mio vialetto e io, come al solito, feci finta di entrare in casa. A dir la verità entrai per recuperare la scatola magica e dissi alla mamma che uscivo di nuovo: caccia grossa, le dissi e le raccontai brevemente in che condizioni avevo visto lo spirito. Mi raccomandò di stare attenta, il fantasma poteva essere aggressivo o arrabbiato. Era già successo di trovare fantasmi leggermente incavolati, per usare un eufemismo. Una volta mio padre doveva catturare un fante, che doveva essere arrivato in Lombardia in seguito a qualche invasione, pensavamo a quella dei Francesi nel ’500, che era morto da codardo: era scappato dal nemico che lo rincorreva con una spada che sventolava nell’aria. Il fante si era molto spaventato e, forse davvero per vigliaccheria o forse perché era un ragazzo di neanche vent’anni, era fuggito, ma la sua fuga mica l’aveva salvato dall’ira del nemico. Mio padre lo ritrovò che imbrattava di sangue tutte le case che erano state costruite là dove era stato ucciso e non ne voleva proprio sapere di farsi catturare. Non che gli altri facessero i salti di gioia, sia chiaro, ma erano più propensi ad andare nell’aldilà quando li si diceva che si era lì per aiutarli. Beh, quel giovane fante a mio padre fece i peggiori dispetti. Non voleva il suo aiuto e voleva vendicarsi del suo nemico, benché fosse morto da quattro secoli. Era come se volesse andare a cercare i discendenti di quello che l’aveva ammazzato. Alla fine papà ce la fece, lo catturò dopo una settimana di caccia e rimase a controllare la scatola d’avorio dentro la pieve dove era stata nascosta. A me non è mai successo ma pare che alle volte, se lo spirito è troppo scalmanato, tenti di scappare: la scatola lievita nell’aria e si sentono urla demoniache, ovviamente quando la chiesa è chiusa. Papà la controllò per i tre giorni necessari al passaggio e tutto si risolse.

Io speravo che il fantasma non mi imbrattasse di sangue. Quello mi avrebbe innervosito. Parcheggiai la macchina e iniziai ad avvicinarmi alla rocca, tenendo ben stretta la scatola dentro lo zaino. Soffiava una forte brezza fresca che trasportava i suoi rantoli. Doveva soffrire parecchio. Me lo trovai seduto su una panchina, si era accorto che prima l’avevo visto. Quando gli fui davanti mi sorrise, se così si può dire, tentando di tamponare con uno straccetto il sangue che usciva dalla ferita sul collo. Sembrava che se ci fosse stata una folata di vento più forte delle solite lo avrebbe distrutto in mille pezzi. << Lo sai chi sono?>> mi chiese. << Sono Ambrogio Vismara, sicario del duca di Milano. Sono stato ucciso da Bartolomeo Colleoni e lui è stato poco clemente anche con mio figlio, sicario anche lui. Avevamo solo il compito di farlo fuori, quel vecchio, ma il duca Galeazzo non mi aveva detto certo che il condottiero era scampato ad altri tre o quattro attentati e che dormiva con un pugnale sotto il cuscino. Dovresti sapere com’è andata a finire , è una conclusione particolare che so che viene raccontata ai turisti. Siamo stati tagliati a pezzi e i nostri resti sono stati appesi su questa rocca e su quella di Malpaga, come monito per chiunque volesse tentare di fargli di nuovo la festa. Di mio figlio non so cosa sia successo, io sono imprigionato qui, esattamente nella prigione dove sono stato tenuto rinchiuso finché non sono stato massacrato. E tu chi sei? E soprattutto, come fai a vedermi? E perché non hai paura di me?>>.

Compito di un buon cacciatore di spiriti è dire al fantasma qual è la missione che si deve svolgere, il tutto ovviamente evitando di fare amicizia. Alla fine anche loro sono stati esseri umani e fra loro possono anche esserci personaggi dalle intenzioni non troppo oneste. Se si entra in confidenza con lo spirito questo può approfittarsene e addirittura può impossessarsi del corpo del cacciatore. Quest’ultima cosa non è affatto bella. In famiglia c’è stato solo un episodio di cacciatore infestato dallo spirito e l’unica soluzione è stato rinchiuderlo finché lo spirito non se n’è andato per fatti suoi.

<<Ti vedo perché ho il compito di catturarti ed aiutarti ad andare nell’aldilà, non ho paura di te perché la tua ferita non è originale: ho visto uno spirito che aveva la testa rovesciata completamente e quello un pochino mi ha turbato. Dovrai collaborare se vuoi redimere la tua anima.>>. Sorrise di nuovo: i suoi denti erano tutti spezzati. << Chi ti ha detto che la mia anima può salvarsi? E se volessi rimanere qui? Questo stato di non morte potrebbe anche piacermi. Mi piace sentire che si parla di me indicando la mia prigione, mi piace gironzolare sotto i portici quando la città dorme, anche se ho dei dolori atroci ovunque. E poi ricorda: sono stato un sicario. Pensi che l’unica persona che abbia tentato di uccidere sia solo quel bastardo? Non puoi essere così ingenua.>>.

Questo Vismara proprio non mi piaceva, era uno sbruffone.

<< Sai, c’è stato un periodo della mia vita che mi bastava veramente un niente per ammazzare come un maiale chiunque mi passasse accanto. Era semplice: se uno, anche per sbaglio, osava guardarmi come a me non piaceva o urtarmi al mercato, si trovava con un pugnale conficcato tra le vertebre. E questi sono episodi da niente. Ho torturato e bollito un poveraccio che aveva tentato di uccidere il duca all’uscita dalla messa. Ricordo di essere andato a prenderlo di notte, tirato giù dalla branda, portato nelle segrete del castello e là mi sono divertito. Sono sempre stato un sadico e questo a Galeazzo piaceva: lo era quanto me.>>.

Cominciavo a temere per la mia incolumità: oltre ad essere antipatico, avevo paura che potesse impossessarsi di me. E in quella circostanza ci sarebbero stati proprio dei problemi e non avrei potuto compiere la missione. << Vedrai che ti redimerai, devi pentirti però dei crimini commessi.>> gli dissi. Il suo viso non rivelò nessuna espressione. Semplicemente sembrava che non gli importasse e in un attimo svanì. Cavolo, non ci voleva. Non avevo mica voglia di cercarlo per tutta Romano. Aspettai per qualche minuto ma lui non si fece più vedere, così tornai a casa.

<<Questo spirito deve essere un osso duro.>> sospirai guidando verso casa. Mi aveva anche un po’ indispettito con la sua presunzione e sicurezza di sé. Alla fine di cosa doveva essere sicuro? Era solo uno spirito sicuramente infelice, come qualsiasi entità che non si trova al suo posto. Il fatto che forse non si sarebbe fatto più vedere alla rocca non mi preoccupava di certo. Solitamente gli spiriti si fanno trovare laddove sono morti, campi di battaglia o castelli, come in questo caso. Più raramente, ma può succedere, si possono far vedere dove sono vissuti. Caspita non avevo mica voglia di andare fino al Castello  Sforzesco! Rientrai in casa cercando di fare più piano possibile, probabilmente erano già tutti a letto. Invece mi trovai mio padre in cucina con una tazza di caffè che mi aspettava. Doveva essere stato informato dalla mamma e doveva essere curioso. << Allora?>> mi sedetti accanto a lui e gli raccontai per filo e per segno quanto era accaduto quella sera. Ascoltò senza fiatare, poi mi disse che sarebbe venuto con me per aiutarmi. Questo fantasma era un osso duro ed io avevo ancora troppa poca esperienza. Non si trattava di un arciere sfigato, era un sicario, un sadico senza dio per giunta. Mi suggerì di lasciar perdere questa storia e che intanto lui avrebbe scritto ai Vegliardi dell’Ultima Notte per avere qualche consiglio sul da farsi. Avevo sentito qualche volta nominare i Vegliardi, non sapevo niente di loro. Papà non aveva mai avuto il tempo di star lì a spiegarmi bene chi fossero, benché mi avessero invitato a qualcuna delle loro riunioni. Ricordo ancora bene il giorno in cui arrivò l’invito a casa: dentro una bustina nera di velluto, ovviamente non affrancata e nemmeno firmata, una sorta di cartiglio su cui era riportato il nostro stemma. Neanche mi sognavo che fosse mio e quando lo mostrai ai miei genitori loro dissero solamente che i Vegliardi volevano conoscermi. E lì fu tutto. Questa sembrava un’ottima occasione per chiedergli dei Vegliardi.

<< Sai Isadora, non siamo solo noi ad essere gravati da questo compito. Ci sono altre casate, antiche quanto la nostra se non di più, che cacciano gli spiriti. E c’è anche una struttura gerarchica che tiene sotto controllo la segretezza del nostro compito e che suddivide il territorio in aree di competenza. Ad esempio se tu già ti recassi a Milano non potresti fare niente: dovresti contattare il cacciatore di quella zona e al massimo collaborare con lui. Al di sopra di voi cacciatori ci siamo noi cavalieri, ex cacciatori, che manteniamo i rapporti con i Vegliardi. Scriviamo delle relazioni mensili che loro pretendono e leggono, per avere un’idea di quanto accade nei territori. Sono eletti da noi cavalieri e il loro “governo” dura per tre anni. Ogni famiglia di cacciatori ha un suo parente fra i Vegliardi  e al di sopra di loro non c’è un ulteriore capo. E’ una sorta di democrazia. E adesso devo scrivere a loro per avere delucidazioni. Io non potrei aiutarti nella tua caccia, ma ho intenzione di chiedere il permesso per supportarti. Ora tu vai a letto e fatti una bella dormita.>>.

Il giorno dopo mi misi a fare delle ricerche sull’identità di Ambrogio Vismara: non è che si trovasse molto su internet oltre al racconto della sua tragica fine. Inoltre la sfortuna continuò con un imprevisto bel tempo: nessun temporale, nessun mal di testa, nessuna visione. Mi ero quasi dimenticata di tutta la questione quando papà mi telefonò, nel bel mezzo di una lezione di Statistica. Mi intimava di tornare a casa nel più breve tempo possibile e non gli importava che fossi a lezione. Riattaccò senza ulteriori spiegazioni e a me non rimase altro che ubbidire. Quando arrivai a casa mi accolse nel vialetto, a bracci alzate, con in mano una lettera. Erano i Vegliardi che avevano risposto e dovevamo partire, avevano chiesto di conoscermi. Non mi ero mai presentata alle loro riunioni ma evidentemente non si erano offesi. Preparai lo zaino e già quella sera partimmo. Papà era scontato che venisse con me: non ci stava più nella pelle, ero stata invitata senza motivo. Non c’erano riunioni dei cacciatori e il fatto che non avevo mai nemmeno considerato gli inviti dei Vegliardi poteva averli infastiditi e praticamente portarli a prendere la decisione di isolarmi. Invece no. Si erano premurati di invitare la cacciatrice più giovane, affinché si potesse parlare della situazione. La serata era veramente bella: stelle ovunque, una luna piena meravigliosa. Chiesi a mio padre dove si incontravano i Vegliardi ma lui non rispose, poi capii che ci stavamo recando a Bergamo. Lungo la strada bassa che da Ghisalba porta all’imbocco della provinciale per le valli orobiche si costeggia il castello di Malpaga. La piccola frazione non deve aver mutato quello che era l’aspetto del complesso, che nelle giornate d’inverno in cui si vedono le montagne, sembra maestoso. Quella sera era però un po’ cupo e passandoci accanto vidi appesi dei resti umani. Neanche il tempo di sbraitare che nel mio finestrino riconobbi distintamente la sagoma del sicario, che venne percepita addirittura da mio padre. Ci fermammo, ero davvero spaventata. Poi c’era una cosa che non riuscivo a capire: non avevo mal di testa, come era stato possibile per me vedere il fantasma?

I Vegliardi ci aspettavano al castello di San Vigilio, in Città Alta. Erano in dodici, coperti da un mantello fermato da uno spillone con inciso il loro stemma di famiglia. Ci attendevano con delle torce in mano e, senza troppi convenevoli, ci fecero entrare in un salone all’interno del castello. Nel cupo di quella sala si trovava un tavolo tondo, con inciso in ogni spicchio lo stemma nobiliare di ogni Vegliardo: benché fossero eletti la carica era ereditaria all’interno di ogni famiglia.

Mio padre mi presentò ai Vegliardi, ma era evidente che loro volevano che raccontassi io quanto era accaduto. Raccontai del sicario, dei suoi brandelli sulla rocca e del fatto molto strano che mi era appena capitato. Tutti sapevano della particolarità dei Capofreccia e mi sembravano un po’ turbati. L’incontrò terminò in breve tempo: a mio padre venne dato il compito di essere il mio supervisore in questa faccenda come aveva chiesto. Mentre stavamo andando via, un Vegliardo si avvicinò a me e mi prese per un braccio. Capii che faceva parte della nostra famiglia perché aveva Idropante sullo spillone e tatuato sul polso. Quest’ultimo particolare attirò la mia attenzione: mi pareva di conoscere qualcun altro con quel disegno in quel posto…Si tolse il cappuccio e rimasi allibita. Era il nonno! Non so perché ma avevo pensato che a ricoprire quel ruolo fra i Vegliardi sarebbe stato qualche prozio…non so, magari uno di quelli che vive a Lodi. Proprio il nonno non l’avrei mai detto. Semplicemente non ricordavo di suoi atteggiamenti strani o di sue assenze lunghe. Evidentemente avevano lavorato tutti nel migliore dei modi per nascondere la questione. Lo guardai con occhi spaventati, mi ci volle qualche minuto per riprendermi dalla scoperta.

<< Dunque hai visto lo spirito senza avere mal di testa?>> mi chiese il nonno mentre si preparava per tornare alla sua vita “civile”. << Sì>> risposi.<< Non riesco a capire perché però, è la prima volta che capita.>>

<< Isa, da quanto tempo hai il tuo dono?>>

<< Da quasi un anno, finora ho catturato trecento spiriti. Perché nonno, credi che il sicario valga più punti di uno spiritello sfigato?>>.

Cercavo di scherzare, ma sia il nonno sia il papà  non mi sembrava che apprezzassero le mie battute. Anzi si lanciavano delle occhiate che valevano più di mille parole e continuarono anche durante il viaggio di ritorno a casa. Saliti in macchina si decise di fare la strada dell’andata e il nonno cominciò a raccontare di una storiella, una sorta di profezia, che era stata pronunciata per la prima volta da quella strega che aveva predetto a Idropante il compito della sua discendenza. La profezia non poteva essere trascritta sul libro di famiglia: era come se nessuno dei cacciatori che si erano succeduti sapesse, benché i Vegliardi e i cavalieri ne fossero a conoscenza. Con loro non si poteva mantenere nessun segreto. La strega aveva profetizzato che nella discendenza di Idropante ci sarebbe stato un cacciatore che sarebbe stato in grado di scovare gli spiriti anche in condizioni di benessere, senza temporali e relativi mal di testa. Altro elemento non da trascurare era il fatto che il cacciatore che avesse dimostrato di avere questa facoltà non l’avrebbe di certo persa col tempo e anzi avrebbe posseduto poteri soprannaturali.

Trasalii, ma davvero. Rimasi anche peggio di quando papà mi raccontò tutto facendo iniziare questa avventura. Avevo paura a chiedere loro se pensavano che la storiella parlasse di me. Papà mi disse di non preoccuparmi e di fare un bel respiro, che potevo essere io ma anche no, alla fine un solo episodio non dimostrava niente…proprio in quel momento mi misi ad urlare, la macchina inchiodò e nella strada nei pressi del castello di Malpaga vidi chiaramente Ambrogio Vismara, con un lungo coltellaccio in mano, cavalcare un destriero di scheletri. Scesi dall’auto davvero furente e corsi verso di lui, che aspettava al centro della strada con il solito sorrisetto beffardo sul volto. Mentre mi avvicinavo lo spirito svanì e ricomparve dietro di me, tenendomi per le braccia e puntandomi il coltellaccio alla gola. Mi sibilava nell’orecchio cose orrende, di come aveva violentato e massacrato delle suore durante una delle spedizioni del suo signore,o di come aveva lasciato gelare un neonato nella neve solo per vedere in quanto tempo moriva. La sua voce cambiava, si faceva via via sempre più terrificante, mentre le piaghe del suo corpo sanguinolente mi stavano sporcando sempre di più. La pressione del suo coltello sul mio collo si faceva sempre più forte quando, ravvivata da una forza che proveniva non so da quale delle mie viscere, presi il sicario per un braccio e glielo staccai. Lui gridava ma io mi sentivo più forte di lui ed evidentemente lo ero, sentivo che quella forza mi rendeva più grande dello spirito e anche la mia voce diventava profonda e tonante, irriconoscibile. Lo distrussi, letteralmente. Gli staccai pezzo per pezzo tutte le membra che il Colleoni si era premurato di dividere cinquecento anni prima. Non avevo la scatola magica, ma la mia lingua srotolò una sequenza di parole che non sarei in grado di ripetere e il sicario bruciò, polverizzandosi in meno di un minuto.

Mi accorsi che papà e il nonno avevano assistito alla mia trasformazione, mi guardavano con occhi sgranati e subito mi vennero a raccogliere, ero devastata e sdraiata per terra. Mi ero resa conto che ero io la cacciatrice della profezia, lo dissi piangendomi e grattandomi l’avambraccio mi accorsi di un segno che prima non c’era, lo stemma di famiglia , un pochino più grande di quello del nonno e del papà.

Roberta Lilliu