SCAMBIO DI TESTE 06

6.

Azela abitava a Guanabacoa, nel quartiere del Roble, vicino all’albergo dei senza tetto. Poco lontano, nei campi incolti disseminati di banani e palme, si intravedeva anche la casa di Armando. L’abitazione di Azela era una piccola costruzione coloniale, la stanza più grande fungeva da soggiorno e cucina, poi c’erano due piccole camere con un bagno comunicante.

Quando Barbara bussò la accolsero le grida dei bambini, che incuriositi abbandonarono i loro giochi per occuparsi di lei.

“Tu chi sei?” chiese la più grande, che si chiamava Sara ed era una bella bambina di dodici anni.

“È un’amica della mamma” si affrettò a rispondere Azela.

“Non hai tempo per annoiarti” aggiunse Barbara con un sorriso, mentre indicava i bambini che le si erano radunati attorno.

Erano cinque e Azela li aveva partoriti al ritmo di uno ogni due anni in quei dodici anni di matrimonio con Fernando. Erano proprio una bella coppia, non era facile incontrare persone unite e felici tra la gente più povera. All’Avana, ma anche nel resto di Cuba, i matrimoni duravano poco, ci si sposava e ci si lasciava con leggerezza, segno d’una decadenza morale che il regime non era riuscito ad arginare, ma soprattutto colpa d’una situazione economica insostenibile. Nessuno era in grado di assicurare tranquillità, neppure lavorando.

Fernando si arrangiava. Era un uomo in gamba, sgobbava dalla mattina alla sera per dar da mangiare ai bambini e vestirli meglio che poteva. Il lavoro alla manifattura di tabacco rendeva poco, come ogni lavoro di Stato, ma era un posto che molti gli invidiavano. Ogni giorno poteva rubare qualche pezzo di prodotto e assemblare confezioni di puri cubani da rivendere al mercato nero, soprattutto ai turisti. Ed era con quello che vivevano, non certo grazie ai cento pesos dello stipendio. Azela lavorava come infermiera, poteva pranzare alla mensa dell’ospedale, di nascosto trafugava qualcosa e lo portava ai bambini. Soprattutto la carne di pollo che in ospedale non mancava mai. I genitori di entrambi si occupavano dei piccoli mentre loro lavoravano.

Fernando si presentò e fece accomodare a tavola Barbara.

“Questa è casa tua” disse.

Azela servì un vassoio di riso bianco accompagnato da una scodella di fagioli neri, del pollo fritto, banane mature e un avocado tagliato a fettine. Bevvero birra Bucanero e Cristal che Fernando aveva comprato alla caffetteria.

Mangiarono e conversarono mentre i bambini correvano per la stanza indisturbati. Sarebbe stato pretendere troppo vederli seduti. La più grande si occupava di controllare gli altri, soprattutto Miguel che aveva soltanto due anni ed era il più imprevedibile. I discorsi a tavola erano quelli di sempre, cominciavano con le notizie della televisione per finire con la considerazione che tutto era cambiato in pochi anni e che era difficile continuare a vivere a Cuba. Parole che mettevano sempre tutti d’accordo.

“Se non hai dollari non vivi in questo paese” disse Fernando.

“Purtroppo è così” rispose Barbara.

“E la televisione parla per mesi del rapimento di Elian, come se fosse il nostro unico problema” aggiunse Azela.

“È un problema loro, invece. Soltanto loro” disse Barbara.

“A proposito, conoscete la storiella di Elian?” sorrise Fernando.

E si mise a raccontare la barzelletta che circolava all’Avana in quel periodo, quella del poliziotto che vent’anni dopo la restituzione di Elian da parte degli Stati Uniti incontra un ragazzo sul Malecón che imbraccia un cartello con sopra scritto: “Rimandate Elian al suo paese!”. Il poliziotto si avvicina e dice: “Guarda che Elian lo hanno restituito vent’anni fa! Ma tu chi sei?”. “Io sono Elian!” risponde il giovane.

Risero di gusto. Barbara in realtà già la sapeva e aveva anche poca voglia di ridere. Ma la storiella servì ad alleggerire la tensione. Quella brutta storia la stava distruggendo.  Fernando era stato comunista, come Barbara, come la maggior parte dei cubani. Adesso però non poteva mangiare con le parole che Fidel recitava alle sei della sera. Lui lo ascoltava sempre, meno convinto d’un tempo, però lo ascoltava. E nel frattempo si arrangiava rubando allo Stato. Faceva cose che un tempo non avrebbe neppure immaginato.

“Basta con la politica” interruppe Azela “non siamo qui per questo. Se dai retta a Fernando non la smette più. Sempre incollato a quella televisione quando c’è il notiziario e poi commenta, protesta, come se davvero si potesse fare qualcosa. Noi siamo solo povera gente  e ci dobbiamo arrangiare.”

“Forse hai ragione” aggiunse il marito “è solo tempo perso. Però non voglio credere che possa finire tutto così.”

Terminata la cena Fernando tirò fuori la bottiglia di rum.

“Non è del migliore, però ammazza i pensieri e mette allegria.”

Barbara ne prese appena un goccio per bagnarsi le labbra dopo il caffè. Fernando invece era un buon bevitore e anche Azela non disprezzava un bicchiere dopo cenato.

Nella stanza un riproduttore diffondeva musica di Willy Chirino, una vecchia canzone che ripeteva in continuazione Aunque se a Miami me muera mi alma se irá volando para mi esquina habanera.

“È la nostra canzone” disse Azela “anche se non si potrebbe ascoltare da quando Willy Chirino si è messo a criticare Fidel.”

I bambini continuavano a far confusione rincorrendosi e interrompendo le note della canzone. Fernando prese per mano Azela e la invitò a ballare quella salsa romantica che ricordava i primi giorni del loro amore. Accadeva sempre quando la sentivano, non potevano farne a meno. E Willy Chirino continuava a cantare un ritmo inconfondibile per le stanze di quella piccola casa di Guanabacoa. Barbara un po’ li invidiava, Azela e Fernando erano una coppia d’altri tempi, come non se ne trovavano più. E quella canzone rammentava pure a lei qualcosa, ma non era un ricordo piacevole. Enrique era a Miami e non aveva nessuna nostalgia né delle strade avanere, né della sua famiglia. La canzone terminò e Azela sedette accanto a  lei.

“Non essere triste” disse.

“Non è facile, Azela. Quello che per voi è un bel ricordo per me è un rimpianto.”

“Ti capisco. E stasera ti ho invitata qui proprio perché tu non abbia altri rimpianti.”

“Roberto è tutto quello che mi resta.”

Fernando si era allontanato e stava trangugiando un bicchiere alla volta la sua bottiglia di rum bianco da poco prezzo. Lo reggeva bene e non c’era pericolo che si ubriacasse. Le due donne continuavano a parlare, religione e santería non erano cose che interessavano a Fernando, lui assecondava la moglie, spesso l’accompagnava da Armando, ma non credeva. Azela invece era convinta che Armando avesse poteri soprannaturali. Ne aveva avuto la prova più di una volta. Raccontò a Barbara tutte le sue esperienze positive. Pensava di convincerla e di fugare in lei gli ultimi dubbi. Armando rappresentava l’unica via di scampo. Non serviva insistere con strade razionali e scientifiche. In quella storia non c’era niente che la ragione avrebbe potuto spiegare.

“Per farti capire quali sono i poteri di Armando ti racconterò la storia di mio zio Santos”.

“Sono curiosa di ascoltarla”.

“Mio zio Santos abita ancora all’Avana Vecchia e ha ritrovato la salute il giorno che conobbe Armando. Soffriva di un cancro allo stomaco che la scienza medica aveva classificato incurabile. Attendeva soltanto di morire. Armando lo curò con un filtro a base di erbe. Santos, appena trangugiato l’infuso, vomitò una palla di vermi, si fece bianco in volto e perse i sensi”.

Azela raccontava infervorata. Era presente alla cerimonia, la ricordava nei minimi particolari, come se tutto fosse accaduto pochi giorni prima. Era stata lei a convincere lo zio ad andare dal santero.

“Quando mio zio rinvenne Armando raccolse la palla di vermi che era uscita dal suo stomaco e ci disse di conservarla per una settimana in una bottiglia di vetro in una soluzione di formalina. Dopo un giorno i vermi si erano trasformati in un ammasso di pelo nero. Armando concluse che qualcuno aveva fatto bere a mio zio una bevanda che conteneva i germi del male. Lui aveva sconfitto quel cancro e aveva riportato la palla di vermi allo stato naturale”.

Barbara aveva ascoltato con attenzione.

“È una storia incredibile” disse.

“Però è vera, come sono vere altre che lo riguardano”.

E raccontò di una bambina di Guanabacoa che non doveva nascere perché l’amante di suo padre aveva fatto un amarre contro sua madre. La bambina era destinata a morire durante il parto. Armando fece un unguento composto di polvere d’ossa umane, sangue di galli sgozzati e polvere da sparo. La puerpera ogni sera doveva cospargersi il ventre con quell’unguento. Il santero non aveva tolto l’amarre perché era impossibile, ma ideò una protezione che avrebbe permesso il parto. E infatti la bambina nacque, superando mille ostacoli. Perfino il cordone ombelicale che si era avvolto per quattro giri attorno al suo piccolo collo. I medici la salvarono dal soffocamento.

“Però chi garantisce che l’amarre ci fosse davvero?  Poteva essere tutta un’invenzione…” interloquì Barbara.

“Sei proprio incredula…”

E allora le raccontò del ragazzo malato di AIDS che improvvisamente si ritrovò guarito. Era una storia che conosceva tutta Guanabacoa.

“Il ragazzo si chiamava  Ernesto ed era figlio del panettiere. Tutti sapevano che aveva quella brutta malattia e che era omosessuale. Armando fece uno scambio di teste quella volta, proprio la stessa cosa che deve fare con te”.

“E come fece?”.

“Scambiò la vita di un altro con quella del ragazzo. Ma non chiedermi di più perché queste sono cose segrete, proibite. È magia nera, sono cose per iniziati. E tu non credi, a quel che ho capito”.

Barbara tacque e restò a lungo pensierosa. Certo che le parole di Azela erano convincenti. Quell’uomo pareva aver compiuto guarigioni miracolose e sembrava meritare tutta la sua fiducia.

Fu Azela a interrompere la spirale dei pensieri.

“Devi fare quello che ti ha detto Armando” concluse.

“È una cosa orribile, dovrei dare il nome di un altro in cambio di mio figlio. Dovrei diventare un’assassina.”

“Tu devi solo indicare un nome…”

“E poi, funzionerà?”

“Se avrai fede sì.”

“E il nome? Quello è il problema più grosso. Sacrificare un innocente… Non me la sento.”

“Chi ha detto che devi sacrificare un innocente? Siamo qui proprio per questo.”

“Spiegati meglio.”

Azela assunse un’espressione severa e la guardò fissa negli occhi, aveva l’aria di chi sta per rivelare un importante segreto.

“Devi sapere che nel reparto malattie infettive pochi giorni fa è stato ricoverato un ragazzo di Guanabacoa che io conosco molto bene. Si chiama Manolo Higueras Fuente.”

“E con questo?”

“Fammi parlare e capirai. Noi stiamo cercando un giovane dell’età di tuo figlio e lui fa al caso nostro. Nei suoi confronti non devi avere scrupoli perché quel ragazzo non ha niente a che vedere con l’aggettivo innocente. Ha violentato la sorellastra un mese fa e i genitori non l’hanno denunciato solo perché lui minaccia di ucciderli. È il guapo del quartiere, violento, prepotente, si fa chiamare Ciuci e tutti hanno terrore di lui. Molesta le ragazze, picchia la madre, il padre non riesce a tenerlo a freno. Adesso soffre di un’infezione intestinale abbastanza grave, ma guarirà purtroppo. Lui è la persona ideale da sacrificare. Nessuno lo rimpiangerà.”

“È pur sempre un omicidio e io ne sarei responsabile.”

“Preferisci veder morire Roberto? Io ho i dati che servono per il rito e posso accompagnarti da Armando, se deciderai di farlo. Il resto dipende da te.”

Proprio come le aveva detto Armando. “Dipende da te”. Quelle parole suonavano come un ultimatum, un terribile prendere o lasciare difficile da accettare ma anche impossibile da rinunciare per una madre disperata. Il volto e le parole di padre Antonio apparvero e scomparvero in un istante nei suoi pensieri. Le raccomandazioni a fare attenzione, quel “spero che tu non debba pentirti di niente”, che le aveva detto sulla porta della chiesa, vicino al confessionale. Non l’aveva assolta, non avrebbe potuto farlo e lei non aveva chiesto tanto. Aveva implorato di essere compresa, come una madre disperata alle prese con un estremo tentativo per riavere suo figlio. E adesso sapeva che l’avrebbe fatto. Sarebbe andata da Armando con quel nome e lo avrebbe scambiato con la vita del suo ragazzo. Azela le offriva una possibilità che non poteva rifiutare e se solo un maledetto rito santero poteva ridarle Roberto lei era pronta anche a fare quello.

Padre Antonio non poteva capire. Lui non aveva mai avuto figli.

Aveva sempre vissuto in mezzo ai pescatori di Alamar.

E lei non poteva permettere che Roberto la lasciasse sola davanti a  quel mare che le ricordava Enrique e la fuga d’una notte lontana. “Mamma, non ti lascerò mai” le aveva detto un giorno.

Adesso era lei che non doveva abbandonarlo.

Per nessun motivo.

(6 – continua)

Gordiano Lupi