SCAMBIO DI TESTE 01

1.

Barbara si chiedeva perché fosse accaduto proprio a lei.

Da più di un mese Roberto era ricoverato all’ex Ospedale Militare della Villa Panamericana e non dava segni di vita. Coma, avevano detto i medici. Coma profondo. E nessuno ne comprendeva il motivo. Lo tenevano a letto alimentandolo con delle flebo.

Barbara provava a darsi coraggio, cercava di convincersi che si trattava di uno strano virus che prima o poi avrebbe abbandonato il corpo del figlio. Le restava soltanto quel ragazzo di vent’anni e non voleva perderlo. Per lui avrebbe lottato fino alla morte.

Barbara era rimasta sola con Roberto quando lui aveva cinque anni. Fu allora che il marito scappò a Miami a bordo d’una zattera. Lei era stata membro del partito e aveva frequentato la redazione del Granma, sognando di diventare giornalista, aveva creduto in quella rivoluzione e nelle idee socialiste. Era vero che con il tempo la passione si era stemperata. Era vero che le cose erano cambiate. Ma lei amava lo stesso la sua terra. E non sarebbe fuggita.

Enrique non era comunista, non lo era mai stato. Discutevano spesso e lui parlava di fuggire.

“Ho degli amici che stanno organizzando delle zattere” disse una sera.

“Per andare dove?” rispose Barbara spaventata.

“A Miami, verso la libertà”.

“La mia libertà è qui” disse Barbara indicando le palme e il mare vicino “non certo tra quei maledetti yanquis”.

“Pensa al futuro di nostro figlio”.

“Il futuro di nostro figlio è nella sua terra”.

Lui si infervorava.

“In una terra che non garantisce niente? In una terra dove non puoi vedere neppure il frutto del tuo lavoro?”.

“Io credo in questa terra” concludeva lei.

Finivano sempre per litigare. Barbara non era più così convinta delle idee comuniste. Però non vedeva neppure Miami come il Paradiso. A Cuba c’era da soffrire, certo. Ma era la terra dove era nata. Qui non si sarebbe mai sentita straniera. Enrique aveva capito che non l’avrebbe mai convinta e che se voleva scappare doveva farlo da solo.

Fu così che un giorno prese la decisione.

“Io me ne vado, Barbara. Non ne posso più di stare qui a morire di fame. Voglio provare a fare le cose in cui credo”.

“E tu pensi che dove andrai lo potrai fare?”

“Ci proverò, almeno”

Non si dissero altro. Lui se ne andò la notte stessa da Mariel con un gruppo di amici. Barbara pianse a lungo e il bambino, che la vedeva triste, le tirava la gonna e chiedeva:

“Cosa c’è mamma? Perché piangi?”

Lei scuoteva la testa.

“Non è niente, Roberto. Non sto piangendo. È soltanto la tua immaginazione”.

Però Roberto insisteva e faceva domande.

“Papà dov’è?” chiedeva spesso.
A quelle parole, che restavano senza risposta, Barbara tornava a piangere e lacrime dure le rigavano il volto. Enrique se n’era andato e non sarebbe più tornato. Le restava soltanto quel figlio come un ricordo vivente, perché aveva la solita espressione di sfida e gli occhi neri, profondi, i capelli arricciati e il sorriso aperto che illuminava un viso da creolo.

“Da Miami potrò pensare anche a voi. Forse un giorno capirete che ho preso la decisione giusta e mi raggiungerete” le aveva Enrique detto prima di partire.

E infatti appena arrivato a Miami chiamò al telefono del vicino Ramon.

“È stato un viaggio terribile ma ce l’abbiamo fatta” disse.

“E adesso, cosa conti di fare?”

“Mi troverò un lavoro… vi manderò del denaro”.

Dopo qualche tempo arrivò un accredito in banca di cento dollari, un mese dopo un altro di cinquanta dollari. Enrique si fece sentire altre due o tre volte. Tra lui e Barbara non restavano più molte cose in comune.

“Tu non verrai mai qui con me, Barbara” disse una sera.

“Lo sai che la mia vita è qui”.

“Io sono un uomo libero e devo pensare al mio futuro”.

Fu l’ultima volta che si sentirono. Barbara restò sola ad Alamar a crescere il bambino. Completamente sola, perché il padre e la madre erano morti da anni, prima che si sposasse. Le restavano lontane cugine e qualche zio all’Avana, nei quartieri centrali della città vecchia. Roberto divenne il suo unico scopo di vita.

Barbara insegnava alla scuola primaria di Alamar, dove iscrisse anche il figlio, così lo poteva portare con sé in classe e accudire mentre era in servizio. Non se la sentiva di lasciare il lavoro, anche se guadagnava pochi pesos facevano comodo. E poi lavorare la faceva star bene, le piaceva il contatto con i ragazzi, amava sentirsi utile a qualcuno. Poi cominciò a trafficare, vendendo in città quello che comprava dai contadini. Tutto questo si chiamava mercato nero ed era una cosa controrivoluzionaria che la legge puniva con la galera. Doveva farlo, però. La vita di suo figlio era più importante della Rivoluzione. Fu allora che cominciò a frequentare la parrocchia della Caridad di Alamar più delle riunioni del partito. Raccomandava la sua anima e quella del figlio a un Dio che aveva sempre rinnegato e che adesso cercava come conforto a una vita sempre più dura.

Quando Roberto compì dieci anni Fidel proclamò il periodo speciale. Barbara ricordava bene quel discorso, perché andò in Piazza della Rivoluzione a sentirlo. Furono parole dure e  preoccupate quelle del lider maximo. Dovremo stringere la cintura e rimboccare le maniche, disse. Parevano soltanto parole, uno dei tanti lunghi discorsi di sempre. Barbara non avrebbe mai immaginato cosa sarebbe accaduto dopo. Era caduto un muro a Berlino, l’Unione Sovietica e un mondo diviso in due blocchi non esistevano più. Cuba rimaneva sola a lottare, baluardo finale d’un tempo che passava travolgendo vecchi ideali. E i cubani non ne avevano colpa ma avrebbero subito le conseguenze, senza sapere che fare. La ricetta era soltanto soffrire, fare a meno del superfluo. Questo era il senso delle parole di Fidel.

Barbara ricordava di aver passato anni senza assaggiare il sapore della carne, la tessera del razionamento permetteva di comprare sempre una minore quantità di alimenti. Alla bodega gli scaffali erano quasi sempre inesorabilmente vuoti. La stampa e la televisione incolpavano di tutto l’embargo statunitense, un terribile e spietato bloqueo che affamava un popolo stremato. Cominciarono a sparire gatti e  cani per le strade della città e c’era chi diceva che il fegato venduto al mercato nero proveniva dai cadaveri dell’obitorio. Furono anni duri. Barbara ricordava di averli affrontati con coraggio e di aver patito la fame perché a Roberto non mancasse niente. Quando era libera dalla scuola andava alla fabbrica di plastica di Guanabacoa vicino al Cementerio Viejo e qui attendeva che i capi azienda cessassero il servizio. Barbara era d’accordo con alcuni operai, comprava da loro a  poco prezzo bicchieri, piatti, secchi, bottiglie di plastica che poi rivendeva a prezzo maggiorato ai ristoranti di Alamar. Oppure acquistava scatole di biscotti nella fabbrica sulla via Blanca, poco prima della Rotonda di Guanabacoa. Uno scatolone di biscotti glielo davano per cinquanta pesos e lei poteva rivenderli a più del doppio. Poi c’era il Ristorante Pio Pio di Guanabacoa che serviva pollo fritto e patate a ogni ora del giorno ai pochi cubani che se lo potevano permettere. Barbara era diventata amica dell’amministratore e del capo dispensa che le fornivano ogni giorno venti libbre di riso e un buon quantitativo di fagioli per cento pesos. Il riso e i fagioli si vendevano bene un po’ ovunque, poi quel che avanzava lo utilizzavano per mangiare.

Per fortuna Roberto cresceva in fretta, a quindici anni già portava a casa denaro e si dava da fare. Vendeva pepeghé ai turisti, pastiglie energetiche di colore giallo che curano il colesterolo ma producono anche invidiabili effetti sull’erezione maschile. Trafficava con puri cubani comprati di contrabbando dagli operai della fabbrica di sigari vicino al Capitolio. Procurava ragazze ai turisti. Era minorenne e rischiava poco, la polizia non lo perquisiva e lo lasciavano passare. Lei era contenta di quel figlio che nel fisico ricordava suo padre ma aveva un carattere completamente diverso.

“Mamma, io non ti lascerò mai e con me sarai sempre sicura” le aveva detto il giorno del suo diciottesimo compleanno, davanti a un dolce che avevano acquistato con grandi sacrifici.

Barbara era nata davanti al mare di Alamar, in faccia all’oceano.

Aveva sempre visto le barche dei pescatori spingersi oltre l’orizzonte. Aveva sempre saputo fare a meno del superfluo. Non si vive per avere, diceva Fidel. Frase che per lei era sempre stata regola di vita. Ancora adesso. Anche se tante convinzioni le aveva perdute, purtroppo. Meglio, gliele avevano fatte perdere. Un modo per vivere lo avrebbe sempre inventato. I cubani inventano da sempre, le diceva suo padre da piccola, anche quando c’era Batista inventavano. La Rivoluzione avrebbe dovuto cambiare le cose e lo Stato avrebbe provveduto a tutto. Non era più vero da tanto tempo, purtroppo.

Roberto cresceva ed era sempre più di aiuto. Per lui le strade dell’Avana divennero presto un luogo di facili occasioni. Era un bel ragazzo creolo dalle spalle larghe e dagli occhi scuri. Piaceva. Incontrava vecchie straniere, le accompagnava a ballare, faceva da guida per i luoghi storici della capitale, finiva a letto con loro. Aveva capito da tempo che vivere significava lottare. E lui lottava, con il sorriso sulle labbra, come sua madre gli aveva insegnato a fare, perché la vita era quella e andava vissuta fino in fondo.

E adesso Barbara come poteva rassegnarsi a vedere quel figlio di vent’anni giacere immobile in un letto d’ospedale? Come poteva assistere inerme alla sua morte lenta mentre lo alimentavano con una flebo in vena?

Era successo tutto all’improvviso, poco più di un mese prima.

Roberto era rientrato da una delle frequenti scorribande notturne all’Avana con un gruppo di amici. Era tornato a casa mentre si accendevano le prime luci del mattino e lei aveva intuito subito che c’era qualcosa di strano. Barbara non poteva dormire quando lui non c’era. Aveva l’abitudine di attenderlo davanti al televisore, seduta sul vecchio divano del soggiorno, oppure usciva sulla veranda e guardava il mare. Miami non si vedeva da Alamar, forse se ne sarebbe potuto scorgere il rilievo da Mariel nei giorni di bel tempo. Spingeva lo sguardo tra le onde e si lasciava accarezzare da un refolo di vento che spostava gli alti rami di palma e mormorava: “Maledetti yanquis, non mi verrà mai la voglia di venire a morire tra le vostre braccia”.  Era come un’amara preghiera quella che Barbara recitava di fronte alla luna. Una preghiera che serviva a scoraggiare paure e scacciare tristezze. Un’abitudine che non veniva mai meno da quando era rimasta sola.

Quando Roberto fece rientro era troppo strano. Sembrava drogato, aveva gli occhi spenti, persi nel vuoto. Il giorno dopo, quando andò in camera sua per svegliarlo, lo trovò immobile, con le pupille spalancate a fissare il soffitto. Un flebile raggio di sole illuminava la stanza, penetrando dalle imposte socchiuse. Lei cominciò a scuoterlo e a gridare, chiamò a lungo aiuto, pianse. Poi arrivò un’ambulanza, qualcuno dei vicini aveva telefonato in ospedale. Lo portarono via. Da quel giorno Roberto non si era più alzato dal letto e l’ex Ospedale Militare della Villa Panamericana era diventato la sua casa. Barbara gli stava accanto e attendeva, sperava, pregava, pensava al passato. Aveva ancora una fede a sostenerla, quella fede in Dio che non l’avrebbe mai abbandonata. Un Dio che aveva cominciato a colmare lunghe ore di solitudine e che le aveva dato speranza. La religione non era più vietata da quando il papa era venuto all’Avana e non aveva niente da temere a frequentare la chiesa. Raccomandare quel figlio a Dio era l’unica cosa che le restava, perché adesso pensava che solo un miracolo avrebbe potuto restituirglielo.

Barbara andava ogni mattina all’Ospedale della Villa, facendo l’autostop o prendendo la guagua che transitava sotto casa un paio di volte al giorno. La Villa Panamericana era a pochi chilometri da Alamar, ma senza un’auto era un vero e proprio viaggio. Il vicino di casa Ramon possedeva una vecchia Lada sovietica, un rudere degli anni Settanta, qualche volta la accompagnava, ma non poteva chiedere troppo. La benzina costava e lei non aveva denaro per pagarla. La guagua restava il mezzo più economico, con un paio di pesos andava e tornava, ma doveva alzarsi di buon mattino e rientrare a notte fonda. E poi a bordo c’era sempre una puzza di sudore, una folla di gente che si accalcava e spingeva da ogni parte. Era un viaggio tremendo, durava trenta minuti, tra fermate intermedie e soste non previste, ma sembravano un’eternità. Trovava quasi sempre un uomo che le si avvicinava per palparle il sedere, perché nonostante i quarant’anni era una bella donna, aveva fianchi larghi e gambe lunghe. Doveva far finta di niente e spostarsi, ma poco distante incontrava un altro che faceva lo stesso. Posti a sedere non se ne liberavano quasi mai, la guagua era il mezzo utilizzato da chi andava a lavorare alla raffineria di petrolio di Guanabacoa, ma anche d chi accompagnava i bambini a  scuola o andava al mercato per fare la spesa. L’autostop era un’altra possibilità, ma anche qui era facile trovare chi allungava le mani e ci provava, oppure chiedeva d’essere pagato e lei non poteva. Era cambiata la sua Cuba, pensava spesso, nessuno faceva più niente per niente. Era cambiata molto. In peggio, purtroppo.

In ogni caso Barbara riusciva ogni giorno a varcare il cancello dell’ex Ospedale Militare della Villa Panamericana. Sapeva che Roberto non poteva vederla e non comprendeva niente di quel che succedeva, ma non aveva importanza. Averlo vicino era l’unica cosa che contava. E quando era accanto a lui pregava. Pensava a come l’avrebbe giudicata Enrique, lei comunista convinta ridotta a pregare un Dio del cielo, un essere immateriale. Da ragazzina le avevano presentato sempre la religione come l’oppio del popolo, ma tanto tempo era passato, troppe cose erano cambiate. Adesso sentiva di aver bisogno di quell’oppio, ne aveva una necessità vitale. Pregare era la sola cosa che le dava speranza, il solo modo per sentire che non tutto era perduto. Suo figlio sarebbe potuto tornare in vita, se solo il Signore avesse voluto.

Ogni giorno lo stesso rito. L’infermiera, una nera di nome Azela, l’accoglieva e la faceva sedere. Barbara accarezzava la fronte di Roberto, ma lui non rispondeva al contatto, restava immobile, con quegli occhi chiusi che le davano tanta tristezza. Poi cominciava a pregare, mentre l’infermiera trafficava con tubi e flebo, cambiava lenzuola e panni sporchi, rassettava la stanza. Erano diventate amiche e spesso parlavano. Azela aveva una famiglia numerosa a Guanabacoa. Un marito, che lavorava alla manifattura dei sigari e si dava da fare rubando un po’ di tabacco da rivendere al mercato nero, e cinque figli. Non era vecchia Azela, aveva appena trent’anni, ma si era sposata presto e adesso aveva una bella famiglia da mantenere. Per fortuna che c’erano genitori e suoceri a darle una mano. Barbara un po’ la invidiava, perché lei adesso era completamente sola. Pensava con tristezza alla perduta allegria di Roberto. Lui aveva molti amici e sapeva farsi voler bene, si gettava in tutte le avventure e trovava sempre il modo di guadagnarci qualcosa. Aveva tante ragazzine intorno, ma diceva che l’unica donna della sua vita era la mamma.

“Non voglio legami con nessuno” diceva “le donne servono soltanto per scopare”.

Barbara lo rimproverava quando parlava così.

“Una famiglia te la dovrai pur fare, prima o poi”.

“La mia famiglia sei tu” concludeva.

Roberto aveva avuto un esempio di famiglia che si era sfasciata davanti ai suoi occhi, un padre che si era dileguato nel momento del bisogno. E non era il solo, purtroppo. Intorno a lui vedeva soltanto esempi simili. Unioni che si rompevano. Madri che restavano sole a crescere figli. Non poteva desiderare quello che non aveva avuto. Almeno non ancora. E poi era così giovane.

Le donne che preferiva erano le straniere.

“Almeno hanno dollari e sono generose” diceva.

Non aveva importanza se il più delle volte avevano quasi il doppio della sua età. Sapeva di piacere, sapeva farle godere e poi gli piaceva quel ruolo. L’amore non c’entrava niente in simili rapporti. Ed era giusto che fosse così.

A Barbara adesso si stringeva il cuore nel vedere quel ragazzo ridotto a un vegetale, lo guardava affranta e pregava per lui, in lacrime. Non poteva finire tutto così. Non doveva abbandonare la speranza. Dio era con loro, pensava.

Fu Azela, l’infermiera che accudiva il ragazzo, a dirle una cosa che le riportò fiducia. Erano parole che in una situazione diversa non sarebbe stata neppure ad ascoltare, ma per suo figlio sentiva che al punto in cui erano le cose avrebbe fatto di tutto, anche seguire i consigli di chi indicava soluzioni soprannaturali e strade alternative. La scienza stava alzando le mani e suo figlio era immobile in un letto. Non c’era un medico in grado di dirle che cosa avrebbe dovuto fare. Per questo quel giorno dette ascolto alle parole di Azela. Non vedeva proprio altra soluzione a portata di mano.

(1 – continua)

Gordiano Lupi