LA CACCIATRICE DI SPIRITI 01

Avere mal di testa non è una cosa bella. Ti costringe a stare a casa, al buio, immersa nel più assoluto silenzio, con la speranza che quel mostriciattolo che si muove tra il cuoio capelluto e calotta cranica sparisca e anche in breve tempo. Invece no: lui rimane, eccome se rimane, si muove dalla nuca alla tempia e dalla tempia al setto nasale. Una vera e propria tortura. Io sto sempre così, specialmente se fuori piove o fa freddo, quasi vomito dal mal di testa. Le prime volte che andavo dal mio medico e gli parlavo dei miei disturbi lui non mi diceva altro che questo: è emicrania, dovresti trasferirti in riva al mare per non stare male. Chissà cosa direbbe adesso se sapesse quali sono le conseguenze delle mie emicranie.

Io mi chiamo Isadora Capofreccia e ho ventun’anni, studio economia e ogni tanto aiuto i miei genitori nell’azienda agricola familiare. Come hobby caccio i fantasmi. Sì sì, avete ben inteso, caccio i fantasmi, per di più cavalieri. Abito in una zona della bassa Lombardia dove nel corso dei secoli di battaglie ce ne sono state tante e ancora adesso, nelle serate estive, nel più profondo silenzio, si possono sentire rumori di spade, nitriti e urla disumane. Il mio compito è quello di inseguirli, dovunque essi siano, e imprigionarli in una scatola di madreperla: sono spiriti, ci stanno tutti là dentro. La scatola di madreperla è della mia famiglia da generazioni, posso dire che la caccia agli spiriti sia un po’ lo sport maggiormente praticato in casa.

Non è che mi sono svegliata una mattina dicendo: dai che vado alla ricerca di fantasmi. No no, non è per niente andata così. E’ successo che un giorno, pedalando sotto un gran temporale, divorata dal mal di testa, mi sono imbattuta in un cavaliere con l’armatura ammaccata, sanguinante e con gli occhi fuori dalle orbite. Ricordo di aver frenato la bici e di essere rimasta là impalata a bocca aperta. Cosa ci faceva un cavaliere scampato alla morte sulla strada di casa mia? E poi…scampato alla morte? Neanche il tempo di farsi troppe domande che lui si era già avviato, rantolando, verso un albero nel bel mezzo del campo accanto alla strada. Continuavo a fissarlo con insistenza, cominciando a domandarmi se stavo sognando e in un momento il cavaliere svanì. Esatto: svanito nel nulla. Ero sempre più allibita. Ricordo di essere entrata in casa, di essermi seduta tutta fradicia sul divano e di aver raccontato ai miei quanto avevo visto. I miei si erano guardati e mia madre mi aveva detto di farmi la doccia.

Se i miei sapessero che sto incidendo queste cose su un nastro magnetico oggi, 25 maggio 2006 alle ore 3 del mattino, non sarebbero per niente contenti. Diciamo che nel nostro “settore” la discrezione è d’obbligo. Immaginate se i vicini sapessero? Se lo sapessero in paese? Non oso immaginare la serie di pettegolezzi che si creerebbe. Divertente! Devo nascondere questo nastro.

Quel pomeriggio del cavaliere allucinato la mamma mi liquidò con un fatti una doccia. Almeno, questo era quello che avevo pensato io. Invece no. Appena scesa erano seduti sul divano lei e il papà, con un libro e una bella scatola sul tavolino. Mi dissero di sedermi e attaccarono con la storia della famiglia. Io pensavo al solito predicozzo su zii, cugini e nonni e invece mi sono sbagliata, e di grosso anche.

<< Vedi quel quadro, Isadora? Guardalo bene.>> disse mio padre. Era un quadro che si trova ancora adesso sopra la porta d’ingresso. Rappresenta un cavaliere, con un’armatura bianchissima e una penna rossa sull’elmo. E’ sul suo destriero, immobilizzato in una posizione eroica. << E’ un cavaliere.>> dissi. << E’ il capostipite della nostra famiglia.>> continuò papà. Si alzò dal divano  e andò a staccare il quadro dal muro, me lo porse davanti intimandomi di osservarlo con più attenzione. Lo accontentai, anche se mi stavo già domandando se mi stesse prendendo in giro. Controllai il cavaliere, la sua espressione che si intravedeva dall’elsa alzata, il cavallo che sembrava imbizzarrito e il paesaggio in cui erano stati immortalati. Mio padre accese una candela e la avvicinò alla tela. In un angolo del quadro si trovava un simbolo, sembrava quasi uno stemma nobiliare: uno scudo al cui interno era rappresentata la testa di un uomo, di profilo, con una freccia conficcata nella nuca e la punta che veniva fuori dalla fronte. Va bene. Guardai papà e vidi che si sganciava la camicia. C’è da dire una cosa su mio padre: avete presente i signori che al mare hanno sempre il cappellino di paglia in testa? Quelli che sono sempre in bermuda color beige e canotta bianca, che serve a mettere in evidenza la loro carnagione lattea? Ecco, mio papà è così. Occhi blu, capelli rossicci e tendenza alle scottature. Io non l’ho mai visto a petto nudo. Sollevò anche la maglia che teneva sotto la camicia e mi fece vedere che in mezzo al suo petto c’era un tatuaggio, che rappresentava lo stemma che c’era sulla tela sopra la porta di casa. Ricordo che la fissai per qualche minuto, poi feci per alzarmi, ma mi bloccarono, addirittura in due. Mi rimisero a sedere, la mamma si può dire che mi placcò sul divano. Papà continuò.

<< Non ti agitare. Ora ti spiego giusto un paio di cose. Apparteniamo ad una casata antica, che perde la sua origine nel tempo. Il primo antenato di cui si sa qualcosa è quello del ritratto, Idropante, che era cavaliere di Carlo Magno ed è venuto qui quando il suo re scese nel Nord Italia per cacciare il re Desiderio. Idropante fu ferito in battaglia: una freccia lo colpì alla nuca e il colpo fu così forte e tremendo che la punta gli saltò fuori dalla fronte. Ti domanderai perché ne sappiamo qualcosa, cioè, non sarebbe dovuto sopravvivere al ferimento. E invece no, pare che lui stesso, urlando, si sia strappato la freccia da solo. Dopo mesi di convalescenza, in cui i dottori di Carlo Magno si domandavano se sarebbe sopravvissuto e lo curavano con degli intrugli misteriosi, Idropante poteva dirsi guarito, a parte delle emicranie pazzesche e proprio in occasione di queste ultime si rese conto che qualcosa per lui era cambiato. Cavalcando la sera per quelli che erano stati campi di battaglia, durante forti temporali, pare che gli piacesse far correre il suo cavallo in queste circostanze, lui si trovava davanti dei cavalieri, magari senza un braccio o senza una gamba, con espressione derelitta. Provava a chiamarli, senza successo, poi si rese conto che evidentemente c’era qualcosa che non andava. Ne parlò al suo confessore, che sospettò che Idropante fosse stato preso dal demonio. Per questo lo sottopose ad esorcismo. Ma le sue visioni continuavano e allora il nostro antenato si recò dalla strega di corte, che gli disse che Dio gli aveva salvato la vita il giorno della battaglia affinché lui aiutasse le anime dei caduti ad arrivare in paradiso, qualora non ci fossero riuscite da sole. Poi le prese questa scatola di madreperla e fece un incantesimo: l’aveva trasformata in una sorta di prigione e quando un’anima veniva presa la scatola doveva essere nascosta dentro una pieve per tre giorni, di modo che l’anima volasse in paradiso. La strega disse anche che il compito sarebbe stato portato avanti dai suoi discendenti: intorno ai vent’anni tutti avrebbero sofferto di forti emicranie e questo era il segno del passaggio del compito da generazione a generazione.>>.

Non mi sembrava reale niente. Evidentemente si trattava di uno scherzo organizzato molto bene, nonostante non fosse Carnevale. Purtroppo la mamma mi teneva ancora saldamente nel suo abbraccio, proprio non ne voleva sapere di lasciarmi scappare. Allora chiesi apertamente a mio padre se aveva finito con questo scherzo. Gli dissi che apprezzavo molto la cura con cui avevano fatto tutto e anche l’idea del tatuaggio fatto con i trasferelli era carina. Lui sorrise e mi mise sotto il naso il libro. Lo aprii e lo sfogliai: doveva essere antico. Mi disse di leggerlo.

Lo lessi tutta notte. Va bene lo scherzo, ma che sbattimento elaborarlo! Doveva esserci qualcosa di vero in tutto questo. Il racconto di Idropante era stato trascritto, in latino, e a seguire vi erano altri racconti di catture di fantasmi. Tale Rholando Capofreccia pare che avesse catturato diecimila spiriti dopo la Battaglia di Agnadello. Ah beh. Ero comunque perplessa. Ricordo di aver acceso un po’ il computer, giocato un po’ su internet e quando decisi di spegnere tutto per andare a dormire e mi girai verso il letto, ci trovai seduto sopra Idropante: lo riconobbi dall’armatura smagliante e per la penna rossa sull’elmo, tenuto in mano. Sulla sua fronte era rimasto il segno agghiacciante della ferita. Facevo fatica a non fissarla! Non mi disse niente, semplicemente mi fissava ed ad un certo punto mi pizzicò il braccio, in modo da farmi rendere conto che non sognavo. Poi mi indicò la finestra e nel campo sotto casa vidi una sorta di accampamento di truppe. Idropante svanì e lasciò il libro aperto: nelle ultime pagine c’era l’elenco dei membri della famiglia a cui era passato il compito di cacciare i fantasmi. L’ultimo nome era il mio.

Da quando è successo tutto questo è passato quasi un anno: segno sul calendario della cucina quanti riesco a catturarne a sera, è il lato divertente di questo compito. Ormai sono arrivata quasi a quota cinquecento, più di uno al giorno. E’ una buona media secondo me, la registro anche nel libro di famiglia. Voglio essere la migliore acchiappaspiriti esistita fino ad ora. Sicuramente vi domandate come siano le mie serate: niente di che, esco come al solito con gli amici solo che, al posto di entrare in casa quando mi riaccompagnano, io prendo la bici e vago per le campagne con la mia scatoletta magica.

Se avete voglia la prossima volta potrei raccontarvi di quando ho aiutato lo spirito del Sicario…

Roberta Lilliu