LA MANTIDE 13

L’alba era fredda e vetrosa. Dalle colline scendevano corsi d’aria irregolari, che, non appena raggiungevano la pianura, si aprivano con foga, sprofondando nei campi attorno. La gelata notturna rendeva le foglie sonore al passaggio delle correnti ventose: pareva che sospesi nel paese si trovassero a varia altezza invisibili sonagli.

Il commissario Domenico Tregalli camminava ormai da diverse ore per le vie del paese. Poteva dire di aver percorso almeno un paio di volte tutte le vie, anche quelle più remote che si gettano nella campagna o si interrompono nel bosco. Lo aveva tirato giù dal letto un’insonnia persistente, ma anche un pensiero che lo seguiva come un’ombra.

La verità era che, per quanto riguardava le indagini, stava completamente a piedi. Non aveva uno straccio di pista, un indizio, un’idea qualsiasi. Gli “amici” della scientifica e gli esperti criminologi non gli avevano di certo dato una mano: per loro si trattava di cercare una persona qualunque, che in certi momenti specifici della propria vita si trasformava in un boia seriale che officia un rito di sangue. Qualcosa di un po’ troppo complesso, per i modesti mezzi intellettivi del nostro ispettore.

Tregalli, meno psicologico, più pragmatico, se volete, aveva finito con l’affezionarsi ad un’idea bislacca, che in un modo strampalato avrebbe dovuto trascinarlo ad una verità. Credeva, infatti, che un individuo del genere, all’interno di una comunità così ristretta com’era Albiceleste, non poteva camuffarsi del tutto. Partendo da questo presupposto, aveva cogitato che le persone tendono ad esprimere una grossa fetta della propria personalità nella propria abitazione, nel modo in cui la curano, la arredano, la addobbano, sia all’interno, che all’esterno. Per cui, seguendo questo semplice ma astruso ragionamento, si era messo per strada, provando a figurarsi quale poteva essere l’abitazione che tradiva la presenza del mostro.

Nella sua ricerca, Tregalli si era imbattuto in abitazioni spoglie, tetre cascine, villette regolari al limite della paranoia, condominietti dagli stretti cunicoli e catapecchie trascurate. Ma l’unica casa che attirò l’attenzione era una casupola sul confine del bosco, chiusa e abbandonata, che sui muri aveva dei disegni infantili eseguiti con il gesso e sulle finestre che davano alle cantine degli strani segni a forma di stella, che ricordavano la forma disegnata ai piedi di Marta Nercurini.

L’ispettore si era avvicinato con circospezione all’ingresso della casa e aveva spiato il campanello. Sotto uno strato di polvere vi era scritto “INCAGLIA”.

In alto, alla finestra, vi era la sagoma del viso di una persona. Sul subito, Domenico indietreggiò. Poi, però, si rese conto che si trattava soltanto di una maschera, che era stata incollata al vetro.

- Che diavoleria!

Il telefono dell’ispettore prese a squillare.

- All’alba mi chiamano, quegli indaffarati – disse tra sé. Poi, però, conscio di essere di turno, rispose all’apparecchio.

Era cosa della massima urgenza, gli comunicava l’appuntato di turno: doveva recarsi sulla riva del fiume, dalla parte del Parco Naturale.

 

Un sole liquido stentava a salire in cielo, quella mattina, e l’aria era una pioggia di aghi che non ne voleva sapere di cedere al calore. Il fiume non avrebbe certo voluto assistere allo scempio che gli uomini delle forze dell’ordine dovevano, invece, per lavoro, osservare, scandagliare, analizzare, memorizzare. Su uno degli ultimi alberi che, immobili, stanziavano sul greto del fiume, era stata crocifissa una persona. Soltanto quando vi si ritrovò a pochi passi, Tregalli riconobbe il volto: si trattava di Natalino Andenti.

L’assassino l’aveva stretto al tronco con una fune e poi aveva inscenato la crocifissione, inchiodandone i polsi ai rami. Il viso era lacerato da tagli stretti e brevi, mentre il corpo, nudo, era scevro di cicatrici. Come avesse fatto a portarlo fin là, se davvero l’assassino ce lo aveva portato, era un mistero.

Tregalli bestemmiò forte, dentro di sé. Qualcuno gli voleva male. Era come se quegli omicidi avessero come bersaglio lui, l’ispettore incaricato di svolgere le indagini. L’assassino l’aveva preso di mira, pensava, gli voleva far passare giornate d’inferno, rovinargli la pace dei sensi, obbligarlo a lavorare come un forsennato, per ricavarci magari soltanto qualche lavata di capo, quando il tempo fosse trascorso e il colpevole non fosse stato trovato (come puntualmente avveniva nella sua carriera).

- E’ la stessa mano – gli si avvicinò il solito beccamorto della scientifica.

- Lo vedo da me – pensò Domenico, sovreccitato.

Gli venne passato il reperto principale.

- La collana d’oro con il medaglione – disse Domenico senza doverlo guardare.

- Esattamente.

- E il dipinto della mantide religiosa.

- Proprio.

- Manca la stella satanica, però.

- No, faccia il giro, dottore.

Sulla schiena dell’ex giovane erede era stata disegnata col sangue una stella molto simile a quella trovata sotto il corpo di Marta Nercurini.

- Pare lo abbia prima stordito, poi soffocato.

- Mmm.

Altre bestemmie nella testa dell’ispettore.

Il criminologo della volta scorsa gli si avvicinò con modi professionali:

- Dottore, è chiaro il movente psichiatrico. Ci troviamo di fronte a un nuovo maniaco seriale, con tendenze paranoiche e una propensione per l’occulto e il satanico.

Tregalli guardò la cima della pianta, indifferente.

- Lei lo sa che Marta Nercurini e questo ragazzo erano lontani parenti?

L’esperto in criminologia guardò l’ispettore, spiazzato.

- E lo sa che erano i due soli eredi delle fortune di Serena Merini?

Attorno al nostro uomo si creò il silenzio. I cervelloni, spiazzati, si posizionarono vicino a lui come camerieri in attesa di ordini, sbalorditi.

- Allora smettete di dire certe cazzate che avete letto soltanto sui libri – disse Tregalli guardando dall’altra parte del fiume – e fatemi avere tutto riguardo alla morte di Serena Merini.

Gli specialisti del crimine si guardarono, raggelati.

- Forse, – aggiunse con tono arido – nemmeno lei è morta in maniera tranquilla.

L’aria fredda tagliava le bocche degli uomini della polizia. A capo chino e con le borse sotto gli occhi, ripresero alacremente il lavoro.

- Ancora una cosa. – aggiunse Domenico – Il manufatto con il medaglione della mantide religiosa… Dovrebbe venire da fuori, ma forse abbiamo più fortuna: cerchiamo tra gli orafi e gli artigiani della zona.

 

Sarebbe bastato allargare il punto di visuale, mandare gli uomini a perlustrare la zona del Parco Naturale. Gente fidata, gente in gamba ci voleva. Non i soliti addormentati delle forze dell’ordine. Lungo il fiume si sarebbero visti degli strani segni a forma di stella, su pietre accatastate le une sulle altre, a mo’ di falò.

Per non parlare del cuore del bosco.

Dentro il ventre umido e schiumoso, dove il buio la fa da padrone, si apriva il SUO regno. Un regno fatto di silenzio vegetale e morte violenta, dove il ricordo del tempo passato (un tempo pieno di ingiurie, offese, percosse) si estendeva unico oblungo e compatto, eterno, nella sua rabbia viola.

E poi corpi.

Corpi di giovani ragazze rubate, di giovani ragazze seppellite vive sotto la terra.

Il regno dell’orco.

(13 – continua)

Daniele Vacchino