LA MANTIDE 12

Chiuse il retrobottega con circospezione e si curò che il laboratorio attiguo fosse ben sprangato. Scivolò nell’automobile con passo pensante, da uomo carico di preoccupazioni, e facendo attenzione a non essere notato da anima viva si incamminò verso i confini del paese. Seguendo le istruzioni impartitegli, arrestò l’automobile sullo spiazzo dell’ingresso secondario del Parco Naturale, quando già la luce era scivolata dietro le colline.

Luigi Vanotti attese impaziente nell’abitacolo del veicolo per oltre venti minuti, poi, quando l’orologio sul polso segnava le 18.30, raccolse la borsa in pelle che teneva sul sedile del passeggero e si incamminò per il sentiero del bosco.

Alle sue spalle, da dietro una zona in cui gli alberi oscuravano la luce e formavano un umido cono d’ombra, uscì una sagoma scura.

Vanotti camminava e sentiva la testa pesante: era una sensazione che lo accompagnava dal giorno in cui aveva udito quella voce al telefono. Doveva essere per via dello stress, che si era fatto via via più acuto, quando aveva visto le immagini della morte di Marta Nercurini sul giornale. Aveva riconosciuto subito quel medaglione, incastonato nella montatura in oro e collegato alla lunga catena d’oro anch’essa.

- Il mio lavoro, usato come rituale di morte – si ripeteva la notte, prima di cercare di prendere sonno.

Ma non ci riusciva e aveva finito per assumere potenti sonniferi, per tirare avanti, per sopravvivere anche a quell’avversità. E intanto, il male al capo non lo abbandonava. A pensarci bene, il dolore era sempre accompagnato da un senso di ottundimento, che mai aveva provato in vita sua.

- E se l’assassino mi avesse drogato? – pensò mentre il bosco si stringeva attorno.

Forse, la voce al telefono che aveva cominciato a sfruttare il suo operato, seppur su forte ricompensa, aveva trovato la maniera di somministrargli una qualche droga, magari diluita, magari prolungata nel tempo…

Luigi sollevò lo sguardo e vide un albero affumicato, sulla sinistra della radura. Poteva sentire il fiume tossire non molto distante, prima di aprirsi nel tratto di vallata e prendere spazio. Ispezionò la radura, tastando con lo sguardo le piante che la contornavano. D’un tratto si arrestò: davanti a sé vi era un pioppo sdrucito, sotto il quale era stata disegnata, sulla terra, una stella.

- E’ il posto – si disse. E una vampata di caldo salì dal ventre.

Restò in ascolto, in attesa di vedere qualcuno, o di sentire ancora la voce, quella voce gracchiante e metallica, che gli gelava i polmoni.

Ma non successe niente. Il buio si stava spandendo tra le piante come inchiostro e perfino le cornacchie abbandonavano i rami.

D’un tratto, da dietro l’albero segnato, sentì un tonfo. Appoggiandosi con cautela alla pianta, scrutò tra le sterpaglie. Dietro la pianta cominciava la macchia nera del bosco e la stretta morsa dei rami cancellava alla vista la possibilità di distinguere le forme. Quando i suoi occhi si abituarono al buio, vide che dietro la pianta, già nel ventre dell’oscurità, si trovava una valigetta. Doveva essere la ricompensa per il suo lavoro! Tentennò: era come se il bosco creasse il quel punto un ingresso, che separava una parte del mondo, quello delle luci, dall’altro, dominato da qualcosa di ancestrale, senza regole. Addentrarsi in quello spazio voleva dire rischiare. Con il sudore sulla fronte, l’orafo lasciò scivolare goffamente a terra la borsa in pelle, contenente il suo manufatto, e scivolò nell’ombra.

Un tramonto rosso avvolgeva l’intero paese, ma presto cedette alla nebbia marrone, che saliva dal fiume, e in un cupo abbraccio soffocava il giorno morente. Da una via secondaria era partita una processione di vecchie, che penzolanti percorrevano la periferia del paese, nascoste nei loro scialli. Bisbigliavano tra loro e dove le strade si incrociavano si facevano il segno della croce, con le bocche ricurve come maschere di gesso. Era qualcosa di cerimonioso e quotidiano al medesimo tempo, come si trattasse di un rito che quelle mummie dovevano a tutti i costi compiere. Dalla nebbia saliva il loro chiacchiericcio come una lontana preghiera e, mentre la campana suonava la mezzanotte, gli ultimi usci si chiudevano, a quel suono.

- O vecchia che giaci nel loculo di pietra, – la voce di una donna davanti a un cero, in un tugurio buio, si spargeva per le vie e raggiungeva le orecchie delle vecchie in cammino – nobile donna sconfitta dalla morte, destati con il tuo volto di plastica.

Come poteva quella voce così remota giungere alle donne per strada? Eppure era così: nel silenzio di velluto che azzerava il paese, la voce della donna orante era un mantra che come miele scendeva nella gola delle vecchie comari.

- Ti chiamano regina, ti chiamano morte, ti chiamano Mantide! Tu che regni in gloria tra le pietre del nostro camposanto, ti invochiamo…

Le bocche delle donne ripetevano sottovoce all’unisono le parole della donna che pregava nel tugurio. Una malinconica litania saliva nel cielo di Albiceleste come la musica di un carillon.

- Tu che ci hai parlato, tu che con parole di rabbia sei venuta dinanzi a noi, dicci: come sei giunta a morte?

La donna in supplica alzò il volto. Sotto un trucco da megera si nascondeva il viso di Lilia Astoni.

La donna prese a tremare, paralizzata. Le vecchie per strada accelerarono il passo, come spaventate da un lontano sibilo.

- Vedo una mano nera, – pronunciò la fattucchiera Lilia, in preda a convulsioni – la corda e…

Le vecchie entrarono nel tugurio, una piccola cappelletta illuminata da un unico cero. Con respiro affannoso si gettarono sulla Astoni.

La veggente si girò verso di loro con il volto sfigurato in una smorfia brutale.

- La morte! – urlò prima di accasciarsi a terra, priva di sensi.

 

Nello stesso momento, uscì di casa Eugenio. Preso com’era dai suoi pensieri, non poteva di certo captare i sussurri che le vecchie fanatiche esalavano nell’aria. Per lui, la nebbia di quella notte era compagna perfetta per la sortita notturna. Avvolto in un cappotto nero, con la cuffia e i guanti scuri, sgattaiolava lungo le vie secondarie, lontano da sguardi indiscreti, in direzione del cimitero.

Non si era confessato con nessuno, ma una scomoda sensazione non l’aveva mai abbandonato, da quella notte in cui si imbatté nella setta di incappucciati: si sentiva osservato, pedinato, come se da lontano una presenza sinistra non ne volesse sentire di lasciare la presa su di lui. Chi era che lo teneva in pugno? Chi gli alitava sul collo senza mai mostrarsi?

- E se fossero tutte mie elucubrazioni? – si disse in un istante di ottimismo.

… Ma sapeva che non era così. I nervi gli suggerivano ad ogni istante che la verità andava ricercata ad ogni costo, perché quella storia, qualunque essa fosse, aveva finito con l’entrare nella sua vita, con l’appartenergli.

Quella notte era stata anche la notte della brutale uccisione di Marta Nercurini. Un filo rosso legava i due avvenimenti, una identica regia doveva manovrare nell’ombra. Un paese così piccolo, seppur attraversato da così tante dicerie e leggende oscure, non poteva contenere più di un solo demone.

Ma non era solo quell’occhio che lo spiava, a tenere il suo equilibrio sul filo del rasoio. Anche la gente del paese, da quella notte, aveva cominciato a comportarsi in maniera diversa nei suoi riguardi. Ad eccezione di Barbara e Nanni, gli altri lo squadravano con diffidenza. Le vecchie per strada lo sbirciavano sospettose, le colleghe e la bidella si voltavano dall’altra parte, se lo incrociavano, per non parlare degli alunni…

Bisognava tornare dove tutto era cominciato. Era una mossa senza logica, lo sapeva bene. Forse era un modo per fronteggiare la paura, che da quella notte si era annidata nel petto, meschina.

La nebbia avvolgeva il cimitero come una triste compagna; per i campi si spandeva il rumore metallico del vento che scendeva dal fiume.

In un soffio il professore era sceso tra le lapidi. La notte di fango aveva biascicato la sua canzone di velluto su quei sepolcri, giorni e giorni cancellati dall’unica sembianza della pietra.

- Fa bene il vecchio Nanni, – si trovò stranamente a pensare – a non muovere un dito in questa immondizia di vita, che intanto tutti qui si va a finire!

Gli occhi si abituarono alle tenebre e i lumini lungo i loculi sui muri tremavano come lucciole al respiro della notte. Una breve ispezione del camposanto rassicurò il nostro uomo sul fatto che là dentro non ci fosse anima viva.

Poté allora concentrarsi su quello che era il pensiero fisso da quella maledetta notte in poi: capire in quale cappella la setta stesse eseguendo il rituale. Nitti cercò l’angolatura giusta da cui aveva osservato la scena e si pose nella posizione in cui aveva visto gli incappucciati. Quando giunse alla cappella dove veniva officiato il rito, fu senza la minima sorpresa che lesse inciso sul marmo il nome della famiglia Merini.

Un rumore attutito giunse all’orecchio di Eugenio. Si acquattò guardingo, indietreggiando tra le lapidi. Una luce fioca traballava alla sua sinistra e gli veniva incontro, lenta ma inesorabile.

- Sono loro, gli incappucciati! – pensò tra sé.

Era la luce di una candela; sbucati da chissà dove, un gruppo di persone stava camminando verso la cappella della famiglia Merini.

L’insegnante si mise al riparo, dietro una colonna, e prese a sbirciare indisturbato. Tre incappucciati pregavano con violenza isterica, come se intendessero aggredire la notte. Deposero la candela ai piedi della cappella e si presero per mano.

- Non vedo la quarta persona – sussurrò Nitti.

La nenia si interruppe all’improvviso, così repentinamente che Nitti si convinse che potessero essersi accorti di lui. Ma non era così: lentamente il primo incappucciato liberò il viso; si trattava di una persona che Eugenio aveva intravisto in paese, ma non ricordava dove. Anche il secondo fanatico si smascherò e dal nero dell’orribile cappuccio scintillarono i capelli biondi di Laura Donati. Il terzo, che era colui che aveva tenuto il cero e guidato la funzione, attese un attimo, in contemplazione; quindi seguì i compagni: tra le lapidi comparve il volto di Natalino Andenti.

Eugenio Nitti fece in tempo soltanto a sentire un cupo scricchiolio alle spalle, uno spostamento d’aria improvviso, poi un nero dolore al capo cancellò ogni cosa dalla vista e si sentì sprofondare dentro un pozzo.

(12 – continua)

Daniele Vacchino