LA MANTIDE 11

I ragazzi di prima erano scesi alla mensa, al piano terreno, e la scuola era rimasta deserta. Un timido sole scintillava da dietro le finestre e l’erba stentava a scrollarsi di dosso la rugiada della notte. Si erano sistemati nell’aula, il professore di lettere e la professoressa di sostegno, per mangiare un panino, loro che non dovevano fare servizio mensa. Perfino Perla, la bidella tuttofare, tornava a casa durante il pranzo del giorno di rientro pomeridiano.

- Prosegue bene, il lavoro con il tuo ragazzo? – domandò Nitti alla collega.

- Sono soddisfatta. Mi pare che qualche miglioramento ci sia.

Barbara Pizzoli vestiva una gonna corta beige, abbinata a un maglioncino di lana bianco a maniche corte e col collo dolcevita. Si era profumata abbondantemente e mangiava composta il panino, seduta al banco come un’alunna.

- Il collegio docenti, quando ce l’ha fissato il preside?

- Non ricordo, dopo controllo sull’agenda.

Pareva che il professore stesse perdendo tempo, girando intorno ad una questione che gli interessava porre alla collega. Era particolarmente nervoso, il nostro uomo, e rivolgeva a Barbara occhiate intermittenti.

- Ma tu che sei di qui… – disse alfine – Che idea ti sei fatta, leggendo i giornali?

- Dici riguardo alla morte di Marta Nercurini?

- Proprio.

- Non è che ho letto granché, sai. La cronaca nera non la amo. Conosco la vicenda per sommi capi e poi, come tutti, ho sentito le voci che circolano in paese.

Il professore ascoltava attentamente la voce della Pizzoli, cercando di carpire dalla tonalità delle frasi possibili varchi, punti deboli, dubbi, segreti.

- E cosa vanno dicendo, le vecchie comari? – sorrise acido.

- Parlano delle stranezze di Natalino, ormai unico erede della casata Merini, e di una strana profezia che la madre, Lilia Astoni, aveva fatto subito dopo la morte della vecchia Serena.

- Che genere di profezia?

- La madre di Natalino è la fattucchiera del paese, e si riunisce i lunedì sera, nel suo postribolo, con le vecchie superstiziose, a leggere le carte. Pare che il lunedì successivo alla morte di Serena Merini, le carte lette da Lilia abbiano previsto la morte violenta di Marta Nercurini.

- Mi pare una gran sciocchezza – la provocò Eugenio, rivolgendo lo sguardo al di là della finestra.

- Può anche darsi. Ma anche gli amici di Natalino riferiscono di strani comportamenti, tenuti dal giovane nel periodo successivo alla morte della vecchia Merini.

- I giornali, però parlano di omicidio rituale, di maniaco seriale, stillano confronti con i mostri della recente storia…

- Non me ne intendo di queste cose – fece cupa la professoressa.

- Un esperto di cronaca nera, di un giornale nazionale, invitava la polizia ad indagare sugli omicidi irrisolti della zona.

- Omicidi irrisolti?

- Già. Ma non credo che Albiceleste conti una vasta teoria di casi del genere.

- Proprio no. – Barbara tentennò – A dire il vero, però, qualcosa di preoccupante nel passato potrebbe essere accaduto, quaggiù…

- Cosa intendi dire? – domandò prontamente Nitti.

- Hai sentito parlare della terribile alluvione?

- Qua e là. Più che altro ho visto i segni sui muri. Dev’esser stato un avvenimento traumatico.

- Mia nonna mi raccontava sempre una storia che mi teneva sveglia la notte, relativa a quegli anni. A dire il vero, non so quanto di reale ci possa essere…

- Prova a raccontarmela.

- Dove il paese confina con l’arena e la terra diviene il letto del fiume, negli orli abitati che si affacciano sul bosco, c’erano vecchie cascine, che il fiume aveva preso a erodere senza sosta. Le famiglie avevano perso ogni cosa e il fango segnava le loro gambe. Alcune avevano visto i figli inghiottiti dalla risacca del fiume, che prima divora la piana, poi la abbandona come un amante stufo, famelico di altre prede.

La porta dell’aula era socchiusa e soltanto uno spiraglio di aria poteva penetrare dal corridoio. I due insegnanti erano concentrati nella conversazione, come se una bolla d’aria li avesse rapiti. Non si curavano del fatto che, da diversi minuti, un occhio li stava fissando, dalla soglia della porta. Un occhio che leggeva le loro labbra e decifrava le parole pronunciate a bassa voce. Quell’occhio era lì, nella fessura della porta, e non li mollava con lo sguardo.

- Il paese era in ginocchio e l’attenzione di tutti era rivolta al tentativo di ricostruire quanto l’opera rovinosa del fiume aveva portato via. Al comune erano andati perduti i registri delle nascite e la conta dei dispersi avveniva di famiglia in famiglia, di caseggiato in caseggiato, senza un metodo condiviso. Alcune famiglie presero a piangere i propri cari, di altri nuclei sopravvivevano soltanto alcuni individui. Grazie al lavoro collettivo e agli aiuti che arrivavano dal resto dell’Italia, le strade ripresero ad essere percorribili e le principali attività sociali furono nuovamente messe in moto. In quei giorni mia nonna, che era allora una giovane donna, girava con certe sue amiche, per distribuire viveri ai lavoratori e aiutare in piccole faccende domestiche le famiglie più bisognose. Fu allora che mia nonna sentì raccontare di certe giovanissime ragazze che, seppure pareva fossero sopravvissute all’alluvione, non si trovavano più. Inizialmente, mia nonna e le sue amiche pensavano che quelle storie venissero loro raccontate per impensierirle, allontanandole dai luoghi più solitari, che a causa del cataclisma erano diventati ancora più temibili. Quando, però, si resero conto che la diceria non abbandonava il paese, la paura si fece palpabile come un morto che ci fissa in una camera chiusa. Le giovani del posto presero a parlare dell’orco del bosco, così lo chiamavano, dato che le giovani scomparse erano spesso state viste per l’ultima volta in prossimità di quello che oggi è il Parco Naturale. Quando, mesi dopo, la polizia riprese il controllo effettivo della zona, venne aperta un’inchiesta sulle persone scomparse a causa dell’alluvione. Alle orecchie delle forze dell’ordine giunse la voce dell’orco del bosco e vennero interrogati i parenti delle ragazze. Ma i parenti, che nella maggior parte dei casi erano persone colpite duramente dall’alluvione e ridotte sul lastrico, risposero che le giovani erano venute a mancare durante il cataclisma. La polizia fu indotta a pensare che si fosse trattato soltanto di una leggenda popolare diffusasi in un momento di particolare gravità per il paese. Quel che, però, restava di raggelante, era un particolare, che sopravvisse alla chiusura del caso come un sinistro interrogativo: le ragazze che si diceva fossero state rapite dall’orco appartenevano tutte ad una ristretta fascia di età ed erano tutte studentesse della scuola media di Albiceleste.

Eugenio si sollevò di colpo dalla sedia e si avvicinò alla porta d’ingresso dell’aula. Un rumore l’aveva fatto sobbalzare. Come se qualcuno, dietro la porta, avesse emesso un sibilo, come se qualcuno li stesse spiando. Mise la mano sulla maniglia e spalancò con decisione. Davanti a lui c’era Lorenzo, uno dei suoi alunni, che con la bocca ancora sporca di briciole salutò il professore ed entrò in aula, seguito dai compagni.

- Ah, sì, sedetevi ragazzi, scusate – disse Nitti portando le mani alle tempie, imbarazzato.

Con finta noncuranza raccolse i resti del pranzo dalla cattedra e così fece Pizzoli, prendendo posto su una sedia a fianco del collega.

Il professore aggrottò la fronte e rivolse all’insegnante di sostegno una complice smorfia:

- Quindi erano studentesse di questa stessa scuola? – domandò ansioso sottovoce.

- Di questa scuola.

Prese coraggio e portò lo sguardo sulla classe: gli studenti avevano ordinatamente preso posto tra i banchi.

- Bene ragazzi, ora abbiamo… Abbiamo?

- Storia, professore – gli fu risposto in coro.

- Bene, storia. Carlo Martello e Poitiers. – sbirciò sbadatamente dal libro del primo della fila – Allora, Carlo Martello…

 

La spiegazione di storia era terminata e il rientro pomeridiano era giunto all’ultima ora di lezione. La professoressa Pizzoli aveva finito la sua ora di supporto all’alunno con problemi cognitivi ed era uscita dall’aula rivolgendo un caldo sguardo di reciproca comprensione al collega. Era il momento della lezione di antologia e già gli alunni erano sprofondati nella lettura collettiva del brano del giorno.

Eugenio, nella noia pomeridiana, rifletteva su quanto l’atteggiamento degli allievi cambiasse con l’entrata e l’uscita di scena di Barbara. I ragazzini, si sa, sono pronti a modellarsi a seconda della presenza adulta che si trovano davanti. In questo caso specifico, però, si trattava di un’insegnate di sostegno, che poco o nulla poteva influire sul loro percorso scolastico. Non si poteva neppure dire che Pizzoli fosse una collega che si intrometteva negli affari dell’insegnate di cattedra, o che invadesse lo spazio riservato alle lezioni. Il suo lavoro consisteva in una presenza silenziosa, alle spalle di Nitti, e a supporto unicamente del ragazzo assegnatogli. Eppure, nella maniera di parlare, di muoversi, di guardarsi dei suoi alunni, poteva notare un salto.

- Sarà per via del fatto che è una loro compaesana – si disse.

Forse era proprio così: gli studenti parevano in un certo qual modo frenati dalla presenza della docente. Alcune volte, addirittura, aveva intravisto uno degli alunni fermarsi di colpo dal fare qualcosa e fissare impietrito per un frammento di secondo la collega. Quando, però, Nitti si voltava istintivamente a cercare corrispondenza dei gesti del ragazzo nella sagoma di Barbara, si trovava a constatare con stupore che la professoressa stava facendo tutt’altro.

- E’ un rispetto sano, in quanto non la conoscono, altro che una segreta confidenza! – si rincuorò.

Intanto, i ragazzi si susseguivano nella lettura del brano, allenati com’erano nel darsi il cambio autonomamente ad ogni capoverso. Il professore, sovrappensiero, si era avvicinato alla finestra e poggiava con l’anca al termosifone ancora tiepido. L’inverno fuori parlava di lente processioni di piccioni, sui tetti delle case. Fu la lugubre riunione tra le tegole di uno sparuto manipolo di grigi soldati, con il loro fare ombroso e solenne, a riportare alla mente di Eugenio i fatti della notte al cimitero. Era come se le parole ascoltate in tutti quei giorni non avessero fatto che allontanarlo da quanto aveva toccato con mano quella nottata. La processione degli incappucciati tra le lapidi era ancora lì, davanti ai suoi occhi, e nel petto farfugliava ancora il suo cuore, al pensiero della fuga per scappare dall’inseguitore avvolto dal buio.

- E se la risposta stesse lì, in quel cimitero? – si domandò quasi muovendo impercettibilmente le labbra.

- Forse l’assassino si trovava proprio lì, a pochi passi da me, e dopo aver preso parte alla processione si è diretto verso la clinica, per uccidere Marta Nercurini!

Le sagome degli incappucciati tracciavano arabeschi nella mente dell’insegnante, poi si confondevano con i visi delle persone che aveva conosciuto ad Albiceleste.

- Devo trovare il coraggio di tornare al cimitero. E devo farlo di notte.

Si accorse di colpo che il brusio della lettura si era interrotto e nell’aula regnava uno sconsolato silenzio. Rivolse lo sguardo alla classe: gli alunni erano seduti compostamente nel banco e guardavano il loro professore. Eugenio accennò una parola, ma si accorse che i ragazzi lo fissavano con occhi statici, come fossero marionette. Per un istante che a Nitti parve sconfinato, si ritrovò a squadrare i suoi ragazzi, che a loro volta lo fissavano senza movimento e senza vita, come fossero stati ipnotizzati. Il professore si mosse e un ronzio salì dal fondo dell’aula. Gli studenti parlarono all’unisono, privi di espressione facciale, e come una preghiera recitarono meccanicamente:

- Non bisogna andare al cimitero di notte. Nessuno deve andare la cimitero di notte.

(11 – continua)

Daniele Vacchino