LA MANTIDE 10

La notte era spessa come il ventre di una vecchia, filamenti d’alghe soffrivano a mezz’aria e spessi banchi di nebbia salivano di colpo da dietro i portoni delle cascine. Albiceleste era scura come una venere nera, imbalsamata in quel limbo viscoso che avviluppa i rumori e le forme. Qualcosa, in quel disperdersi di luci, sarebbe potuto benissimo scomparire, come una massa di materia che cade inghiottita in un buco nero.

Eugenio Nitti stava varcando il portone d’ingresso della scuola. Per quale motivo si stesse recando a scuola di notte, non lo ricordava affatto. Aveva un appuntamento? Qualcuno l’aveva chiamato per telefono, chiedendogli di farsi trovare nell’edificio? Guardò se stesso e si rese conto di non essersi cambiato: subito una malefica sensazione di non essere attrezzato ad affrontare quanto intendesse fare lo colse. Le porte si aprirono e il suo ingresso dentro la struttura scolastica fu silenzioso. Le scale che portavano al piano superiore erano illuminate dal lampione che dalla strada si affacciava su quel tratto di edificio. La porta del piano superiore era accostata. Il corridoio era vuoto e l’odore di candeggina saliva dalle piastrelle, inquinando l’aria della notte. Il buio era solido e solo brevi angoli di spazio erano talora illuminati da luminescenze fioche. Una remota voce femminile lo stava chiamando, dal fondo del corridoio. Cosa lo aveva portato fin qui?

Quando giunse all’altezza della prima aula, si accorse che la porta era spalancata e sulla cattedra era stato acceso un lumicino, che illuminava il volto biancastro di una madonna. Era una statuetta votiva, che forse gli alunni avevano portato, con lo scopo di allontanare da Albiceleste le vibrazioni negative che il recente delitto aveva propagato. Un esile coro, come di bambine che bisbigliano, saliva da sotto i banchi. Eugenio si scosse, con l’intento di allontanare da sé quella suggestione.

Quando arrivò in prossimità dell’aula della seconda classe, però, la sua percezione venne confermata: dentro lo stanzone, sotto il primo banco, appena rischiarate dalla luce di un cero, si erano accucciate due delle sue alunne. Erano le ragazze della prima fila, quelle che il professor Nitti stimava sopra tutte: studentesse accorte e operose, che trascorrevano le lezioni fissando il loro docente con viso solerte, arricciandosi i capelli dietro le orecchie. Le due giovani erano attorcigliate l’una all’altra e con le manine si carezzavano il volto e il collo. Le labbra dell’una sfioravano impercettibilmente le labbra dell’altra, mentre le lingue mollemente si rincorrevano.

Ancora, una voce femminile, che questa volta Eugenio udì nitidamente appartenere a una vecchia, pronunciò il suo nome. Era un richiamo che pareva salire dal ventre della scuola, come un terremoto che sale. Il nostro professore si mosse, spaventato. Fu per questo che le due alunne si accorsero del loro professore. Allora si voltarono lentamente verso di lui, come se in realtà fossero pienamente a conoscenza della sua presenza fin dal suo arrivo, e fissandolo con occhi molli dissero:

- Professore, non viene qui tra noi?

La voce delle due studentesse era opaca e cangiante, pareva provenire da dietro le loro spalle.

- Professore, la luce la spegniamo. Nessuno ci potrà vedere…

Fissandole, Eugenio prese a tremare: si era accorto che, in certi punti del corpo delle due ragazze, gli era possibile vedere oltre la loro figura.

- Sono delle ombre! – biascicò tra sé.

- Professore… – e intanto si baciavano il collo con le boccucce chiare.

Quando si voltò e fissò il fondo del corridoio, si accorse che una figura scura, nel buio, lo stava fissando. Era come se le pareti si fossero di un poco avvicinate. Era una morsa. La figura non si muoveva. Solamente, ad Eugenio che la fissava con terrore, dava l’impressione che dall’oscurità stesse sogghignando.

Dietro il buio, in un istante che a Nitti parve enorme, gli sembrò di scorgere il volto di una vecchia, il volto di una signora che aveva intravisto soltanto sulle pagine dei giornali locali…

- Serena Merini – parlò all’indirizzo del buio.

 

Poi si svegliò. Le lenzuola erano pregne di sudore e la luce grigiastra della luna filtrava a stento da dietro la nebbia: aveva dimenticato le persiane alzate.

 

Alla Clinica Sant’Agata la luce diffratta della luna, attutita come dietro le dita della mano dalla nebbia, rischiarava tremante i pavimenti dei corridoi. Un silenzio di corsia ristagnava nell’aria e dalle stanze usciva l’aira rotta del sonno.

Giovanni Incaglia aveva faticato non poco a prender sonno. Da quando il giovane Eugenio era venuto l’ultima volta, a raccontargli della processione al cimitero e di quell’ombra che l’aveva seguito fino a casa, il suo riposo ne era rimasto contaminato.

Laura Donati, che era di turno quella sera, aveva dato le gocce e la camomilla a tutti i pazienti, poi si era ricoverata nel suo camerino e, colta da un’improvvisa folata di sonno (era normale? Non le capitava mai), si era lasciata cadere sulla branda, che normalmente adoperava soltanto per leggere, nelle ore di veglia.

Il direttore Giacomo Sanzi aveva visitato prima di cena i pazienti, come di consueto, quindi si era rinchiuso nello studio, con la fretta di gettarsi al lavoro su un caso clinico (o era qualcos’altro a preoccuparlo? Forse la polizia aveva fatto certe domande, a cui il dottore sul subito non aveva voluto rispondere, ma certi dubbi avevano aperto uno squarcio nei suoi ricordi). Anche Sanzi, però, era presto crollato in un sonno potente e senza sogni, la testa sprofondata tra le braccia conserte, seduto dietro la scrivania nera. Possibile che anche lui avesse questa improvvisa esigenza di riposare?

Tra i corridoi senza passi, avvolta dentro un impermeabile scuro e con un passamontagna a coprirle il volto, una figura percorreva gli spazi della clinica, cancellata dal buio che saliva dal fondo del fiume. Con circospezione assoluta e stando attenta a non destare anima viva, si intrufolò nello studio che conservava i documenti dei pazienti e vi si chiuse dentro. Accese un computer e con i guanti neri premette i tasti. Entrò nel database delle cartelle cliniche dei pazienti della clinica e scorse la lista degli anni. Il computer conservava la lista di tutti i pazienti ricoverati presso la Clinica Sant’Agata, dalla sua fondazione, fino ai giorni nostri Quando riconobbe la cartella clinica che gli interessava, la scorse rapidamente. Il paziente veniva descritto in quanto a patologia, origine, dati anagrafici, vissuto e percorso clinico. La mano nera ordinò al congegno elettronico di cancellare per sempre la cartella clinica dalla memoria. Emettendo solo un fruscio, la figura ritornò sui suoi passi e trovò la via d’uscita, scomparendo nel buio della notte, lo stesso buio da cui era venuta.

(10 – continua)

Daniele Vacchino