LA MANTIDE 09

Domenico Tregalli aveva preso alloggio ad una pensioncina, l’unica in paese, e tutto stropicciato da un sonno tormentato era sceso per strada, alla ricerca dell’indirizzo a cui doveva recarsi. Aveva quarantacinque anni, il nostro ispettore, e una vita rovinata alle spalle, come tutti noi. Usava ripetersi come un mantra che le cose erano così, andavano sempre male, e qualora un particolare della propria vita potesse essere voltato per il verso giusto, era solo questione di tempo: presto avrebbe mostrato il suo vero lato, vale a dire quello negativo. Masticava tabacco e di tanto si fumava qualche spinello, in barba ai controlli del corpo di polizia, intanto il capo del laboratorio analisi era suo amico. Portava lunghe basette spioventi e capelli rasati (a dire il vero, il look era più ispirato dalla necessità – nascondere le calvizie incipienti – che dal gusto, dato che in gioventù era stato un motociclista), giacche corte e abbondanti, camicie a quadri e jeans scuri.

L’esser stato padre di una ragazzina depressa l’aveva portato ad essere più sensibile alle sofferenze umane; ma quando la ragazza, ormai adulta, si era trasferita in Francia e non l’aveva più cercato, la sua predisposizione benevola nei confronti del mondo lo aveva in parte abbandonato.

Quella mattina non faceva che ripetere a se stesso le parole degli esperti di criminologia, giunti, come lui, al paese di Albiceleste per sbrigare le faccende dell’omicidio Nercurini.

“Chi ha eseguito questo omicidio ha grande confidenza con la morte”.

Per le grigie strade del paese non passava nessuno. Qualche gatto stanco camminava sui muri alti delle ville e, nel seguire i loro tracciati, Tregalli notò i segni dell’acqua sui muri, ricordo indelebile dell’alluvione che aveva segnato il paese, tanti anni or sono.

“Ha già ucciso e ucciderà ancora. Non si può scappare da un vizio del genere”.

A Domenico, però, la pista dell’omicida seriale non convinceva poi molto. Erano alcuni particolari a condurlo verso altri lidi: era come se la messinscena della morte risultasse un poco forzata. Forse, qualcuno aveva voluto deviare le indagini, per nascondere la vera motivazione di quello scempio.

“Non si fermerà. Inscenerà qualcosa di ancora più macabro”.

Eppure, la stella satanica, la crocifissione, il medaglione con la mantide religiosa raffigurata… Qualcosa era di troppo, doveva essere di troppo!

L’ispettore si fermò davanti al portone di una casetta bassa, situata sulla via centrale. Mise il dito al campanello e premette quello con su scritto Andenti – Astoni.

Lilia Astoni era una donna bassa e in carne. Aveva all’incirca sessant’anni e il viso era liscio e rotondo, con spesse gote e labbra carnose. Vestiva pantaloni di velluto nero e una camicia a sboffo, bianca e antica, che le arrivava fin sotto il mento, goffamente. Era truccata, ma in maniera grossolana, facilona, e il maquillage si sposava perfettamente con il tono della casa.

- Desidera? – disse invitando Tregalli ad entrare.

L’appartamento era scarsamente illuminato e tappezzato ovunque da riquadri di fotografie, raffiguranti la donna, in età fiorente, stretta all’uomo che doveva essere stato suo marito.

L’ispettore non rispose e guardava le stanze con fare fanciullesco: attendeva sornione la reazione della donna, ne spiava di sottecchi le palpitazioni, convinto che, se qualche mistero covava sotto, il silenzio l’avrebbe danneggiata.

Era una casa erosa dal tempo, si trovò a pensare Domenico, e il paragone tra quelle mura, quell’amore che non c’era più, e la propria relazione con la figlia lontana si materializzò come uno spettro che si annida tra i muri.

- Il padre di Natalino – disse pensieroso fissando uno dei tanti portaritratti.

La donna non fu particolarmente scossa, né dal fare dell’intruso, né dalla domanda. Si era preparata tutto a tavolino e attendeva accovacciata nel silenzio quella visita, oppure era una povera donna, le cui difese erano franate?

Mentre Lilia Astoni raccontava le sorti della famiglia, l’ispettore si spostò in sala, senza chiedere il permesso, e le pareti, i mobili e le suppellettili presero in quel luogo a parlargli più strettamente. L’ambiente era kitsch, puzzava di cloroformio, e la polvere cadeva nei punti in cui le tenui lampade ne rischiaravano il moto. I divani erano cosparsi di bambole e peluche e i mobili erano laccati di fresco, ma con cattiva mano.

- Da quanto tempo vivete in questa casa? – disse a casaccio Tregalli, senza ascoltare la risposta.

La donna parlava muovendo lentamente le mani e, all’emissione del suono, il collo flaccido le penzolava come se fosse un dinosauro.

- La luce… In certi punti è assente, – pensò tra sé il nostro ispettore – è come se si cercasse di mettere in vista qualcosa, oscurando altre parti.

Poteva benissimo, da quell’ambiente degradato e fiaccato dal tempo, sbucare dal basso una sinistra figura, magari un vecchio clown o una donna senza spalle.

- Signora, – di colpo Tregalli puntò gli occhi piccoli e spessi sul viso della donna – suo figlio nell’ultimo mese non ha sbagliato un colpo.

Lilia non si scompose e, comprendendo le ragioni di quella frase, allontanò con grande circospezione l’attenzione della discussione dal figlio.

- Quando le cose devono capitare, ispettore mio, – diceva senza muovere un muscolo del viso – basta che lo spirito sia pronto ad accoglierle…

Le frasi della donna erano talmente generiche da poter far pensare che non potesse formularne di più specifiche, come se il suo cervello fosse regredito ad uno stato in cui le forze di causa ed effetto si sciolgono nel liquido del nulla.

Sul davanzale, sedeva una schiera di sbiadite bambole, corrose dall’azione degli anni. Tra di loro, una, la più striminzita e lacera, aveva perso gli occhi. Tregalli si avvicinò e la prese in mano. Con la coda dell’occhio, notò che i muscoli del collo della vedova Andenti guizzarono.

- Era la bambola preferita di mio figlio. – quasi si scusò la donna – Ci giocava in continuazione.

L’uomo che agiva per conto delle forze dell’ordine posò il giocattolo e guardò la Astoni con impazienza, come se di colpo qualche bisogno lo premesse.

- Signora cara, abbiamo un morto di quelli che fanno voltare lo sguardo al Signore. Quella donna doveva dividere il patrimonio di Serena Merini con vostro figlio. Ma la sua esistenza si è spenta pochi giorni prima della lettura del testamento. Mi aiuti a non pensare male…

La donna sorrise, inebetita.

- In paese, corre voce che voi abbiate abilità di chiaroveggenza, che con le carte abbiate doti limpide. Capirete perciò che, da parte vostra, non mi posso accontentare di qualche sorriso e delle frasi di circostanza di una madre che cerca di coprire il figlio.

La donna si scostò, cercò l’appoggio dello stipite della porta e vi si appoggiò. Per un istante, in quella luce cadente che c’era nella sala, a Tregalli parve che la fattucchiera fosse scomparsa dietro il muro, approfittando dell’oscurità.

Sorrise ancora, Lilia Astoni.

- Venite, – fece cenno all’ispettore con la mano – seguitemi.

Come dentro alla pancia di un serpente, nelle cavità cangianti di un ambiente ora luminoso ora caduto nell’oscurità, Domenico seguì i passi della donna fino ad una camera stretta e spoglia.

- Ispettore, la camera del mio Natalino.

Qui la luce era alta e celestina. Mobili squadrati in legno e un odore di naftalina congelavano i muri sottili e la tappezzeria geometrica.

- Come vede, ispettore mio, questo non è il ripostiglio di un mostro. Natalino è solo un giovane molto svogliato, che ha saputo, però, accompagnare i movimenti della sorte.

 

Quando Domenico Tregalli uscì dal condominio dove viveva la famiglia Andenti, una nebbia spessa e scura aveva insabbiato le facciate delle case. Si toccò la testa: scottava. Si sentiva confuso e gli pareva come se fosse rotolato dalle scale, come se fosse stato spinto fuori da quella casa, con una forza lenta ma inesorabile.

- Quella strega! – imprecò.

L’ispettore non lo inquadrò sul subito, ma in quella casa c’era qualcosa nell’aria, un odore che non poteva non intaccare le narici, che possedeva su chi vi entrasse un ascendente antico.

(9 – continua)

Daniele Vacchino