LA MANTIDE 06

Il fiume scorreva placido, quella sera. A vederlo in un momento come quello, nessuno avrebbe mai potuto credere che lo stesso corso d’acqua, anni addietro, fosse stato protagonista di una rovinosa alluvione, che mise in ginocchio gli abitanti della zona, causando anche morti e dispersi.

Arenata alla terra ferma, la nave in cemento della ex colonia elioterapica fascista era l’unica fonte di luce tutt’attorno, immersa com’era nel Parco Naturale. Per le stanze della clinica, si spandeva un silenzio crescente: sintomo che i pazienti si preparavano per mettersi a letto. La terapia prevede dodici ore di sonno continuativo; qualora i pazienti non riescano a raggiungere il tetto delle dodici ore, vengono loro somministrati i sonniferi.

Il direttore Sanzi procedeva al rituale della buona notte, che consiste nel passare di camera in camera, controllare la cartella clinica e lo stato di salute del paziente e decidere quale terapia somministrare, se necessario.

Sulla porta di una camera, lo attendeva Laura Donati, con aria impaziente nel camice bianco e con i capelli raccolti dietro le orecchie.

- Dottore, la Nercurini insiste nel volerle parlare. Ho fatto di tutto per non disturbarla, ma…

- Non si preoccupi Laura, ha fatto bene – il direttore accennò un sorriso da sotto i baffi argentei, poi serioso entrò nella stanza e, cartella clinica alla mano, si posizionò al fianco della paziente.

Su un letto troppo grande, giaceva una donna corta e ossuta, con i capelli neri e le borse sotto gli occhi, i denti ingialliti e le orbite degli occhi annerite.

- Direttore, finalmente – il tono della voce era fiacco e altalenante.

- Signora Marta, mi dica pure, sono a sua disposizione.

La donna cercò di tirarsi su con le braccia, ma il direttore le fece cenno di non affaticarsi. La donna aveva segni di graffi sui polsi e le iridi erano irregolari, dai contorni a tratti cancellati.

- La morte sta giungendo – il volto pallido della donna era un teschio.

Il direttore accennò un sorriso distensivo.

- Hanno provato ad uccidermi!

- Signora mia, si rilassi. Qui nessuno vuole il suo male.

- Vogliono l’eredità! TUTTA l’eredità!

Giacomo tentennò e si voltò un istante nella direzione dell’infermiera, che era rimasta sulla porta e pareva tesa. Poi aggrottò la fronte e cercò di confortare la paziente.

- La solita dose di sonnifero – disse di sfuggita alla Donati uscendo dalla camera.

- Direttore, veramente pensavo…

Sanzi si fermò e rivolse lo sguardo all’infermiera.

- Di aumentare un poco la dose, tanto ormai?

- Tanto ormai?

- Già – Laura abbassò lo sguardo.

- Da quando lei decide le dosi da somministrare ai pazienti?

 

Eugenio Nitti chiuse la fiamma del gas e si versò il caffè della moka nella tazzina. Appoggiandosi al lavabo della cucina, sorseggiò la bevanda con pazienza, scrutando con lo sguardo oltre la finestra.

Aveva preso casa fuori dal centro, in una viuzza lontano da sguardi indiscreti. Il nostro professore era un uomo che amava i luoghi fuori mano: la stessa assegnazione della cattedra alle scuole medie di Albiceleste era stata cosa da lui gradita. Intendeva stare alla larga dai grandi flussi, dalle attenzioni dei superiori, dalle magagne della burocrazia.

- Il provveditore vuole mandarmi a insegnare a casa del diavolo? – si era detto – Sia fatto il suo volere. Tanto meglio.

Aveva affittato un appartamento modesto e minuto, con un piccolo bagno bianco, un cucinotto striminzito e una camera che fungeva da salottino e da camera da letto. I punti forti dell’alloggio erano il terrazzino sotto il tetto e la vasca da bagno, chiara e accogliente, per farci intensi bagni caldi, rilassanti. Si trovava all’ultimo piano di un condominietto di due piani, ormai quasi disabitato e privo di scomodi vicini.

Di amicizie, da quando era arrivato in paese, ne aveva fatte pochine: ad eccezione di Nanni Incaglia, l’unica persona con cui scambiasse volentieri due parole era la collega Barbara Pizzoli.

- Se avesse ereditato dalla vecchia zia – si trovò meschinamente a pensare – avrei anche potuto sposarmela.

Poi, però, si vergognò di se stesso ed allontanò il pensiero dalla testa. Si vestì rapidamente, ma meticolosamente, ed uscì di casa. Prese la porta sul retro e infilò uno stretto viale che costeggiava un fossato, in faccia alla campagna. Era intabarrato in un giubbotto nero, con il bavero alzato, e una cuffia gli copriva la testa. Camminava rapido, fissando davanti, ma stando attento a carpire luci e rumori che gli potevano balenare sui fianchi. Era convinto che nessuno potesse accorgersi del suo passaggio. Si sbagliava, però: di tanto, dalla finestra di qualche casupola, faceva capolino qualche vecchina. Lo fissava con occhi attenti, magari addirittura dietro le lenti di un binocolo da teatro. Quando lo riconosceva, qualcuna di quelle curiose si faceva il segno della croce, come a voler scongiurare il passaggio di una presenza malvagia.

Il professore giunse di fronte a un muro: lo ispezionò e, trovati gli appigli che conosceva, lo scavalcò senza patemi. Si ritrovò tra le lapidi di un cimitero. L’assenza di luna rendeva il marmo delle cappelle un blocco buio di materia; si potevano soltanto riconoscere le sagome delle lapidi a terra e delle croci. Remoto, giungeva il fruscio del fiume. Eugenio accese una torcia sottile e si orientò tra i tumuli.

- Il vecchio Nanni ha parlato di Alberto Verdi – si disse tra sé. E si mise alla ricerca del nome.

Non ci volle molto a trovarlo: era una lapide di marmo sul muro principale del camposanto. Il professore non esitò nemmeno un istante di fronte alla foto in bianco e nero di un uomo con la barba e le basette strette. Con uno strattone fece saltare l’apertura del loculo ed estrasse la lastra in marmo che sigillava la salma. Solo ora si concentrò sulla foto del defunto.

- E ora vediamo se, come dice il vecchio Nanni, ti hanno sepolto con un bel carico d’oro.

Uno strano lamento salì dal buio, tra le masse scure delle cappelle. Nitti si interruppe e volse lo sguardo, allarmato. Pareva la litania di una preghiera, ma non aveva la cadenza delle normali recitazioni: era molto più veloce, violenta, come se fosse urlata a tremuli rantoli. Dal buio emerse la testa di un uomo oscurata da un cappuccio. Dietro di lui, si agitava un’altra figura, vestita con un lungo saio e recante nelle mani un turibolo. Una terza figura incappucciata chiudeva la fila. Eugenio si acquattò, in silenzio. Le tre sagome ballonzolavano attorno a una cappella. Ad un tratto, uno di loro accese un cero e lo depose ai piedi della struttura. Alle spalle dei tre, lontano dal cono di luce, comparve una quarta figura, che da principio parve volersi unire al gruppo di incappucciati, ma poi si nascose nel ventre di una cappella funeraria. Questa quarta figura non portava sul capo un cappuccio e si spostava con rapidità, tenendo d’occhio i tre in preghiera.

Eugenio, facendo attenzione a non urtare le lapidi, tornò sui suoi passi. Silenzioso come un gatto superò il muro e si gettò a capofitto sulla via del ritorno.

Qualcosa, però, si era incollato alle sue spalle. Senza nemmeno accorgersene aveva iniziato a correre e quella che doveva essere una cauta ritirata si trasformò in una fuga. Si voltò, a più riprese, ma non vide nulla. Forse, dopo aver svoltato ad un bivio, riconobbe un’ombra, rasente al muro, che lo fissava mentre lo seguiva. Eppure era sicuro che qualcuno fosse alle sue spalle: poteva sentire il rumore dei suoi passi, rapidi e metallici. O erano i suoi stessi passi? Dietro i muri sentiva dei fruscii. Le finestre delle case erano tutte improvvisamente aperte (chissà quante persone lo avevano visto, mentre correva spaventato nella notte!).

Raggiunse casa e si chiuse dentro con foga, serrando i chiavistelli fino al termine della loro corsa. Restò al buio (se avesse acceso la luce, qualcuno dei vicini avrebbe ricollegato il rumore di passi per strada con la sua abitazione, illuminata a quella tarda ora della notte). La luce delle scale che filtrava da sotto la porta si spense e il nostro uomo respirò a pieni polmoni, con il cuore che gli squassava le membra.

Fu un attimo: la luce delle scale si riaccese. Eugenio la fissò terrorizzato e il fiato ricominciò a pulsargli forte all’altezza dello sterno. Di colpo si rispense.

- Come è possibile! – urlò dentro se stesso con terrore – la luce delle scale ha lo spegnimento automatico!

Con la mano corse all’interruttore della luce. Lo premette. Niente: la luce era saltata.

- Ha tagliato i cavi della corrente? – si domandò strisciando dietro il muro.

Nitti non poteva saperlo. Ma un occhio lo stava fissando dalla serratura della porta. Quell’occhio guardava nel buio e già poteva distinguere le forme. Laddove un occhio normale non avrebbe mai potuto scorgere alcunché a causa dell’oscurità, una vista abituata alle tenebre aveva dato senso alle sagome e fissava sinistra il nostro uomo.

(6 – continua)

Daniele Vacchino