LA MANTIDE 05

Il professore Eugenio Nitti raggiunse la scuola media e salì la scalinata che conduceva alle aule. Un corridoio deserto e silenzioso immetteva nelle tre aule delle rispettive classi e, in fondo, una piccola aula insegnati: ecco la scuola del paese. Il nostro uomo tirò dritto verso l’aula insegnanti e si rinchiuse dentro, immergendosi nei libri di testo.

Poco dopo la porticina dell’aula insegnanti si aprì ed entrò una giovane donna con i capelli rossi a caschetto e le labbra sottili e sorridenti. Era Barbara Pizzoli, professoressa di sostegno, che coadiuvava Eugenio nella classe prima, durante le ore di grammatica e storia, nell’insegnamento a un ragazzo con disturbi cognitivi. I due colleghi si salutarono cordialmente e la professoressa Pizzoli prese posto accanto al termosifone. Era infreddolita e si lamentava dell’umidità che dovevano patire in quella struttura, a causa dell’obsolescenza degli impianti. Barbara aveva gli occhiali quadrati e stretti, da docente di lingue antiche, e gli zigomi pronunciati. Il mento era largo e incassato, la fronte spaziosa e prominente; il fisico, asciutto, era sempre avviluppato graziosamente in minigonne di lana e collant, accompagnati da stivaletti a suola bassa.

- Stai preparando le verifiche di venerdì.

- Sì, avrei poi voluto discuterne con te, riguardo al tuo alunno…

Barbara era nata ad Albiceleste e l’arrivo di quel professore giovane e smunto, altero e freddo, sul subito, l’aveva lasciata indifferente. Poi, complice il doverci passare le ore assieme, in aula, aveva finito con l’apprezzare i suoi modi autoritari e sicuri con la classe, che venivano accompagnati da maniere timide e sobrie nei suoi confronti. Come molte donne, la professoressa di sostegno era caduta vittima del fascino dell’uomo di potere, nonostante Eugenio non fosse per nulla consapevole di ricoprire un ruolo simile. Il nostro uomo, in fin dei conti, dal suo punto di vista agiva solamente con l’intento di sopravvivere con decoro: conosceva la scuola e negli istituti in cui era stato aveva imparato che mantenere gli alunni a debita distanza era il solo modo per condurre in porto l’anno scolastico.

Ora Barbara accavallò le gambe e lo fece proprio nel momento in cui il collega si stava sporgendo nella sua direzione, per porgerle la bozza del compito in classe. Fu un movimento non casuale e, sul subito, Nitti parve apprezzare, anzi, si sarebbe potuto dire che stava per prendere l’iniziativa nei confronti della collega, quando d’un tratto interruppe l’inerzia del proprio movimento e, come trattenuto, arretrò.

- Gira voce in paese – disse Eugenio con voce fredda – che tu sia stata estromessa da un’eredità che ti spettava…

Pareva che il tono di Eugenio fosse teso a creare un’improvvisa distanza.

- Parli della zia?

- Le comari dicono che fosse una somma importante e tu potresti dispiacertene.

- Parli con le comari? – ribatté la docente scocciata, prendendo meglio posto sulla sedia.

- Non è questo, – il volto di Eugenio scivolò sulla verifica – certe frasi te le infilano nell’orecchio anche se non vuoi, qui.

- E’ un piccolo buco – Pizzoli si guardò attorno.

- Lo è. E quello che non finisci col sentire, te lo fanno leggere gli alunni, nei temi in classe.

- I mocciosi fanno le spie?

- Direi che ci tengono a che il loro professore sia a conoscenza di quel che succede quaggiù.

Barbara ebbe una smorfia, che poteva essere di disgusto, così come di timore, poi disse, quasi per interrompere l’imbarazzo:

- La vecchia megera era mia prozia.

- Le hai fatto un torto?

- Una faccenda senza importanza.

- Ti sei giocata molti soldi, mia cara.

- Non dipende da me. E’ stata la Nercurini a mettere il veleno tra me e la vecchia.

- Marta Nercurini? La pazza che sta alla Clinica Sant’Agata?

- Proprio lei. Siamo lontane cugine e ha fatto di tutto per buttarmi fuori dai giochi.

- Mi risulta che non sappia più nemmeno da che parte sia girata.

- Così dicono. – Barbara aveva un tono tagliente nella voce – Ma quando l’hanno ricoverata alla clinica, i rapporti con la zia, come la chiamavo allora, erano già stati compromessi.

 

Quando il professore uscì dall’aula insegnanti e discese lo scalone, incrociò il preside Fausto Lenzi, che saliva i gradini.

- Professore, finalmente ci incontriamo con un attimo di pace – disse sottovoce.

- Preside, quale piacere.

Tanto i modi di fare del preside erano gentili e aggraziati nella direzione del proprio interlocutore, così le maniere del professore erano statiche e distaccate.

- Un caffettino rapido, per fare reciproca conoscenza, me lo concederà pure… Lasci che la inviti al bar qua sotto, staremo più comodi, a parlare. Sa, io qui tengo regno, ma non ho un solo lembo di pavimento su cui issare il mio trono.

Un barettino stretto e dalle pareti rosate, con il bancone lucido e la cameriera piccolina e cordiale era il luogo di ritrovo dei docenti, quei pochissimi, dell’istituto. Nitti vi entrava per la prima volta.

- Lei sa, tra i cinque istituti su cui esercito la dirigenza, il tempo per soffermarmi alla periferia è pochina – il pizzetto sottile e sempre ben rifinito del dirigente fioriva su un viso dalle labbra sottili, pallido e ben calibrato, levigato.

- La capisco.

- Lei sa, tra tutta questa carta, burocrazia a non finire, esili fitti fogli da compilare e rispedire… – il preside parlava compostamente, in maniera precisa e compunta, e le sue rapide e soffici frasi parevano studiate, sembravano essere in rima.

- Con i genitori, per quella faccenda là, tutto risolto, sa, tutto appianato. Bastava aspettare un po’, lasciare scorrere il pendolo del tempo, e la conoscenza reciproca avrebbe aggiustato tutto.

Il professore assentiva con il capo.

- Noi tutto sommato, però, qui ricopriamo un incarico notevole, siamo il simbolo di qualcosa di positivo, di costruttivo, per i ragazzi e le famiglie del paese, mentre là, – con la testa Lenzi indicava un punto qualunque – là…

- Là… – ripeté generico Eugenio.

- Diciamolo apertamente, professore: nel bosco, quella clinica di matti! Le pare un monumento alle capacità umane o il tempio dove nascondere il nero della società?

Senza attendere la risposta del proprio dipendente, proseguì:

- Noi dobbiamo allontanarci da quella sembianza, è nostro preciso obbligo farci efficiente faro dentro il mare della vita, di fronte alle avversità, per conservare l’intelletto, – con il dito disegnava forme nell’aria, mentre la cameriera lo fissava indifferente – la razionalità e il lume della conoscenza, in questo mondo declinante.

Con impeto il preside terminò il caffè e, asciugandosi su un tovagliolino le labbra strette, congedò in un sorriso il professore e abbandonò di gran fretta il bar.

(5 – continua)

Daniele Vacchino